Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

mercoledì 30 settembre 2015

Apparat. L'occhio ascolta, l'orecchio tocca

link:http://wsimag.com/it/spettacoli/17559-apparat



Premettendo che è stata la prima volta a cui ho assistito a un live di Apparat, vorrei cercare di tenermi il più lontana possibile da encomi o elogi stucchevoli che perdono la loro forza proprio nella troppa vanità.

Per tutta la durata del concerto però non ho potuto che trattenere la pelle d'oca, "If you feel this, you're still alive" ho pensato tra me e me arcuata e trepidante sulla mia poltroncina nel cuore della platea. Al margine tra le mie aspettative e la realtà. Nei ricordi di un film in bianco e nero qualcuno disse che la pelle d'oca è la reazione al tocco di un fantasma. E fantasmagorica la performance lo è stata.

La preview del roBOt festival di quest'anno ha voluto fare il botto, un botto verificatosi in tutti sensi, dal principio, con l'imminente sold out, sia con la standing ovation finale tra scrosci di complimenti, ed entusiasmi eccitati. Le good vibes firmate Sascha Ring posseggono come al solito una tale forza dicotomica da trascendere tutto il resto. L'eclissi dell'entropia. Se tutto va invetabilmente in frantumi, esiste un non tempo e un non luogo dove questo può sospendersi. L'ambizione e la messa in pratica di volere dar vita a un ambiente piuttosto che a un'idea. Tra miele e graffi, con profonda densità, tra ritmi lascivi e guerrieri, l'elettronica e il suono di un violino si incontrano proprio come la performance contemporanea si disvela in culla al moderno, quale è il Teatro Comunale di Bologna. Vertigini e margini. Proprio come quanto spettacolare fu vedere la scultura Arch of Hysteria di Louise Bourgeois appesa a mezz'aria davanti alla Venere del Pontormo nella mostra Fiorentina del 2012, Arte torna arte, un progetto che ha indagato il rapporto tra l'arte e la memoria, proponendo opere di artisti contemporanei che, guardando alla storia, ai capolavori del passato, utilizzandone l’iconografia, ne hanno rielaborato il pensiero.

Soundtracks live mi ha ricordato (soprattutto nei momenti vocali di Sascha) un'opera conservata alla collezione Gori di Pistoia, Melancolia II nata dalla collaborazione tra Robert Morris e Claudio Parmiggiani, conosciutisi per caso proprio a Celle. Entrambi gli artisti hanno da sempre dimostrato un interesse verso lo spazio e l'arte antica, tant'è che per l'installazione sopracitata decisero appunto di estrapolare alcuni elementi dalla Melancolia di Dürer. La ruota, il poliedro, la sfera e la campana in bronzo di Parmiggiani, che abbandonate con raffinata eleganza tra le canne di bambù sorprendono per la straordinaria bellezza solitaria, per il rintocco fragile, come passare con un dito sul bordo di un calice perdendosi in quella ciclicità vetrata.

E poi dalla soavità, al disturbo di frequenza. I suoni si infittiscono come interferenze e mi ricordano i 13 distorted TV sets del 1963 di Nam June Paik. Tra un pacato classicismo e una frizzante sperimentazione filtra la sonorità di Apparat, e come richiestomi dalla musica stessa mi sono lasciata trasportare da associazioni astoriche, affini probabilmente a qualche risonanza. Non trascurabile, l'attenzione che il musicista tedesco rivolge alla parte dei visuals. Una sonorità che si traduce in visione pura, tattile, tra superfici e forme, a tal punto che l'occhiello sul nostro sentire diviene una luna tenuta tra le mani.

Complessivamente quindi un ottimo concerto, una performance che non lascia indifferenti neanche i più scettici, che ho tentato di tenere lontano da lodi fiaccanti intrise di sentimentalismo che troppo ben si attaccano alle "prime volte". Il mio è sicuramente un arrivederci, curioso. Un musicista, Apparat, che attraverso la passione e la ricerca, cura letteralmente ogni minima good vibe. L'occhio ascolta, l'orecchio tocca.
roBOt08, ed è solo l'inizio.

Federica Fiumelli












Where the trees... Il sottile tratto tra natura e cultura

link: http://wsimag.com/it/arte/17385-where-the-trees-dot-dot-dot





Where the trees line the water that falls asleep in the afternoon

Tutto comincia con una poesia. E ci perdiamo in quel sottile tratto tra natura e cultura. Tra dono e artificio. Scalzi e in punta di piedi camminiamo per non fare troppo rumore sotto un tappeto di foglie, tendiamo l'occhio al manto di nuvole e origliamo come da una porta chiusa, il rumore del vento. Sgusciare fuori da un confine per perdersi dove si addormenta il giorno.

Appesi alle parole del poeta Pierre Reverdy, il curatore Chris Sharp ha steso questa mostra che con la forza di un filo di erba che esce dal cemento, si sradica tra personalità internazionali. La poesia racchiude la vera linfa dell'esposizione tant'è che ogni parola spesa in più pare in eccesso, pare arrogante e invasiva. Si perché se c'è qualcosa che lega le opere in mostra è sicuramente la pulizia visiva che porta all'apice di un silenzio originario, bisogna rispettare lo spazio che si è venuto a creare con i lavori.

