Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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lunedì 25 maggio 2015

Opiemme. Vortex. Galassie di parole

link: http://wsimag.com/it/arte/14921-opiemme-vortex




"Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Incontrerò una parola
che trattenga il tuo corpo e lo faccia girare,
che contenga il tuo corpo
e apra i tuoi occhi come un dio senza nubi
e usi la tua saliva
e ti pieghi le gambe.
Tu forse non la sentirai
o forse non la capirai.
Non è necessario.
Vagherà dentro di te come una ruota
fino a percorrerti da un estremo all’altro,
donna mia e non mia
e non si fermerà neanche quando tu morirai".
(Roberto Juarroz)

Tutto in me ruota vorticosamente: scatole e mente
(Gaetano Arcangeli)

Vortex è l'incontro con la parola, che si fa materia. Una costituzione cosmopoetica è la ricerca che porta l'artista Opiemme con il ciclo di tre mostre, la prima al Bi-Box Art Space a Biella, la seconda conclusasi recentemente negli spazi di Portanova12 a Bologna e la terza che si terrà allo Studio D'Ars a Milano il prossimo Novembre.

Vortex indaga la stretta osmosi ciclica che vi è tra uomo e cosmo, interpellando parole, poesie, pianeti, e stelle. Lo spazio della pittura diventa respiro e luce. Il lavoro trae ispirazione dal libro L'alfabeto scende dalle stelle. Sull'origine della scrittura di Giuseppe Sermonti, nel quale si sostiene che l'alfabeto non sarebbe altro che un'immagine derivata dalle forme delle costellazioni. Il linguaggio non diviene quindi che una proiezione fluttuante dell'universo. Quanta vertigine e vastità nell'ombra di questo pensiero. Lettere come petali di soffioni, vorticosamente si liberano nel dipinto murale sopra l'Autostazione di Bologna. N, S, Y, F, I, H, M, ecc...

La serie di questi lavori però sono frutto anche di un certo sentire dell'artista, di una certa poetica portata avanti soprattutto negli ultimi due anni in giro prima per tutta l'Italia con Un viaggio di pittura e poesia e poi per il mondo, come Haiti, Thailandia, Uruguay, Argentina (dove ha partecipato alla 5a Bienal del fin del mundo) e la Polonia. Proprio in Polonia, secondo il mio parere, Opiemme ha dato forma e corpo all'emblema di Vortex, tramite il dipinto murale sulla parete di dieci piani per il Monumental Art a Gdansk dedicato a una donna che ha fatto della poesia uno struggente acuto lucido sentire, la poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Da Sotto una piccola stella: "Verità, non prestarmi troppa attenzione / Serietà, sii magnanima con me".

Come elementi irridescenti le lettere fluttuano e piovono da un gigantesco pianeta-buco nero. L'infinito poetare si ibrida all'oscuro mistero del cosmo. Una profonda introspezione genera l'abisso della parola. Una colata arcobaleno sovrasta e si frammenta in lingue di colore geometrico. Tutto è soppesato da forze contrastanti, sempre nei lavori di Opiemme. Dicotomico e calibrato, anche nel primo testo critico Daniele Decia descrive Vortex come una ricerca tra astrattismo e la parola, di "lettere informali", tra informale e poesia visiva. Lettere genitrici e fecondanti aggiungo io. Lettere atomi, lettere attimi.

Nei lavori esposti a Bologna, si può appunto constatare questo dualismo tra la tecnica dello stencil più rigoroso e uniforme in un teso e delicato confronto con il dripping multiforme e multicolorato, imprevedibile e casuale. L'astrofisico inglese Martin Rees scriveva: "Il Sole e il firmamento fanno parte del nostro ambiente - il nostro habitat cosmico: una percezione che gli scienziati condividono con poeti e mistici. "Io sono parte del Sole, micosi come il mio occhio è parte di me" scriveva D.H. Lawrence, e Van Gogh dipinse la Notte Stellata con lo stesso spirito con cui dipingeva i campi di grano e i girasoli. L'arte e la letteratura abbondano di simili esempi. La scienza rende più profondo questo senso di appartenenza a ciò che non è terrestre. Noi stessi, d'altronde, siamo a metà strada tra l'universo è il microcosmo: per mettere insieme la massa del Sole ci vogliono tanti corpi umani quanti sono gli atomi in ciascuno di noi. E la nostra esistenza dipende, certo, dalla tendenza degli atomi ad attaccarsi gli uni agli altri e unirsi in quelle molecole complesse che formano tutti i tessuti viventi, ma l'ossigeno e il carbonio dei nostri corpi sono stati creati, a loro volta, entro stelle lontane, vissute e morte miliardi di anni fa". Questi pianeti tatuati di lettere e parole diventano pelli intergalattiche.

Il poeta della streetart, come da molti definito, ha attinto da penne fiere e storiche, come Gaetano Arcangeli, Roberto Roversi, Lucio Dalla, Edgar Allan Poe, Eugenio Montale trasformando i versi in colate opulescenti di lettere che prima di farsi immagine, sono per me materia evanescente e nebulosa. Le parole sono decostruite per piovere a uno stato disgregato e gassoso, libero e caotico. Ho trovato come perfetto supporti alla polvere poetica, le cartine geografiche e le anziane pagine di alcuni Resto del Carlino. In questi lavori le lettere e i pianeti sono più decisi, grafici, autonomi, ma pur conservando una loro autonomia, riescono a interagire in punta di piedi con le realtà loro sottostanti. Gli spazi sono lattiginosi dripping che donano la completa percezione della consistenza Lattea, puntiforme e infinita.

Le galassie di parole si intersecano come precipitazioni meteorologiche su strati di memoria, di notizie e di luoghi, di geografie che ormai sono divenute orizzonti nelle mente dell'osservatore. Pulviscolare e centrifugo l'atto pittorico di Opiemme, cerca di ricondurci all'origine, al caos dell'inizio, al chiasmo organico della materia, all'inizio del linguaggio. Nell'ancestralità della costituzione riesce nei propri equilibri visivi a unire micro e macro. Una pittura che nel silenzio dell'universo è onomatopeica e altisonante. Declamatoria. I suoi lavori tendono a essere appelli, nell'urgenza e brevità di un verso notturno che si fa lampo di memoria e visione.

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
/
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all'occhiello
la rosa dei venti.
/
Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.
/
Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
/
La nave che non c'è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell'orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…
/
Tutto è pronto. Sul serio. Invano.
(Juan Vicente Piqueras, Voglia di restare)

Federica Fiumelli








domenica 21 settembre 2014

Senza perdere tempo, per Ross

My last article on Wall Street International Magazine:

http://wsimag.com/it/arte/10851-senza-perdere-tempo-per-ross

Enjoy!

 :)


Come un pomeriggio d’autunno ma in piena estate, entrare delicatamente tra le increspature dell’atmosfera, bagnata, umida, soffice e particolarmente diversa. Una di quelle giornate guscio che si schiudono per l’alba raffinata che si portano appresso, come un’ombra preziosa e troppo fragile. Una giornata silenziosa ma bella da gridare e da stringersi ancora di più. La sensazione era quella di un cuscino di piume, vere, sottili, e così leggere da volare via con il più timido dei sospiri e così bianche che il latte più liquido sfiorirebbe. Ma queste piume erano libere, la fodera del cuscino non le conteneva più e si sparpagliavano tutte confuse, sempre con molta grazia. Poi un tonfo, attutito, di una chiave rugginosa, ambrata, metallica, ci cade sopra, e scompare tra gli ultimi rumori soffocati, tra il piumato pallido.
We might live like never before
When there's nothing to give
Well how can we ask for more
We might make love in some sacred place
The look on your face is delicate
Così canterebbe malinconico Damien Rice con la sua voce, sospirando lentamente. Adagio. Con un lento crescendo.
E poi il video di Javier Pérez che narra di una ballerina danzante. Una danza che diventa al tempo stesso sforzo e lotta, visto che alle classiche punte sono legati coltelli dalle affilate, spietate e crude lame. Ma lei continua a provare, prova a muoversi, sopra un pianoforte in un teatro semibuio, accoccolato da tiepide e fioche luci. La stessa complessa e difficile danza che ha portato Félix Gonzalez-Torres ad amare la vita, l’amore e il suo compagno Ross, sopra di tutto.
Un incipit, una serie di escursioni estetiche per introdurre “sensorialmente” ciò che il lavoro il Gonzalez-Torres mi ha fin dal primo sguardo regalato. Cresciuto a Porto-Rico, da 1979 si trasferì a New York dove continuò a studiare arte e fotografia. In un post-moderno che trova nella sfera quotidiano-intimistica la propria radice, Gonzalez-Torres ha puntato sempre all’essenza nelle sue installazioni dall’aspetto minimalista.
Pochi materiali, pressoché comuni, quali caramelle, lampadine, fogli di carta, gomme da masticare, predisposti in cumoli, ma anche coppie di orologi, fotografie, grandi cartelloni posizionati in aree urbane.
Come la ballerina del video “En puntas” di Pérez, l’artista portoricano grida ad alta intensità in un silenzio delicato, al dolore, alla malattia, a quella lama spietata che è l’AIDS. La malattia che si portò via Ross e poi lo stesso Félix.
Ma quella lama nel video, lascia segni e tracce incancellabili sul quel pianoforte muto. E l’arte di Gozalez-Torres ne sono la prova, sono il regalo inestimabile che un uomo dall’intensità e dal lirismo vibrante, colonne portanti della sua poetica, ci ha lasciato. Lui stesso affermava: “L’arte è soprattutto un modo per lasciare una traccia della mia esistenza: io ero qui. Ho avuto fame, sono stato tradito, ero felice, ero triste, mi sono innamorato, ho avuto paura, ho avuto tante speranze, ho avuto un’idea, avevo un buon fine, ecco perché faccio arte
E proprio perché lui era ed è vivo nelle sue opere, noi non dobbiamo essere da meno. E per questo tutti i suoi lavori prevedono uno spettatore attivo, che sia lì, che sia presente anch’esso, le sue opere sono destinate a consumarsi, scomparire, ad esaurirsi, proprio come la nostra esistenza.
L’opera che ha acceso letteralmente il mio cuore, attivandomi profondamente, facendomi cadere tra le piume bianche, sordidamente e delicatamente, lasciando un segno dentro di me, una di quelle opere che ti cambiano il modo di guardare, e ti fanno salire il nodo alla gola, sempre in punta di piedi, è sicuramente “Untitled” (portrait of Ross in L.A.) del 1991.
Apparentemente il gioco di un bambino, profondamente diversa. Un’opera che con il suo valore simbolico, si disvela lasciandoci stupiti.
Un cumulo di caramelle colorate, equivalenti al peso dell’amato Ross. Gli spettatori non devono e non possono restare indifferenti, ma devono interagire e far vivere l’opera come se fosse il corpo di Ross in carne ed ossa. Come? Prendendo semplicemente una caramella per farne quello che si vuole, scartarla, mangiarla, spostarla. Ogni cosa è Ross. E noi davanti a quella piccola montagna colorata di caramelle, sappiamo. O meglio riconosciamo, e sapere o riconoscere vuol dire ricordare, perché Félix ci parla dell’amore, dell’amore perso, e dal particolare vola all’universale, perché ognuno di noi ha un cumolo di caramelle lì sul cuore. E quando scartiamo quella caramella, spogliamo un’esperienza comune. L’esperienza dell’aver amato, dell’aver vissuto, dell’essere stato, e siamo lì senza copertura. Siamo nudi. Davanti a tanta semplicità. L’artista non prevede grandi esecuzioni manuali tecniche, prende delle caramelle e ci spoglia. Ma come lo stesso Jung affermava: “La vera difficoltà sta nell’essere semplici.” Semplicità che attenzione, non va assolutamente confusa con la facilità che ammette l’assenza di un processo creativo. Niente da aggiungere, niente orpelli, kitsch o superfluo. L’arte di Félix mira al cuore. Dritto, dritto. Fitto. L’essenza. Ecco. L’assenza vive tramite l’essenza, sempre in ogni lavoro. Mi viene in mente un passo che vede protagonisti Beckett e Giacometti che Paolo Rosa in L”arte fuori di sé” riprende per ricordare quanto sia importante levare per restituire l’invisibile, soprafatti come siamo oggi da una saturazione semiotica continua propinata soprattutto dai mass media e dalle tecnologie.
“Beckett aveva scelto l’albero come unica scenografia del suo primo allestimento parigino di “Aspettando Godot” e ne aveva affidato la realizzazione a Giacometti.“Ci doveva essere un albero. Un albero e la luna. Siamo stati lì tutta la notte, con quell’albero di gesso, a togliere, ad abbassare, a fare i rami più sottili. Non andava mai bene, per nessuno dei due. E uno diceva sempre all’altro:”Forse”. Passa il tempo. Nessuno in sala, o sul palcoscenico, osa fiatare. Quando Giacometti si alza deciso. Attraversa il teatro, sale su un praticabile e guardando da vicino il proprio albero comincia a togliere un rametto dopo l’altro. Ogni tanto si ferma e grida a Beckett seduto laggiù nel buio della platea:
Giacometti – Adesso va meglio no?
Beckett – E’ perfetto. Adesso va proprio bene.
Giacometti – Un momento ancora. Aspetta…e così?
Beckett – Bè, così è perfetto.
Giacometti – Aspetta, ecco.
Quando Giacometti fu soddisfatto, dell’albero era rimasto soltanto l’esile tronco. Dalla platea, dove i due si ritrovarono per fumare insieme, si vedeva un cosa striminzita e storta, una specie di niente della natura che a loro sembrò l’ideale.”
E come non ricordare l’eco cinquecentesco e rinascimentale michelangiolesco, del levare per giungere all’essenza che è già lì, spetta solo all’artista donare all’invisibile forma visibile.
“Neve che conserva l’impronta di un uccello”, con queste parole Jean Cocteau deiniva le sculture di Giacometti. Lo stesso effetto lo lasciano le opere di Félix. Opere che sono esse stesse concetto e simbolo di un durata temporale effimera. Tutte sembra decisamente volto a perire. Ma è proprio questa caducità che freudianamente parlando conduce alla bellezza.
Bellezza che è quindi imperfezione come in “Untitled (perfect lovers)” 1991, due orologi pressoché identici, sono fissati alla parate, sincronizzati e vicini, come una coppia. Improvvisamente uno si fermerà, uno andrà avanti. La solitudine è una condizione imprescindibile. Inevitabilmente qualcosa finirà.
Ogni anno nella giornata mondiale contro l’AIDS viene ripetuta un’installazione, per la prima volta esposta il primo Dicembre 1991 al Williams College Museum of Art, “Untitled” (Placebo), un tappeto argenteo di caramelle disposte in un rettangolo, che piano piano tenderà a dissolversi, perché i passanti potranno portare con sé parte dell’opera, scegliendo di prendere una caramella. Un deposito di lacrime amare, Félix incarta il suo dolore per non dimenticare, e noi diventiamo custodi di un pianto e di uno straziante sofferenza che in questo modo però trova vita e evita l’inerme. Mangiamo una caramella, mastichiamo il dolore. Se non se ne parla, lo si deve almeno manipolare in qualche modo. Una distesa metafisica, una paesaggio della memoria, che acquista valore solo se “calpestata” dallo spettatore, ecco come si presenta l’opera.
L’arte si confonde con la vita, e Gonzàlez-Torres lo fa tramite l’utilizzo di materiali anonimi, ha reso pubblico le proprie battaglie personali, come l’essere immigrato cubano negli USA, l’omosessualità, l’AIDS, ha dimostrato quanto l’amore può generare.
E l’elettricità generata dalle due lampadine usate per l’installazione “Untitled” (March 5th) #2 non è solo fisica ma simbolica. L’immaterialità della luce diventa simbologia della coppia, un elàn vitale dal flusso irregolare e fragile. Il flusso di luce da stabile si protrarrà all’intermittenza e ad un fioco perire. Vi è sempre quindi un attivo dinamismo lirico, sottile, leggero, so delicate..
Un altro lavoro, sempre del 1991 che non può non essere ricordato, è la decisione di far diventare cartellone pubblicitario, una foto intima, preziosa, l’immagine di un letto disfatto, quel letto dove probabilmente si era consumato l’amore con Ross.
Ross che è l’elettricità dei lavori di Félix.
Guardando quella foto ognuno di noi si può riflettere, navigando così a fior di pelle in un torrente di ricordi, che ci riporta alla mente i momenti nei quali esser spettinati, tra quelle lenzuola stropicciate, ci faceva sentire vivi. Si perché quel letto vissuto è l’impronta sulla neve, passeggera ma con un peso specifico sul corpo della memoria di tutti quanti noi.
Ma se non ricorderemo, sicuramente l’arte di Félix fa riflettere sul sottile confine così scivoloso tra arte e vita, tra pubblico e privato.
Félix è un po’ di ognuno di noi. Ross è un po’ di ognuno di noi. Entrambi sono parti di un sentire comune, potente ed intenso. Amplificato. So delicate. So strong.
Rileggo spesso l’intervista che Cattelan fece a Félix per Mousse Magazine, e che concludeva così:
Cattelan: Credi che questa mostra scatenerà molti ricordi nella mente delle persone?
Gonzàlez-Torres: No. La gente semplicemente non ricorda. È come in Casablanca, quando Humphrey Bogart dice: “Molto tempo fa, la notte scorsa.” Le persone non ricordano la notte scorsa.
Cattelan: Allora perché farlo? Per cosa?
Gonzàlez-Torres: (pausa) Onestamente, senza perdere tempo: per Ross.
Così tra le note di “Olsen, Olsen” dei Sigur Rós, scivoliamo via, tra le piume bianche, in un pomeriggio autunnale in piena estate. So delicate.
Federica Fiumelli














giovedì 16 gennaio 2014

Thierry De Cordier

Ecco l'ultimo articolo pubblicato su
Frattura Scomposta:
www.fratturascomposta.it

Enjoy!
:)



Thierry De Cordier

“La poesia, che non è un’arte di arrangiare i fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.”
Erri De Luca, Sulla traccia di Nives, 2005

Stavo passeggiando per la Biennale quando ritrovatami in una sala, all’improvviso il mio sguardo è stato letteralmente attratto, prosciugato vorticosamente dalla pittura oscura, funerea, glaciale di Thierry De Cordier.
Filosofo, performer, scultore, scrittore e poeta, con un vita nomade alla spalle, l’artista è nato e lavora tutt’ora in Belgio.

Tele maestose, oli e pastelli o su tela o su tavola.
La pittura di De Cordier è una pittura tormentata, dominata da una furia iconoclasta, sembra voler spazzar via lo stesso sguardo che attira su di sé.
È prepotente, troppo forte, ribelle, il mare in tempesta sfugge anche alla pennellata.

E’ anche una pittura analitica, attenta al dettaglio dell’informità marina, talmente reale da sembrare più vera del vero, ma perturbante, sul filo di un certo iperrealismo magico.

I freddi mari nordici sembrano sfondare la tela, non si contengono, sono gelidi a tal punto che feriscono, strozzano la visione, bloccano il fiato proprio lì come prima di buttarsi da un’altissima scogliera.
Ricordano i naufragi Shakespeariani, perdite di identità per un risorgimento successivo; e poi spifferi, fantasmi, ricordi perduti, spazzati via da una furia corrosiva e demolitrice.

Atmosfere sfumate e leggere invadono lo spazio della tela, aprendosi come finestre in microcosmi perduti e dimenticati da chissà quale Dio.
Le creste spumose delle onde pallide e diafane sono ritratti di anime sperdute e angosciose, sembrano quasi ricordare “La donna del Mare” di Ibsen dal sapore dei fiordi Norvegesi, una storia di attrazione mistica verso l’origine delle acque gelide e tormentate.

I moti marini, i movimenti ondosi rappresentati da De Cordier hanno una potenza pervasiva, esplosiva, invasiva e indomabile, hanno una carica espressiva si gelida ma allo stesso tempo ricordano la forza demoniaca legata al caso nel dripping alla Pollock.

Una potenza espressiva coinvolgente e liberatoria.
Quelle acque chissà quali coste hanno bagnato con le loro lacrime di dolore?
E chissà quali scenari e orizzonti hanno guardato? Chissà da quanti velieri carichi di speranze sono state cavalcate e chissà quali volti, di amanti e non, hanno riflesso nelle loro trasparenze marine.

Le onde bianche sono gli echi lontani di amori tragici e maledetti come in “Cime Tempestose”, sono apici drammatici, lembi di lenzuola in cui qualcuno si è promesso d’amare per sempre, anche oltre la tempesta della morte, come nelle tormente di neve che accompagnavano gli spiriti di Heathcliff e Catherine.
“Io amo Heathcliff, Io odio Heathcliff, Io sono Heathcliff.”
Una maledizione d’amore che annega nella perdita del sé.
La pittura di De Cordier, ha il retrogusto di favole antiche, di memorie sbavate di trucco, di fredde e tormentose storie che hanno segreti ancorati nel’oscurità.

I mari del nord che l’artista elegge come muse inarrivabili sono l’altra faccia della luna e irrompono nel nostro immaginario come le sinfonie di Mendelssohn. L’onda come la sinfonia butta giù con un fragoroso calcio la porta anestetizzata della nostra percezione.

Non si può porre resistenza, si viene travolti e basta, come i velieri che hanno tentato inconsciamente di vagare nella tempesta.
Tempeste che sono battaglie di demoni e tristezze interiori, mai uguali a sé stesse ci cacciano alla deriva, su spiagge ipotetiche, rocciose come nel “Naufragio vicino alle rocce” del 1870 di Ajvazovskij.

E ai bordi, ai margini di quelle stesse tempeste, scopriamo che ci si aggrappa anche la poesia, che si era persa leggera tra i venti taglienti e taciturni.
Le ostilità smaltate delle correnti del nord sono ritratte nelle grandi tele che diventano così oblò, rendendo lo spazio espositivo il sotto ventre di una nave e noi i viaggiatori di mari che sono cupe fantasie squarcianti.

Federica Fiumelli












giovedì 27 giugno 2013

Opiemme. "Parole di carta" @Spazio Elastico

Ecco il mio ultimo articolo sul Wall Street International Magazine.

link: http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/opiemme-parole-di-carta_20130627121126.html#.Ucx9qjs9OSq

Enjoy!

:)


REPORT - Italy, Arte

Opiemme, parole di carta

Una cascata di lettere.

