Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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lunedì 25 maggio 2015

Opiemme. Vortex. Galassie di parole

link: http://wsimag.com/it/arte/14921-opiemme-vortex




"Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Incontrerò una parola
che trattenga il tuo corpo e lo faccia girare,
che contenga il tuo corpo
e apra i tuoi occhi come un dio senza nubi
e usi la tua saliva
e ti pieghi le gambe.
Tu forse non la sentirai
o forse non la capirai.
Non è necessario.
Vagherà dentro di te come una ruota
fino a percorrerti da un estremo all’altro,
donna mia e non mia
e non si fermerà neanche quando tu morirai".
(Roberto Juarroz)

Tutto in me ruota vorticosamente: scatole e mente
(Gaetano Arcangeli)

Vortex è l'incontro con la parola, che si fa materia. Una costituzione cosmopoetica è la ricerca che porta l'artista Opiemme con il ciclo di tre mostre, la prima al Bi-Box Art Space a Biella, la seconda conclusasi recentemente negli spazi di Portanova12 a Bologna e la terza che si terrà allo Studio D'Ars a Milano il prossimo Novembre.

Vortex indaga la stretta osmosi ciclica che vi è tra uomo e cosmo, interpellando parole, poesie, pianeti, e stelle. Lo spazio della pittura diventa respiro e luce. Il lavoro trae ispirazione dal libro L'alfabeto scende dalle stelle. Sull'origine della scrittura di Giuseppe Sermonti, nel quale si sostiene che l'alfabeto non sarebbe altro che un'immagine derivata dalle forme delle costellazioni. Il linguaggio non diviene quindi che una proiezione fluttuante dell'universo. Quanta vertigine e vastità nell'ombra di questo pensiero. Lettere come petali di soffioni, vorticosamente si liberano nel dipinto murale sopra l'Autostazione di Bologna. N, S, Y, F, I, H, M, ecc...

La serie di questi lavori però sono frutto anche di un certo sentire dell'artista, di una certa poetica portata avanti soprattutto negli ultimi due anni in giro prima per tutta l'Italia con Un viaggio di pittura e poesia e poi per il mondo, come Haiti, Thailandia, Uruguay, Argentina (dove ha partecipato alla 5a Bienal del fin del mundo) e la Polonia. Proprio in Polonia, secondo il mio parere, Opiemme ha dato forma e corpo all'emblema di Vortex, tramite il dipinto murale sulla parete di dieci piani per il Monumental Art a Gdansk dedicato a una donna che ha fatto della poesia uno struggente acuto lucido sentire, la poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Da Sotto una piccola stella: "Verità, non prestarmi troppa attenzione / Serietà, sii magnanima con me".

Come elementi irridescenti le lettere fluttuano e piovono da un gigantesco pianeta-buco nero. L'infinito poetare si ibrida all'oscuro mistero del cosmo. Una profonda introspezione genera l'abisso della parola. Una colata arcobaleno sovrasta e si frammenta in lingue di colore geometrico. Tutto è soppesato da forze contrastanti, sempre nei lavori di Opiemme. Dicotomico e calibrato, anche nel primo testo critico Daniele Decia descrive Vortex come una ricerca tra astrattismo e la parola, di "lettere informali", tra informale e poesia visiva. Lettere genitrici e fecondanti aggiungo io. Lettere atomi, lettere attimi.

Nei lavori esposti a Bologna, si può appunto constatare questo dualismo tra la tecnica dello stencil più rigoroso e uniforme in un teso e delicato confronto con il dripping multiforme e multicolorato, imprevedibile e casuale. L'astrofisico inglese Martin Rees scriveva: "Il Sole e il firmamento fanno parte del nostro ambiente - il nostro habitat cosmico: una percezione che gli scienziati condividono con poeti e mistici. "Io sono parte del Sole, micosi come il mio occhio è parte di me" scriveva D.H. Lawrence, e Van Gogh dipinse la Notte Stellata con lo stesso spirito con cui dipingeva i campi di grano e i girasoli. L'arte e la letteratura abbondano di simili esempi. La scienza rende più profondo questo senso di appartenenza a ciò che non è terrestre. Noi stessi, d'altronde, siamo a metà strada tra l'universo è il microcosmo: per mettere insieme la massa del Sole ci vogliono tanti corpi umani quanti sono gli atomi in ciascuno di noi. E la nostra esistenza dipende, certo, dalla tendenza degli atomi ad attaccarsi gli uni agli altri e unirsi in quelle molecole complesse che formano tutti i tessuti viventi, ma l'ossigeno e il carbonio dei nostri corpi sono stati creati, a loro volta, entro stelle lontane, vissute e morte miliardi di anni fa". Questi pianeti tatuati di lettere e parole diventano pelli intergalattiche.

Il poeta della streetart, come da molti definito, ha attinto da penne fiere e storiche, come Gaetano Arcangeli, Roberto Roversi, Lucio Dalla, Edgar Allan Poe, Eugenio Montale trasformando i versi in colate opulescenti di lettere che prima di farsi immagine, sono per me materia evanescente e nebulosa. Le parole sono decostruite per piovere a uno stato disgregato e gassoso, libero e caotico. Ho trovato come perfetto supporti alla polvere poetica, le cartine geografiche e le anziane pagine di alcuni Resto del Carlino. In questi lavori le lettere e i pianeti sono più decisi, grafici, autonomi, ma pur conservando una loro autonomia, riescono a interagire in punta di piedi con le realtà loro sottostanti. Gli spazi sono lattiginosi dripping che donano la completa percezione della consistenza Lattea, puntiforme e infinita.

Le galassie di parole si intersecano come precipitazioni meteorologiche su strati di memoria, di notizie e di luoghi, di geografie che ormai sono divenute orizzonti nelle mente dell'osservatore. Pulviscolare e centrifugo l'atto pittorico di Opiemme, cerca di ricondurci all'origine, al caos dell'inizio, al chiasmo organico della materia, all'inizio del linguaggio. Nell'ancestralità della costituzione riesce nei propri equilibri visivi a unire micro e macro. Una pittura che nel silenzio dell'universo è onomatopeica e altisonante. Declamatoria. I suoi lavori tendono a essere appelli, nell'urgenza e brevità di un verso notturno che si fa lampo di memoria e visione.