Le sculture e le tele hanno tessuto un personale ambiente tra le mure delle galleria, restituendoci a una nicchia che punta più alla meditazione che alla funzionalità. Ci troviamo in un interstizio polifonico tra dono e artificio dove l'essenziale si rifugia nell'ermetico. Tre artisti, tanti luoghi, diversi intrecci, luoghi, memorie e tecniche. L'artista messicano con sede a Basilea, Rodrigo Hernández, segnalato anche da ArtReview tra i migliori artisti internazionali, presenta per questa occasione quattro opere tutte differenti l'una dall'altra. Il pregio dell'artista è senza ombra di dubbio quello di sperimentare con i diversi media, mirando dritto al cuore dell'essenza. Un lavoro di spogliazione, una nudità della materia che disarma l'occhio e attiva una coscienza primordiale. La semplicità apparente in verità rivela una complessità di studio e di ricerca che trova nei lunghi tempi e nelle attese la lingua madre.

Faccio tesoro da anni di una frase junghiana che merita spazio proprio qui tra queste righe, "Com'è difficile essere semplici", intendendo appunto la semplicità come sintesi di processi talvolta decisamente complessi. Nell'olio su tavola Conflict over coherence la resa pittorica è tersa, lineare, a campiture concentrare e uniformi. Il rigore e la perfezione delle forme infastidisce quasi l'entropia propria del mondo. Una solitudine metafisica colora il s(oggetto).

Nella scultura in cartone, Senza Titolo, l'aridità preziosa e sofisticata di Hernández si fa non-luogo tra le sinuosità della carta, rendendoci voyeur di una visuale dall'alta sul nulla che si fa ambiente inscatolabile. In Pedazo de pueblo la china su carta riciclata ha avuto un effetto corrosivo e scultoreo sul supporto scelto. Come una macchia sfumata si è venuta a formare una seconda pelle, informe, attirando su di sé uno sguardo tattile, come la pellicola del latte caldo che si raffredda.

Una pittura dal tepore cocente, tra rigore e difformità come in Practice of relaxation , dalla pennellata decisa e geometrica, si passa a una disgregazione, alla dissoluzione. Come in un processo chimico la ricerca di Hernández passa da vari stati di materia, tra conflitti, pratiche e relazioni. L'artista newyorkese Clare Grill sperimenta la propria pittura con oli su lino che introducono l'osservatore a una visione stratificata e atmosferica. I gialli di Bee e Pamy e i verdi di Flay si diversificano, si mescolano e si sedimentano venendo a creare un pattern caoticamente pacato. Visivo e tattile. E' un disordine tranquillo, a bassa voce, che si perde a mezz'aria in una nebbia di colori che tono su tono invitano il visitatore a spogliare mentalmente l'opera, come se venisse occultato qualcosa, come se non ci fosse un fondo, e qualcosa sfugga sempre.

Le sculture dell'artista Kate Newby, neozelandese ma con sede a New York, modificano lo spazio richiedendo un'attenzione del tutto silenziosa, introspettiva e meditativa. Dalla ceramica al tessile, al vetro, la Newby pone in relazione l'oggetto con lo spazio ospitante detronizzando la funzione. Tutto quello che occorre è sentire. Origliare come da quella porta dell'inizio per sentire sussurrare il vento. Svuotando l'orecchio da pregiudizi e inquinamenti acustici, la poetica della Newby ci introduce a una disintossicazione del daily to much, per condurci a sonorità e visioni immensamente minimali.

In They sound like each other sei campanelle a vento di vetro rimangono sospese, attraverso la luce che filtra e si perde tra le sinuosità trasparenti che deformano e diffondono, rifrangendo la percezione. Quarantotto elementi di porcellana e ceramica bianca, sospesi anch'essi l'uno accanto all'altro, risuonano per relazione, procedendo come una reazione a catena, se uno si muove, anche l'altro e quello dopo, come in un domino, solo il gesto, il vento, o l'aria potranno risuonare Maybe I won't go to sleep al all nella profondità di semplici e dionisiaci suoni.

In Best possible time ever e I feel like a truck on a wet highway le ceramiche cotte ad alta temperatura e porcellana assumono le forme di elementi vegetali e naturali, come foglie e spugne, occupano lo spazio di tempo al alte vette. Un bell'articolo su Frieze a lei dedicato, è intitolato The art of tiny revelations, perché, come Jennifer Kabat ha scritto, "la Newby celebra la minuzia della vita di tutti i giorni, il suo lavoro è un invito a guardare lontano e ancora oltre".

La poetica dell'artista neozelandese è dal mio punto di vista riassumibile con lo storico titolo della celeberrima canzone Let it be, credo che l'artista abbia un forte fiducia dalla quale trae inevitabilmente anche ispirazione nell'accadere della vita stessa. Con la semplicità logorante del caso che modella e agisce su vite e situazioni come il vento lo fa su paesaggi e ambienti. Sottili rivelazioni, quindi, impercettibili sguardi sull'altrove e indissolubili agganci poetici, non a caso già i titoli delle opere rivelano intrigantemente l'intento artistica dell'autrice.

In questa mostra si cade sempre un po' più in lá "risospinti senza posa" (fitzgeraldianamente parlando), come foglie. Fragili e inaspettati. E siamo già in preda a un'altra stagione, a un altro ambiente senza tempo, come viaggiatori scalzi dentro l'eco del vento.

Under the blazing sun, when the landscape is on fire, the traveler crosses the stream on a very narrow bridge, before a dark hole where the trees line the water that falls asleep in the afternoon. And, against the trembling background of the woods, the motionless man.
(P. Reverdy)

Federica Fiumelli