Opiemme, parole di carta
Il tempo della poesia è il tempo della speranza.
Il poeta vede quello che il filosofo pensa.
Ogni difesa della poesia è una difesa della follia.
Scrivo per irritare Dio e per far ridere la Morte. Scrivo perché non ci arrivo. Scrivo perché voglio che ogni donna del mondo s’innamori di me. Ma alla fine tutto si riduce al fatto che scrivo perché scrivo.(Charles Simić, Il Mostro Ama il suo Labirinto)
La poesia, le parole prendono forma nel lavoro dell’artista torinese Opiemme. Nato come street artist i suoi interventi hanno mirato da sempre a svecchiare la comunicazione e a far avvicinare il mondo poetico al quotidiano; basta ricordare le panchine poetiche ricoperte di parole o le fermate dell’autobus.

La mostra curata da Antonio Storelli negli spazi di Elastico Studio nel cuore di Bologna ci offre un nocciolo privato del lavoro dell’artista, come entrare nel cuore del suo modus operandi. Tele con dripping con le parole liriche di Yeats, Pascoli e Ungaretti, stampe digitali e stencil, una coralità di supporti e tecniche volte a evidenziare le differenti modalità d’espressione dell’artista. L’intervento site specific che occupa le tre pareti della stanza di Elastico Studio è una splendida installazione di parole, di versi, di concetti in libertà che corrono nel campo di grano arioso della nostra mente. Le parole ci colpiscono e rivivono negli occhi dell’osservatore. Quotidiani, scotch, parole intagliate e colorate, un collage di titoli di politica nazionale dell’ultimo mese, e sopra un tratto distintivo rosso-fucsia, bla bla bla.

Parole, parole, parole, le promesse dei politici, la corruzione, la cronaca. Uccelli ricamati di c come cielo, un becco che sembra una chiave d’accesso a qualche porta celeste, e poi una tempesta, un mare di parole, un naufragio di: mare, bianco, isola, acqua, occhi, pensa, oscura, vela, barca. E poi si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, ecco la celebre frase ungarettiana srotolarsi su colore gocciolante, andando a formare appunto esili rami liberi.

Una cascata di lettere compongono il profilo oscuro di un volatile su un albero, la notte ha inglobato il tutto, e le v, t, r, c, h diventano una cascata di brividi tattili. E poi coltelli di parole, fucsia, dagli echi pop warholiani, il colore si dissolve per far posto a lembi di parole, parole, e ancora parole. I muri vestiti per il site specific rimbombano come suoni sordi, spari nella coscienza, il noumeno diventa fenomeno, la parola vanitosa si veste di spessore bidimensionale e acquista forma nello spazio, si fa bella, si trucca di colore per risplendere nell’attenzione di chi osserva, la parola poetica non si fa Giuditta nei confronti dei miscredenti del linguaggio, per tutti quelli che non capiscono che le parole sono un tesoro prezioso che il linguaggio dev’essere custodito e curato come un giardino segreto, e poi liberato per farlo volare in alto, là tra i pensieri che costellano il cielo, aggrappati alle stelle.

L’esperienza è più della teoria, the party is over, Welcome to Italy dove non c’è lavoro, razzismo bianco lavoro nero, pagine di storia politica con la scritta censored, mi illumino di niente, essere non avere radici, sognare, con la cultura non si mangia senza cultura si banchetta, rise up, peace; e poi fulcro dell’installazione site specific il contributo del poeta bolognese del Novecento Gaetano Arcangeli, una spirale di parole che recita così: Tutto in me cura vorticosamente scatole e mente. 

Parole di carta quindi, una dicotomia di forze, la potenza della parole e la fragilità della carta si incontrano per dare vita a concetti, pensieri poetici, perché la poesia ci deve risvegliare l’anima e le parole devono vestirci di nuove idee e riflessioni, devono ornare il nostro pensiero e il linguaggio deve prenderci per mano, rassicurandoci.

Le parole di Opiemme sono tutte le strade del mondo, sono sentieri dai voli pindarici, sono crucivie di lettere, sono libri poetici tappezzanti il cielo, paracaduti aperti in caduta libera, ispirazioni ricamate nell’ovunque.
Pubblicato: Giovedì, 27 Giugno 2013
Autore: Federica Fiumelli

Ecco un pò di foto: