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:)
Thierry De Cordier
“La poesia, che non
è un’arte di arrangiare i fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella
tempesta.”
Erri De Luca, Sulla
traccia di Nives, 2005
Stavo passeggiando per la
Biennale quando ritrovatami in una sala, all’improvviso il mio sguardo è stato
letteralmente attratto, prosciugato vorticosamente dalla pittura oscura,
funerea, glaciale di Thierry De Cordier.
Filosofo, performer,
scultore, scrittore e poeta, con un vita nomade alla spalle, l’artista è nato e
lavora tutt’ora in Belgio.
Tele maestose, oli e
pastelli o su tela o su tavola.
La pittura di De Cordier è
una pittura tormentata, dominata da una furia iconoclasta, sembra voler spazzar
via lo stesso sguardo che attira su di sé.
È prepotente, troppo
forte, ribelle, il mare in tempesta sfugge anche alla pennellata.
E’ anche una pittura
analitica, attenta al dettaglio dell’informità marina, talmente reale da
sembrare più vera del vero, ma perturbante, sul filo di un certo iperrealismo
magico.
I freddi mari nordici
sembrano sfondare la tela, non si contengono, sono gelidi a tal punto che
feriscono, strozzano la visione, bloccano il fiato proprio lì come prima di
buttarsi da un’altissima scogliera.
Ricordano i naufragi
Shakespeariani, perdite di identità per un risorgimento successivo; e poi
spifferi, fantasmi, ricordi perduti, spazzati via da una furia corrosiva e
demolitrice.
Atmosfere sfumate e
leggere invadono lo spazio della tela, aprendosi come finestre in microcosmi
perduti e dimenticati da chissà quale Dio.
Le creste spumose delle
onde pallide e diafane sono ritratti di anime sperdute e angosciose, sembrano
quasi ricordare “La donna del Mare” di Ibsen dal sapore dei fiordi Norvegesi,
una storia di attrazione mistica verso l’origine delle acque gelide e
tormentate.
I moti marini, i movimenti
ondosi rappresentati da De Cordier hanno una potenza pervasiva, esplosiva,
invasiva e indomabile, hanno una carica espressiva si gelida ma allo stesso
tempo ricordano la forza demoniaca legata al caso nel dripping alla Pollock.
Una potenza espressiva
coinvolgente e liberatoria.
Quelle acque chissà quali
coste hanno bagnato con le loro lacrime di dolore?
E chissà quali scenari e
orizzonti hanno guardato? Chissà da quanti velieri carichi di speranze sono
state cavalcate e chissà quali volti, di amanti e non, hanno riflesso nelle
loro trasparenze marine.
Le onde bianche sono gli
echi lontani di amori tragici e maledetti come in “Cime Tempestose”, sono apici
drammatici, lembi di lenzuola in cui qualcuno si è promesso d’amare per sempre,
anche oltre la tempesta della morte, come nelle tormente di neve che
accompagnavano gli spiriti di Heathcliff e Catherine.
“Io amo Heathcliff, Io
odio Heathcliff, Io sono Heathcliff.”
Una maledizione d’amore
che annega nella perdita del sé.
La pittura di De Cordier,
ha il retrogusto di favole antiche, di memorie sbavate di trucco, di fredde e
tormentose storie che hanno segreti ancorati nel’oscurità.
I mari del nord che
l’artista elegge come muse inarrivabili sono l’altra faccia della luna e
irrompono nel nostro immaginario come le sinfonie di Mendelssohn. L’onda come
la sinfonia butta giù con un fragoroso calcio la porta anestetizzata della
nostra percezione.
Non si può porre
resistenza, si viene travolti e basta, come i velieri che hanno tentato
inconsciamente di vagare nella tempesta.
Tempeste che sono
battaglie di demoni e tristezze interiori, mai uguali a sé stesse ci cacciano
alla deriva, su spiagge ipotetiche, rocciose come nel “Naufragio vicino alle
rocce” del 1870 di Ajvazovskij.
E ai bordi, ai margini di
quelle stesse tempeste, scopriamo che ci si aggrappa anche la poesia, che si
era persa leggera tra i venti taglienti e taciturni.
Le ostilità smaltate delle
correnti del nord sono ritratte nelle grandi tele che diventano così oblò,
rendendo lo spazio espositivo il sotto ventre di una nave e noi i viaggiatori
di mari che sono cupe fantasie squarcianti.
Federica Fiumelli