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
/
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all'occhiello
la rosa dei venti.
/
Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.
/
Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
/
La nave che non c'è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell'orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…
/
Tutto è pronto. Sul serio. Invano.
(Juan Vicente Piqueras, Voglia di restare)

Federica Fiumelli








martedì 21 ottobre 2014

Nemo's


My last article on WSI mag:
http://wsimag.com/it/arte/11570-nemos


Uno sparo. Uno strappo, un graffio. Era carta che si levava e a ogni abbandono dalla superficie era un rigenero. E poi l'acrilico nero flottava ma si posava deciso e irrequieto allo stesso tempo. Quel rumore di carta appallottolata e stracciata e toccata e vissuta e schiaffeggiata e incollata e accarezzata e accolta e scelta era come adrenalina pura che si andava a innestare tra i sensi. Un sottovuoto. La mela di Newton non si posava e rimaneva un pensiero indivisibile che gravava sulla gravità. La colla era come miele denso e le parole dei giornali come api si posavano distratte rapide per poco tempo, quello che bastava per essere di passaggio brevemente. Le linee sanno di liquirizia e fumo. 
"Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?". 
Così affermava Mark Renton in Trainspotting
E ancora Lou Reed canterebbe come segue:
I don't know just where I'm going
But I'm gonna try for the kingdom if I can
'Cause it makes me feel like I'm a man
When I put a spike into my vein
Then I tell you things aren't quite the same
When I'm rushing on my run
And I feel just like Jesus' son
And I guess that I just don't know
And I guess that I just don't know
E ancora scelgo queste strofe saltandone alcune: 
And I guess I just don't know
And I guess that I just don't know
I wish that I was born a thousand years ago
I wish that I'd sailed the darkened seas
On a great big clipper ship
Going from this land here to that
Ah, in a sailor's suit and cap
Away from the big city
Where a man cannot be free
Of all the evils of this town
And of himself and those around
Oh, and I guess that I just don't know
...
Ma "we can heroes just for one day" risponderebbe lo Ziggy Stardust per eccellenza. 
Hero-in il lavoro dell'artista Nemo's eleva l'essere uomo a eroina-eroe di un tempo dismesso rannicchiato su se stesso in un tunnel dalle sembianze tutt'altro che familiari. L'uomo è compresso nello spazio mortifero di una siringa. Il mondo si droga dell'uomo, ormai più stupefacente dello stupefatto. Underpressure, il contagio è a misura umana. Questo lavoro pensato per la IV biennale di Socino a Marco è il risultato di disegno, acrilico e carta da giornale, una cifra stilistica essenziale di Nemo's. Ma chi è Nemo's? 
La scelta del nome è già piuttosto affascinante, da Nemo capitano delle venti leghe sotto il mare, al corrispettivo latino no-one. Una tag perfetta per chi lentamente impara a conoscere le creature di Nemo's. Sono dei nessuno in misura di una bellezza straziante. Strane equazioni visive che riflettono situazioni comuni. Ma l'apostrofo S rimane un inequivocabile marchio di fabbrica. Un distintivo d'identità.
Ma andiamo per ordine. L'artista stesso ammette di non sapere se aver imparato prima a disegnare o scrivere. Un'immagine però resta vivida, un disegno di un cerchio rosso e due occhi lo resero molto felice, e la visione di un illustratore locale grazie al suo papà permisero a questa giovane mano di non smettere di disegnare (e fortunata-mente). Il resto è storia verrebbe quasi da dire.
Ma chi sono questi uomini che popolano i muri scelti accuratamente e mai per caso dall'artista? I lavori di Nemo's prevedono un prima e un dopo e questo grazie alla tecnica del collage scelta dall'artista che diventa un linguaggio nel linguaggio. La carta da giornale che l'artista utilizza è a tutti gli effetti un metalinguaggio. Oltre ad essere determinante per riconoscerlo ovunque, la carta è precaria, è suono, rumore, vita. I lavori di Nemo's invocano il tattilismo più sfrenato, anche di marinettiana memoria se vogliamo. Strappo dopo strappo, onomatopeica-mente presente cosa rimane? I personaggi si scarnificano mostrandoci impalcature ossee smaccatamente white. L'umanità apostrofo 'S è facilmente riconoscibile, quasi fatta in serie, si presenta nuda e cruda, e la pelle è caduca tanto quanto la nostra. I tatuaggi della loro pelle sono le nostre parole e la nostra storia. 
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni? O piuttosto delle nostre crude cronache? Purtroppo Shakespeare per un problema generazionale non poteva certo pensare a Il Sole 24 ore. Quel che è certo è che difficile assomigliare alle parole che si dicono per riprendere un pensiero alla Stefano Benni. Forse è proprio per questo che la generazione Nemo's fa fatica a rispecchiarsi nella società e le creature si presentano come numeri primi intrisi di solitudine. Ma senza cadere nella disperazione e nel pessimismo più leopardiano, questi esseri dai corpi opulenti e dagli arti troppo sottili per volare veramente, in questo squilibrio disarmonico ci fanno riflettere, portandoci a una lettura più profonda, ci ricordano la nuda vita decantata da Agamben, ricollegandoci ai concetti di bio politica di Foucault. 
Foucault legava indissolubilmente le politiche di governo al regime di realtà, dal dopoguerra il mercato è diventato il luogo dove si denota il senso della realtà. Il governo degli uomini si struttura secondo direttive e logiche fantasmatiche di potere che sia esso economico o politico. Nella fase della biopolitica il soggetto politico è la popolazione. La libertà è un paradosso. Agamben sosteneva infatti che il potere del governo si esercitava direttamente sulla vita, sul bios, sul nudo dato biologico. Il legame tra politica e vita è sicuramente mortifero e il campo di concentramento diventa paradigma di questa unione. Agamben fa così riferimento all'homo sacer:
"Sacer è colui che è stato escluso dal mondo degli uomini e che, pur non potendo essere sacrificato, è lecito uccidere senza commettere omicidio”. 
L'homo sacer così possiede solo la nuda vita, è un outsider, escluso dalla comunità, può essere ucciso da chiunque, viene definito anche una singolarità qualunque. E questa singolarità è proprio quello che custodiscono l'umanità apostrofo 'S. Gli esseri di Nemo's sono riconoscibili e identificabili tra loro perché quasi identici nei tratti compositivi ma allo stesso tempo sono singolarità, perché ogni pezzo di carta, ogni goccia di acrilico e ogni messaggio sono differenti. Fiori rari che si increspano su muri sempre diversi. Trovo significativo al fine della poetica dell'artista il titolo di un altro lavoro, il primo dove viene utilizzata la carta non a caso, R-UMoRi. 
I rumori sempre diversi scandagliano i sensi e come gli umori sono albe di giorni diversi. I sensi e l'emozione. La tecnica di usare il collage di carta riciclata permette al tempo di trasformare esteticamente l'opera al fine di una ricezione sempre diversa. Corpi lievitati, costellati da molteplici bocche come fossero serrature abbandonate, cuciture, appare un baby con palloncino rosso reale alla mano, false speranze? Il grafismo di Nemo's è risonante e sonoro, leggero ma perturbante, centrifugo e dinamico, la grafica è essenziale e la skin-paper acquista colori tonali tenui, omogenei nella loro differenza costante, una cipria di parole e fatti quotidiani. 
E allora colpiscono le linee di contorno che si fanno come tracce del tempo nei solchi degli alberi, si fanno massicce e numerose, si ripetono, in un virtuosismo allucinato, caricaturale e grottesco. Cerchi concentrici che vogliono essere suonati a suon di strappi come vinili di memoria latente. Gli occhi sono sassi lanciati in un oceano di pelle di parole, che lasciano il loro affondo visibile in quelle stradine di acrilico noir. E sono presenti anche intorno alle bocche, tracciando un all'ingiù quasi irrecuperabile, sono espressioni franate, catastrofiche. 
Intenso il lavoro fatto contro lo sfruttamento minorile che vede ogni giorno un numero elevato di bambini strappati al loro tempo per produrre oggetti di consumo quali scarpe. In Choose is better a Madrid, un bimb-uomo in posizione fetale fluttua evanescente aggrovigliato in una matassa malvagia rossa che lo tiene appeso insieme a desolanti scarpe. L'aborto del diritto all'infanzia è qui compiuto sotto le fila di un capitalismo beffardo. Sempre a Madrid altro lavoro intensamente poetico, Free like a birds vede racchiuso un uomo nella sua intera nuda vita in una gabbia appesa e sospesa, l'uomo rassegnato, spalanca la bocca e gli occhi non possono che guardare la moltitudine gialla, piumata di uccellini che circondano la prigionia, in un contrasto visivo da pugno allo stomaco, da montagna russa, una dicotomia contrappuntistica che cuce a sé libertà e controllo, immobilità e vita. 
E guardando nel profondo del vuoto che fa eco senza ritorno, ecco che l'intervento a Camden, Londra, presenta un uomo in orizzontale con una ferita, interstizio, serratura, tasca, al posto del cuore. Un enorme scavo di buio pesto. In mano un paio di forbici e la classica bocca spalancata tra lo spavento e la sorpresa, quinte teatrali abbandonate che mettono in scena drammi bulimici. Ma ecco che come al solito l'artista non sceglie a caso il proprio muro. Quando scende l'oscurità della notte ci rendiamo conto che la torcia che l'uomo tiene in mano è stata creata su un'illuminazione già esistente nel panorama urbano. 
Il disegno si innesta perfettamente nel già esistente per inglobarlo in un secondo tempo nella propria narrazione. Fare luce nelle interiore è un viaggio che spaventa ma Nemo's é strong è un balsamico alla menta, è carta da Fisherman's Friend, fa rimanere a bocca aperta noi come i propri personaggi. Molto critici anche gli ultimi lavori Rip Off a Sapri e Men like Cows a Vedriano. Nel primo caso l'uomo nudo (quasi larva bloccata per una successiva metamorfosi), è tirato per gli esili arti da due ceffi benvestiti, probabilmente business man a giudicare dal look. Ancora una volta la nuda vita è strattonata dalle potenze vigenti. A Vedriano invece la mutazione kafkiana è avvenuta con un eco di orwelliana memoria. L'uomo bovino dá show di sé, e ancora una volta, le chiazze dark tipiche del manto dell'animale in questione non sono che porte buie e profonde, precipizi dell'oscurità più gocciolante, finestre abbondante, dalle quali nessun papa o profeta potrà declamare salvezza. 
Trovo interessanti, molto interessanti anche le prime produzioni (dall'acrilico su tela, agli sketches ad altri supporti) dell'artista sempre rivolta con sguardo attento al dato contemporaneo che tanto ci influenza, e allora una Pietá che stringe tra le braccia un corpo che al posto della testa ha un bel monitor TV a tubi catodici acceso sul Grande Fratello, e ancora tv-volti Mediaset che si impiccano. O ancora il papa che orchestra uomini come un abile regista, o un coppia taglia over nuda seduta specularmente su poltrone da quiz show, rosse, che tenta di cambiarsi cambiando canale, (qualcuno spera nello spegnimento totale e permanente) signori scuri e lugubri incarnati e incarnanti i simboli di potere che al posto di un bicchiere di Starbucks succhiano linfa cerebrale da giovani cervelli. 
Nemo's riflette sulle forze di potere, sui simboli della cultura di massa, sui mass media e riconferma le tesi che già dai futuristi per arrivare a McLuhan o Orwell di come i moderni strumenti di comunicazione potessero influenzarci e di come questi esercitino su di noi vere e reali forme di controllo. E allora ecco che ci rivediamo come la nuda vita in quella gabbia sospesa, tra lo spaesamento e l'illusione fittizia di poter essere liberi. Cagacemento rimane uno dei pezzi su muro più forti (da menta strong) dell'artista, del 2010, a Milano, la creatura famelica, rosea e nuda si nutre avidamente di alberi per espellerli dal retro sottoforma di edifici, ed edifici, ed edifici in cemento, un'enumerazione più grigia di uno smog metropolitano. Sembra sentir cantare il rock politik Celentano ai tempi del ragazzo della via Gluck. "Perché continuano a costruire le case? E non lasciano l'erba. Non lasciano l'erba. Chissà se andiamo avanti così, chissà come si farà...". Chissà. 
L'immaginario allucinato della generazione apostrofo 'S come l'ho definita, targata Nemo's, ci lascia perplessi e perturbati in aperta riflessione con le cose che attorno a noi vivono anche se non ce ne accorgiamo, perché sì, non me ne vogliano i benpensanti se non mi avvalgo di una chiusura troppo raffinata ma Nemo's "spacca" letteralmente (o straccia in riferimento ai collage on wall) i lati B, d'altronde Cagacemento ce la dice #strong. Menta(l)mente.












The Monsters Mash @ Spazio San Giorgio, Bologna








Art of Sool
Opening Saturday 27th September 2014 - 7pm
27th September - 1st November 2014

La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.
Chuck Palahniuk, Cavie, 2005

Un mash up mostruoso, ecco che cos’è “Monster Mash”.
Sia mash che mostro sono parole che vogliono porre l’accento sulla mescolanza, sull’ibridazione, sul melting pot, sul mescolone, sul cocktail, sull’infuso, sulla contaminazione di mostruosità mostruose.
Forse si tratta di un’ apologia del mostro?
Ma prima di farne una celebrazione è giusto porsi: che cos’è un mostro?
È per il senso comune definito come un personaggio reale o immaginario cui vengono attribuite caratteristiche straordinarie per i quali ci si discosta dalla norma, si trascende quindi il normale e l’ordinario. (Ma cos’è poi definito normale?)
Spesso usato con accezione negativa, mostro viene definito anche chi deforme o chi presenta anomalie estetiche.
Ma è venuto prima il mostro o l’uomo?
Antico come questa domanda probabilmente retorica, di mostri se ne parla fin dalle origini, allora scappa un’enumerazione che farà sicuramente eco nella memoria di tutti: dal mondo egizio a quello greco basta pensare a Cerbero, alle gorgoni, al minotauro, a polifemo, al ciclope, e ancora in altre civiltà e culture, ai troll agli orchi, alle loscuste, alle bestie del mare, a Satana stesso, al floklore e alle fiabe, dai golem, alla mandragola, la bestia della Bella e la Bestia, a Quasimodo nel gobbo di Notre Dame, ai folletti agli gnomi, ai lupi mannari, ai vampiri, alle streghe che hanno popolato libri o film, a Dracula, a Frankestein, Freddy Krueger, a King Kong, a Mr. Hide, all’uomo che ride di Victor Hugo, alle mummie, alle fantasmagorie allucinate del cinema espressionista tedesco dei primi decenni del Novecento (da Nosferatu al Dott. Caligari), al più recente immaginario che va dagli alieni ai cyborg, ai post-human, agli esseri biomorfi e neo tecnologici che hanno popolato l’immaginario di Floria Sigismondi con i celebri videoclip per Marilyn Manson o David Bowie.
Sembra proprio che l’essere umano li generi e li crei per confrontarsi e interrogarsi in qualche modo su se stesso.
L’essere mostruoso ha da sempre infatti ispirato tutte le arti visive, dalla pittura alla scultura, al cinema, alla musica, come non ricordare uno su tutti, il padre dei moderni visionari, Goya, il quale affermava proprio che:
“Il sonno della ragione genera mostri.”
E allora ecco che irrazionalmente e ironicamente, in taglio super neo-pop, il collettivo degli “Art of Sool” ci sforna una generazione di mostri ad hoc.
Confezionati in vero stile sool, dal grafismo famelico e preciso, leggero e vivace, la banda di mostri che ci sguinzagliano è tutto sommato confortante e per niente spaventosa.
Si perché se la società vigente ci vuole tutti bell’impacchettati con lo stesso fiocco, in questa età della super iper comunicazione, in piena globalizzazione, dove la standardizzazione sembra la nostra vera ombra, quest’ombra tanto vale perderla come faceva Peter Pan.
E i Sool lo sanno bene, tant’è che i loro mostri sono realmente diversi, sono dei freak, outsiders, dei mash-up visivi altisonanti, sono differenti perché probabilmente riconoscono le loro paure e cacciano via la maschera dell’omologazione e delle finte e buoniste velleità “umane”.
I cliché se li mangiano a colazione.
I mostri del giovane collettivo bergamasco attingono dal più vasto e folle immaginario, si cibano di ogni cosa o idea facendo sbarcare l’estro collettivo della gang dalla strada, al fumetto, dal wall painting, all’illustrazione, questi ragazzi si nutrono di pane e fantasia, lavorano a più mani, e la loro polifonica bravura e passione rischiara chiassosamente su qualsiasi supporto prendano in considerazione: dal muro alla tela, non c’è pietà per questa invasione salvifica mostruosa. Le immagini di fatto sono caotiche e rumorose, un vero rave visivo.
Un baccano pazzesco, accentuato dalle scritte a fumetto, dalle onomatopee e dalla scelta di composizione a patchwork.
Plastici e volumetrici e i personaggi riempiono tutto lo spazio, ove ce ne sia, la mostruosità è virale, dai colori caramellosi, e rotondi, sembrano intonsi a qualsiasi pioggia acida. Anche nei bianchi e neri tutto è gommoso.
Sono già di per sé corrosivi al punto giusto. Geneticamente modificati sono troppo indie per far veramente paura, sono underground, o al massimo vivono di notte, alla deriva, dei clown situazionisti acronici. Sono maschere di loro stessi e hanno superato Pirandello, non hanno bisogno di nascondersene dietro una vera di maschera, perché loro sono così, tutti diversi divisi dall’uguale.
Originari più che originali, un po’ come ferite aperte, uniche e irripetibili, pullulano e schizzano di vita, pian piano cicatrizzano il dolore e ne fanno un’identità. DNA ad alto tasso di sballatura.
Una parata di flâneur grotteschi, dall’umorismo smaltato che scivola tra le rotondità abbondantemente presenti.
Sembrano urlarci: mostrate i vostri mostri.
L’etimologia di mostrare non a caso, significa: far vedere, presentare ad altri perché veda, esamini, osservi. Rivelare, lasciare vedere. Offrirsi alla vista.
Quindi vuol dire anche un po’ donarsi, e questo soprattutto oggi fa paura.
Fa paura vedere, e allora ci si accontenta di guardare.
Abbiate perciò coraggio di scendere dalla giostrina felice della perfezione apparente.
Mica facile però quando ti s’incolla l’etichetta sul volto.
Un elogio al disagio e alla bruttezza, qualcuno se ne frega della grande bellezza. Decadenti da ridere, un brutto rock, perfino Ensor si farebbe un selfie tra la monster walking targata Sool.
Comicità a parte, i Sool con questa new generation, ci fanno riflettere sulla paura dell’essere diverso, perché è più facile omologarsi che mostrarsi veramente. Ed oggi il mondo è pieno zeppo di paura e l’uomo preferisce giudicare ed escludere piuttosto che capire e integrare.
Chi sono allora i veri mostri?
Prendendo a prestito una cara frase dal film “Forrest Gump” viene quasi da dire:
“Mostro è chi mostro fa.” O forse ancora più opportuno apportando una lieve modifica: “Mostro è chi mostra di sé non fa.”

Federica Fiumelli - Spazio San Giorgio











giovedì 5 giugno 2014

KayOne - Feel Alive -


dal 17 Maggio al 21 Giugno 2014

http://www.spaziosangiorgio.it/mostre/item/feelalive-kayone.html

“L’uomo ama talmente l’uomo che, quando fugge la città, è ancora per cercare la folla, cioè per rifare la città in campagna.”
(Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, 1859-66)
Urbanesimo, associazionismo, cultura, comunità, megalopoli, caos, ma anche interstizi, margini, confini, periferia.
La materia viva della vita, quella calpestabile e democraticamente fruibile, è quella della quale da sempre si è occupata la Street Art.
Una bomboletta in mano e una valigetta stracolma di una potenza di visione esplosiva nell’altra, KayOne, uno degli Street Artist italiani più famosi riesce anche su supporti come la tela a trasporre tutta la forza del caos stradale.
Con un quarto di secolo di esperienza nel writing, osservando i numerosi sketch di preparazione che hanno trovato poi realizzazione su vari muri, si capisce subito la grande passione, la costanza, la ricerca sulla lettera e sulle illustrazioni classiche di ispirazione alla cultura Hip Hop.

Schizzi, abbozzi, “con la testa rivolta al futuro e gli occhi rivolti al passato” come de Chirico metafisicamente sosteneva, KayOne si confronta con il linguaggio delle avanguardie, cattura elementi innovativi, li prende, li sequestra e li riversa silenziosamente, ma con il botto, in strada, in quel teatro urbano e a cielo aperto che tutti ma proprio tutti hanno la possibilità di guardarlo e di farlo, noi spett-attori della strada, di questo funambolico spazio che è allo stesso tempo dentro e fuori.
“Era un po' curioso pensare che il cielo era lo stesso per tutti, in Eurasia, in Estasia, e anche lì. E la gente sotto il cielo, anche, era sempre la stessa gente... dovunque, in tutto il mondo, centinaia o migliaia di milioni di individui, tutti uguali, ignari dell'esistenza di altri individui, tenuti separati da mura di odio e di bugie, eppure quasi gli stessi...”
(dal libro "1984" di George Orwell)

Mura che forse solo la devastante portata energetica del colore, di un’idea o di una parola potrebbero abbattere.
La Street ha sempre portato con sé una riflessione, una differente visione oltre la differenza stessa, oltre il confine, oltre le mura..
“Transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti istantanei, per attimi di incontro, di cambio, di contaminazione..” le parole importanti che una studiosa, amante della street come Francesca Alinovi, una donna che ha saputo cogliere l’importanza di questa modalità espressiva proprio sullo scoppio, sul nascere del movimento underground newyorkese che avrebbe lasciato nella scia nomi stellari del calibro di Haring Basquiat, Scharf e tanti altri..
Parole che sottolineano l’importanza dell’ibridazioni tra generi, ponendo l’accento sull’incontro-scontro di idee, di scelte espressive differenti, con la voglia e la coscienza di sperimentare, provare ed esperire la vita stessa, perché l’utopia novecentista non era solo un sogno, e l’arte si amalgama alla vita, e la vita all’arte stessa..e quale luogo meglio della strada, tra sudori, odori, rumori…in quel gran tutto simultaneo che veniva decantato nel teatro nunique di Birot, non casualmente amico di Apollinaire. Surrealismi che donano alla parola stessa una valenza grafica e plastica, e questo i graffitisti lo sanno bene.

“La vita più intensa della forma, la strada più forte dell’accademia”.
L’arte di KayOne è un odore forte che si insinua nel laconico precipizio di uno sguardo, un grande occhio, o piccolo, non importa, nelle tele l’artista lo inserisce, lo nasconde tra le composizioni astratte, tra le botte di colore e gli schizzi total white quasi purificanti da eraser cromofobo anche solo per un istante, un istante di vita intensa, il limite di uno sforzo, la virata di un gesto, una potenza espressiva declinata e che ricorda gli echi dell’espressionismo astratto americano di Pollock o del new dada colante e aggettante di Rauschemberg.
KayOne guarda ai padri e li rimixa, per una gran tutto caotico, assordante, ma a intermittenze rigorose e geometriche, pensate, lunghe, perché l’arte delwriting richiede tempo e precisione e l’artista ne ha la coscienza.

Gli occhi che KayOne ci nasconde tra le gettate cromatiche, ricordano i grandi sguardi che anche un altro street artist famoso come JR ha utilizzato per i suoi lavori in strada, occhi di matrice orwelliana, precursore del Grande Fratello, sguardi che ci controllano, guardiamo ma veniamo guardati, sempre, continuamente, costantemente.
Occhio come elemento rappresentativo di una visione espansa, occhio saccheggiato fin dai collage dada-surrealisti.
“L’arte di avanguardia non solo non è morta, ma vive spiando con grandi occhi spalancati sul centro della periferia..” affermava brillantemente l’Alinovi.
Occhi spalancanti, famelici, sul centro della periferia, ai margini, tra dentro e fuori.

KayOne nomina e battezza le proprie visioni trasbordanti, Modulazione rossa, Acquario, Sirio, Reattore Quattro, Natura Minacciata, L’origine della Rete, Ciclone Mediatico, Dominazione, Metallo Pesante, CMB, Frontiere Violate.
Titoli che già di per sé sono esplicativi di una volontà di rappresentare la realtà tangibile di noi tutti, quella dei nuovi media, della rete, di un gigante ipertesto nel quale navighiamo anche inconsciamente, perché ormai siamo investiti da un inquinamento semiotico anestetizzante.

E allora diventa impossibile rimanere impassibili davanti a quel tutto assordante di KayOne, lo sguardo viene disturbato ma nell’accezione piacevole, viene sollecitato, in quella centrifuga accesa, dove la bomboletta spray bianca si mischia all’acrilico contro ogni divisione di genere, generando punti di luce focus, vividi e accecanti, vitali come il latte più celebrato nelle pellicole di Kubrickiana memoria, dove anche lì un singolo occhio truccato diventava frontiera violata..
Ma la confusione ritrova anche momenti di logica apparentemente perduta, KayOne usa il lettering alla maniera cubista di Braque, tenendo legati due lembi di un lenzuolo eunuco, figurativo e non figurativo, un astratto distratto?
Forse. Ma noi siamo dentro ad una guerra di cromie pop, quello stesso pop di cui la street spesso si nutre.

Il calibro e lo sparo visivo di KayOne non va mai ingoiato tutto insieme, va sorseggiato a dosi, e solamente così ci si può rendere conto di un attento bilanciamento, di un soppesarsi equilibrato di differenti cariche espressive, tra l’esplosione e l’implosione.
E la città chiama, il legame al sesso, non maschile, non femminile, ma urbano è sempre presente, si fa materia, l’artista infatti ottiene il nero dal bitume e il bianco dalla vernice per le strisce pedonali, ne sentiamo quasi l’odore dell’asfalto, ne percepiamo l’essenza, lo sentiamo sotto le palpebre e sulle ciglia come un mascara, come una stratificazione di memoria visiva che diventa quasi sensuale, e scivoliamo così…across the universe.
Federica Fiumelli  | Spazio San Giorgio







One of my last articles on Wall Street International Magazine

Enjoy!
:)

Link:  http://wsimag.com/it/arte/9068-mp5

MP5

So deep, so dark...


MP5 Street Art
All around me are familiar faces
Worn out places, worn out faces
Bright and early for their daily races
Going nowhere, going nowhere
Their tears are filling up their glasses
No expression, no expression
Hide my head I want to drown my sorrow
No tomorrow, no tomorrow
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I’m dying
Are the best I’ve ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It’s a very, very mad world mad world

(Gary Jules, Mad World)
La sagoma di una donna bianca, con un buco al posto del cuore. E da questo foro sgorga in un flusso inarrestabile, dell’acqua, la stessa acqua nella quale la donna è immersa. No expression, no expression... gli occhi anch’essi fessure so dark, so deep, non sono che ombre, come il naso, i capelli e la camicia dalla quale la protagonista sembra spogliarsi per farci vedere.
Ma per farci osservare cosa? Questo sparo, ferita che è diventato vuoto e accesso di un flusso quasi inquinante. Come non pensare allora alla spersonalizzazione e all’inquinamento semiotico che oggi ci troviamo a subire? Come non ricordare i discorsi di Paolo Rosa nell’"Arte fuori di sé?". Quando l’artista fondatore di Studio Azzurro voleva farci intuire che il pericolo dell’anestesia dilagante è tra noi, e la paura di non riuscire più a sentire niente non è pura retorica.
MP5 street artist italiana, ma non solo, anche illustratrice e scenografa, animatrice e fumettista, ci ha regalato in occasione dell’edizione del Cheap Festival 2013 una sopraffina riflessione sulla società della quale portiamo le mutande, attraverso una serie di poster che avevano come soggetti uomini e donne alienate nel flusso di segni, segnali, informazioni, oggetti, stimoli, idee dei quali quotidianamente siamo sommersi.
Un’eccedere che porta a uno svuotamento. Un sentire che è congelato e sfondato. Con studi di scenografia per il Teatro all’Accademia di Bologna e animazione stop-motion alla Wimbledon School of Art di Londra, MP5 nel 2003 inizia a sperimentare la propria creatività attraverso la Public art, si concentrerà sulla street che la vedrà e la vede tutt’ora protagonista sul territorio europeo. Francia, Svizzera, Italia, Spagna, Germania, Crozia, MP5 lascia sui muri di questi luoghi tracce del suo immaginario calibrato da una cromia à plat, che si staglia tra il bianco e il nero in maniera prevalente. Il suo immaginario bidimensionale attinge dal mondo dell’illustrazione e del fumetto e i suoi personaggi sembrano tanti Donnie Darko alienati.
MP5 narra su grandi dimensioni, e fa del nero un prezioso amante che raramente può bandire all’angolo. Il nero è l’unico despota di questo multi verso. Un elogio al nero. Un nero liquerizia, notte, inchiostro, pece, grafite, petrolio. Un nero senza peso, ombra che delimita e contorna precisamente confini e corpi, volti o animali. Un nero che dà forma al suo opposto, a un bianco, stirato, teso, lavato, accecante, da cancellazione imminente. *The dark side of the moon... *attraverso un'inquietudine costante MP5 ci racconta storie, racconta a noi di noi.
Every year is getting shorter,
never seem to find the time
Plans that either come to naught
Or half a page of scribbled lines
Hanging on in quiet desperation is the English way
The time is gone the song is over,
Thought I'd something more to say…
Scene perturbanti, quasi angoscianti, apocalittiche, paurosamente noir. Scene epiche e ancestrali per il muro in Svizzera, "Minotaur or the red string of fate". Una chiaroveggenza bestiale vede il fato di un rosso vivido, che spacca, o macchia l’equilibrio di bianco e nero, diventando neo carico di sguardo. Un rosso fuoco che si traduce in “Full of fire” a Siviglia, dove un “Donnie” anonimo e spersonalizzato, sagomato, incendia tutto, e allora sì che le fiamme bianche assumono concretamente l’azione cancellante. Il nulla si manifesta anarchico e prende forma tramite l’apatia di un qualsiasi ragazzo con istinti piromani.
I fantocci si assoldano a bulloni, la meccanica sovrasta l’umano come in echi chapliniani l’uomo dei tempi moderni perdeva il ritmo biologico per assumere quasi come un contagio le leggi della produzione meccanica. Così dipinge MP5 in Croazia, sempre attenta all’uomo, all’ambiente e ai reciproci influssi che uno ha sull’altro. Nei buchi dell’esistenza ci sono anche quelli provocati da una pioggia nera e malsana, troppo minacciosa e incisiva per non potere farci i conti. Un’alluvione di colpe, una pioggia acida che si abbatte sui suoi fautori, disperati. Cosa ne è delle risorse in questo…mad mad world?
MP5 dipinge tubi, condotti, ma anche prese elettriche che si snodano come nervi scoperti su sfondi ecologici e troppo green come a l’Aquila. Contrasto e racconto, critica. Personaggi che si snodano nella solitudine del loro grottesco disagio, elevati a grandi icone postmoderne, ormai consce di una perdita di centro, di una confusione palpitante e di una difficoltà dell’esistenza e della definizione di genere che si annienta in fantocci esanimi e stereotipati. Vengono le vertigini a fissare lo sguardo interstiziale di questi popoli erranti (o errati?), precipizi bui, so deep, so dark. Pupi di un teatro di strada a cielo aperto che trovano l’elan vital in quel nero tra il fantastico e l’austero, going nowhere, going nowhere…
Federica Fiumelli














venerdì 15 novembre 2013

Francesca Alinovi. Indagini di frontiera 26 Ottobre - 17 Novembre 2013 presso MAMbo, Bologna.

Ecco il mio ultimo articolo pubblicato sul 
Wall Street International Magazine:

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/agenda/arti/francesca-alinovi-indagini-di-frontiera_20131112160150.html#.UoZF4tL56So

Enjoy! :)




AGENDA - Italy, Arti

Francesca Alinovi. Indagini di frontiera

26 Ottobre - 17 Novembre 2013 presso MAMbo, Bologna.

Francesca Alinovi. Indagini di frontiera

In occasione del trentennale dalla sua scomparsa, MAMbo, Museo di Arte Moderna di Bologna dedica la sala video della Collezione Permanente alla memoria di una grande donna, Francesca Alinovi.
Nativa di Parma, Francesca nella sua purtroppo breve vita ha saputo lasciarci testimonianza di un grande amore. Un amore che si mescola profondamente con la vita che profuma di passione, un credo importante e nobile. Strappataci via in un omicidio terribile che tinse di un nero macabro le cronache dell’estate bolognese del 1983, il delitto del DAMS, ricordato così, ci portò via una delle menti più brillanti, una delle persone più stimolanti del panorama intellettuale artistico. Profonda amarezza. Amarezza per l’impossibilità di incontrarla un giorno in un'aula, o davanti a un caffè per attingere la forza e l’impegno sul campo di una persona che amava ciò che faceva. Francesca sarebbe stata una di quelle persone in grado di travolgere studiosi e non solo, appassionati come me dell’arte, perché l’arte aiuta a vivere meglio.
La mostra al MAMbo, visibile fino al 17 novembre, è curata da Sabrina Samorì e ripercorre attraverso foto e documenti, tra tesi, pubblicazioni e articoli le tappe salienti del lavoro dell’Alinovi. E’ possibile anche vedere un video realizzato da Veronica Santi, The New-new Yorkers, 2013, dove sono raccolte le interviste alle persone e agli artisti che Francesca conobbe, e che sono rimasti contagiati e ammaliati da quella che può essere considerata una delle più grandi esploratrici dell’isola arte.
Veronica Santi con il documentario Off Identikit, un progetto di crowdfounding ha in questi mesi promosso un work in progress che ha il diritto di coinvolgere noi tutti per aiutare la realizzazione di un qualcosa che ricordi l’intenso lavoro di Francesca. E’ un idea che la Santi ci regala, un progetto per tenere in vita l’amore dell’Alinovi, per ridarle voce. “I remember the best interview I’ve ever done in my life was with Francesca Alinovi”. Quest’affermazione era di Keith Haring. Perché le indagini di Francesca erano veramente di frontiera, il suo era un approccio da viaggiatrice curiosa e mai stanca di entrare in sintonia direttamente con l’arte e l’artista. Erano gli anni di esplosione dell’underground, del graffitismo, della New York, pericolosa e sinistra. E Francesca era là, con loro, dall’altra parte della barricata ad annusare, a respirare, a viverla l’arte di strada. Una full immersion a cuore aperto. Ai margini, al confine, Francesca era presente.
L’Alinovi rappresenta la figura di critico-artista, di qualcuno che abdica se stesso per la causa artistica, perché se ognuno ha il diritto di esprimersi come vuole è profondamente interessante capire perché ed entrare in contatto con le varie diversità. Laureata in lettere con Francesco Arcangeli presso l’Università di Bologna, discusse la tesi su Carlo Corsi, in seguito si specializzò in arte contemporanea con Renato Barilli, divenne ricercatrice al DAMS e focalizzò i suoi studi su Lucio Fontana, lo spazialismo, Piero Manzoni, la fotografia, il dadaismo. L’intensa attività di critica e curatrice è costellata da importanti tappe: fra le sue principali pubblicazioni, oltre ai saggi in cataloghi e in riviste specializzate (BolaffiArte,DomusFlash Art), si segnalano: Le due vie di Piero Manzoni, in AA.VV., Estetica e società tecnologica, Bologna, Il Mulino, 1976; Dada, arte, anti-arte, Firenze, D'Anna, 1981; La fotografia. Illusione o rivelazione?, Bologna, Il Mulino, 1981; Natura impossibile del post-moderno, in AA.VV.,Paesaggio metropolitano, Milano, Feltrinelli, 1982. Una cospicua raccolta di saggi è stata pubblicata da Il Mulino nel 1984, con il titolo L'arte mia, ripreso da un articolo pubblicato su Iterarte (n. 21), nel 1981.
Fra le principali mostre da lei curate o co-curate: Settimana Internazionale della Performancepresso la Galleria Comunale d'Arte Moderna di Bologna, dal 1977 al 1982; Pittura-Ambiente, Milano, Palazzo Reale, 1979; Dieci anni dopo. I Nuovi-nuovi, Bologna, Galleria Comunale d'Arte Moderna, 1980; The Italian Wave, New York, Holly Solomon Gallery, 1980; ORA!, Pescara, Studio Cesare Manzo, 1980; Marcello Jori, Bologna, Galleria Dé Foscherari, 1982; Gli anni trenta (sezione fotografica), Milano, Palazzo Reale, 1982; Registrazione di Frequenza, Bologna, Galleria d'Arte Moderna, 1982; Una generazione postmoderna, Milano, 1982. Nel 1984 la Galleria Comunale d'arte moderna di Bologna ha realizzato, su suo progetto, la mostra Arte di frontiera: New York graffiti. Numerosi i contributi delle persone che compaiono nel documentario di Veronica Santi, Kenny Scharf, Daze e Crash, Ontani, Mariuccia Casadio, Ann Magnuson, Toxic, Stefan Eins, Marcello Jori.
Probabilmente il fatto di essere completamente sola durante la visita alla mostra ha amplificato in me qualcosa di interessante, il sentire le voci dal video, parlando di Francesca, le foto, le scritte chiave sulla sua poetica, e tutti gli articoli, le tesi, i ricordi degli amici e compagni di lavoro, sembrava che tutte le sue parole rivivessero come un eco infinito in quella Sala Video. Sembrava che lei fosse lì, i suoi pensieri così attuali, i suoi capelli elettrizzati e neri inchiostro come se le sue idee prendessero una forma plastica. Francesca era le sue parole, quell’energia frizzante commista a una nostalgia al caffè, quell’aura fascinosa che la distingueva, quell’elettricità di tratto quasi come una dama boldiniana. Francesca che affermava: “Io sono come i miei artisti” o ancora: “Ho scelto questo mestiere perché non andava verso il senso comune… ecco a me piace non avere buonsenso.” “Transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti instabili, per attimi d’incontro, di scambio di contaminazione.”
E poi: “L’arte Mia esige che sia ogni singolo individuo a captare a modo suo la sua onda.” “ENFARTE, il pianeta dell’enfasi che si fa arte: l’enfasi del’estasi, l’estasi del mettersi in mostra” da Enfatismo, Flash Art, 1983. “L’arte di avanguardia non solo non è morta, ma vive spiando con grandi occhi spalancati sul centro della periferia.” E ancora il concetto di Arte life-size, un arte a misura d’uomo di taglia individuale. Fantastico anche il concetto di intendere i movimenti artistici come messaggi in bottiglia, piccoli naufragi che noi dobbiamo scoprire, impegnandoci a cercarli e una vola trovati a esplorarli senza paura né pregiudizi. “Sono finiti i tempi dell’aut-aut ed è iniziato il tempo dell’e… e… ”
Anche se non l’ho potuta conoscere di persona e non potrò farlo, le sue parole mi sono state illuminanti, mi piace ricordare Francesca così, con una immensa e maestosa E seguita da puntini di sospensione. Quei puntini simboli di ricerca, di instabilità, di apertura, di work in progress, di ponte verso un futuro ancora da studiare e scoprire, mi piace pensare a Francesca come un'amazzone libera, girovaga e curiosa, a cavallo delle sue parole, con la penna davanti al foglio bianco, con l’inchiostro intrepido di uscire per fissare idee e concetti, voglio pensare che Francesca seduta davanti la sua macchina da scrivere ci abbia lasciata un dono immenso, una testimonianza preziosa che dobbiamo ricordare sempre.
Un cuore immenso, una voglia del sapere viscerale, un vivere l’arte sul campo come una battaglia di pensieri, una moltitudine che riscopre la creatività individuale, ciascuna importante a modo suo, come petali di un unico fiore. L’arte mia è l’arte nostra.


MAMbo Museo d'Arte Moderna di Bologna
Via Don Minzoni,14
Bologna 40121 Italia
Tel. +39 051 6496611
info@mambo-bologna.org
www.mambo-bologna.org
Orari di apertura
Martedì, Mercoledì e Venerdì 12.00 - 18.00
Giovedì, Sabato, Domenica e festivi 12.00 - 20.00

Pubblicato: Martedì, 12 Novembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli