Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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mercoledì 21 gennaio 2015

Zed1, Willow e Guaia, curated by Spazio San Giorgio Arte Contemporanea, Bologna

Ecco tre artisti ed eventi da non perdere, 
curati da Spazio San Giorgio Arte Contemporanea

http://www.spaziosangiorgio.it/






SECOND SKIN PROJECT
ZED1
Opening Sabato 24 Dicembre 2015 h. 20.00
Live Performance h. 21.30 
ART CITY White Night | Arte Fiera 2015


"Che la vita possa essere considerata una caduta è connaturato alla facoltà umana di immaginare. Immaginare significa concepire l'altezza da cui avviene la caduta."

John Berger

Uno splendido disincanto dal sapore felliniano. Una pellicola smaltata, un carillon circense stridente. L'odore di vecchi libri, pagine polverose, custodite nei segreti di una soffita si schiudono a noi come sogni alati. I personaggi dello streetartist Marco Burresi, in arte Zed1 popolano già da tempo molte zone italiane dal Nord a sud, interventi pubblici, su pareti di muri che ci appaiono come pagine di un libro illustrato. Disincantati. Si perché l'immaginario seppur fantastico rimane critico, vagheggia fluttuante con una cinica rilettura di temi che scuotono profondamente l'animo umano. Dal cambiamento, alla speculazione, alla solitudine, al tempo, alla monetizzazione di esso, al potere, al sesso, all'infazia.
Una metamorfosi delicata, i personaggi vivono nell'aria, in un mondo di carta e vetro raffinato. Anche se la distinzione tra fiaba e favola é ormai nota, il lavoro di Zed1 può affermarsi come uno scivolare tra i confini di questi due generi, la favola é quel racconto magico che ha solitamente come protagonisti animali come accade nelle favole di Fedro, di Esopo, di La Fontaine ed un preciso scopo di educazione morale, ovvero ci sono i buoni e ci sono i cattivi, a quelli scorretti é garantita solitamente una punizione finale. La fiaba al contrario non si dimostra da subito esplicita, ma lascia aperta una riflessione critica, lascia che sia l'ascoltatore a decidere da quale parte schierarsi.
Le opere di Zed1 nascono favole ma agiscono sicuramente come fiabe urbane.
Il mondo illustrato dell'artista attarverso la moltitudine di graffiti drawing mantiene un tratto raffinato, una linea elegante che si srotola come una narrazione magica, talvolta perturbante, tra animali, elfi, clown, burattini, al limite, folli, outsiders, freaks, eccentrici, equilibristi.
Instabili vaganti. Sinceramente precari. Teatranti.
Nonostante la tecnica spray, la bravura dell'artista porta le nuances utilizzate a campiture compatte quasi pastello sospese in un colore che può essere solo immaginato.
La serena gamma cromatica sembra collidere con la stridente anima sordida dei protagonisti, ed é questa la chiave di forza, che apra la soffitta dell'immaginario libresco di Zed1.
Rotondità volanti che riecheggiano in romanticismi melanconici della donna cannone sognata da DeGregori, burrositá in volti tondeggianti e cosmici, solitari e sensibili. Ricordi quasi boteriani.
Poi i corpi scivolano in curve, tra schiene e addomi, volumi di ovatta che si chiudono in piedi sopraffini, come antenne, in grado di vibrarsi lirici e affusolati. Sono vuoti pieni. Vuoti a perdere. Hanno inglobato il possibile, and finally full. Troppo vuoto. Che sia un allarme? L'eccesso deve essere scavato.
Ma i soggetti restano in punta di piedi sul nulla. In caduta libera.
Per concepire l'altezza di quelle cadute, non ci resta che immaginare.
E poi ci sono gli sguardi, asserrandati, consapevoli di non essere mai lì dove si posa l'occhio di chi osserva, ma altrove, lontano. Sparati in aria da chissàquale cannone.
Sguardi attoniti tra la presa di coscienza e l'abbandono. Ambigui e di minor ingombro rispetto ai volti che li contengono.
Piedi fasciati in calzature dalle snellezze medievali, gli esserini dell'artista sono raccontastorie perduti. Lussuriosi o opulescenti? Sono menestrelli attenti al dettaglio, quasi dal sapore lontano di un gotico internazionale, fiabesco non a caso. Minuzioso, puntiglioso.
Dalle miniature di un racconto silenzioso, i personaggi come bolle di sapone e ceramica si ingrandiscono e si impadroniscono di grandi dimensioni e spazi pubblici.
Zed1 gioca in una teatralità mascherata, un tableau vivant che sussurra: "datemi una maschera e sarò sincero." Ma ci sarà un tempo anche per spogliarsi delle foglie di un autunno di apparenze.
Zed1 pensa tramite il disegno che rende macro, in versione ambientale, dal taccuino al muro, la sua poliedricità é messa in evidenza come quando la dimostra passando dalla grafica, alla tela al Wall painting.
Il disegno come arma per agire sulla pelle del mondo, profondamente, in superificie.
Quella pelle che diventa un vero e proprio modus operandi.
Il progetto dell'artista "Second Skin" presenta infatti doppi strati di disegno, doppi strati di pittura, doppi strati di carta, solo l'interazione del fruitore, del passante, o lo scorrere del tempo potranno rivelarci questo profondo scavare in superficie. Un'erosione dell'immagine introspettiva.
Una mutazione che filtra attarverso la caducità della materia. Perché tutto può cambiare.
Strappi una pagine ed ecco un'altra vita, ecco un'altra illustrazione.
Depura, sbuccia, scarta, spoglia l'immagine per regalarcene le interiora, lo scheletro, la struttura portante, il tuorlo.
Una vita a brandelli, perché é negli interstizi che si trova una silenziosa verità distillata, e come anche Calvino scriveva nel "Visconte dimezzato": " bellezza, sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che é fatto a brani."

Zed1 archeologo di essenze, scavando a sud del cuore, nel profondo tempo dello sguardo.

Federica Fiumelli  




Orari di apertura / Opening Times :

Martedì - Venerdì  10.00 - 13.00 /  16.00 - 19.00
Tuesday - Friday   10am - 1pm / 4pm - 7pm

Sabato 16.00 - 19.00
Saturday 4pm - 7pm



In altri orari su appuntamento.
Any other time on appointment.




SEDICI MODI DI DIRE VERDE

Poliambulatorio Giardini Margherita, struttura sanitaria privata di alto livello e con una particolare attenzione al benessere psicofisico dei propri pazienti, proporrà in occasione di ArteFiera 2015, in collaborazione con Spazio San Giorgio arte contemporanea "Sedici Modi di Dire Verde" mostra dell’artista neo-pop Willow.

"...e tutti camminano sempre ma poi per dove 
tanto un albero è come un ombrello se piove."
Da "16 modi di dire verde" di Niccolò Fabi

Leitmotiv di questa esposizione firmata Willow è sicuramente il verde. Un verde che accoglie, protegge e si disperde come liquido sulle tele. Un verde che invoglia, abbaglia e risuona, glorioso e ottimista. Un verde più verde del vero. Un verde jazz. 
Un Willow che trama colore per appunti di un viaggio nei ricordi di una natura naturans.
Come edera il suo colore cresce e nasce sugli spazi di una tela. 
Dapprima bianca poi vinta da queste energiche tempeste verdi.
I mondi di Willow eterei, fluttuanti, atemporali sono tutt'un caos di colore. Non hanno peso specifico, data od ora. 
Solo flusso e passaggio, solo ritmo, dal momento in cui ci capiti davanti.
Tra il fumetto e l'illustrazione i personaggi si disperdono in un non-sense di gettate di colore. 
Gli smalti su tela sono storie che finiscono nella curva di un sorriso. 
Sicuramente erede di un neopop giapponese alla Takashi Murakami, le invasioni di esserini ci comunicano attraverso onomatopee da fumetto, per un fraseggio muto, che nutre di visioni e colore i suoni. 
Smile, :D, dz, wuuup. Punti esclamativi. A! E!
"Verde te quiero verde", un romanticismo nostalgico e agrodolce, frizzante alla García Lorca, tutto verte in un amabile cocktail all'à plat. Come girovaghi gitani, i "polipetti" dell'artista fluttuano in oceani di informe, nell'incertezza liquida di un sogno distratto, in assenzi assenti.
Si aggrappano alla tela per non gocciolare in una realtà troppo monotono.
Willow da botanico atelierista ci crea con le sue opere varchi - finestre, organiche, bios in punta di pennello, tutto esplode a ritmo di verde, polifonicamente.
Come suggerirebbe Baricco:
"A volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni."
Testo : Federica Fiumelli


Brevi cenni biografici: Nato nel 1978 a Milano si diploma presso la Scuola del Fumetto e Illustrazione di Milano nel 2000. Collabora da 12 anni con case editrici, agenzie pubblicitarie e aziende produttrici di gadgets e articoli da collezione e design. Con lo pseudonimo W i l l o w realizza tele, grafiche, murales e vinyl toys vicine allo stile POP, collaborando con gallerie, aziende e designers in Italia e all’estero. Tra le principali collaborazioni:Comix, Motta, Borsalino. Weissestal, Ariete, Boffi.



don'tnedd(ART)

Incucina bistrot, in collaborazione con Spazio San Giorgio arte contemporanea, nel periodo di Artefiera 2015, ospiterà la mostra “don’tneed(ART)." dell’artista Lorenzo Guaia. 
In occasione di Art City White Night sabato 24 gennaio, per l’inaugurazione dell’esposizione, Lorenzo Guaia vestirà i panni di CIBARTISTA e a fianco del padrone di casa, lo chef Giorgio Salterini, cucinerà per gli ospiti un menù degustazione.

Il tratto distintivo dell'artista Bolognese Lorenzo Guaia é sicuramente quello di un grafismo lineare e preciso, un segno deciso e pulito, che si impone leggero, senza alcuna pesantezza al di là del concetto. Tagliente e ordinato. L'essere umano nelle sua figurativitá é totalmente assente, solo oggetti del quotidiano, da tazze a strumenti musicali o seggiovie, manifestano la loro presenza tramite silhouette che si impongono ben definite su sfondi decisamente contrapposti. Pochi protagonisti per supporti variegati. La dicotomia in Guaia si fa sempre ascoltare.
I soggetti tracciati dall'artista si vestono di contorni puntuali, zen, senza alcuna ombra o profondità fluttuano su supporti estremi. Un'estremità declinata ad una bizzarria visiva.
Estremi nella loro composizione, il Guaia collezionista si schiude ai suoi osservatori, é così che ad esempio dopo la fortunata serie delle bustine da té, uno ski-lift dai contorni netti e total white si staglia in una prospettiva fotografica su una campitura patchwork di santini e madonne.
Una moltitudine sacrale si offre come sfondo ad un soggetto distante.
Al limite dell'assurdità metafisica le opzioni di interpretazione sono vaste tante quanti i santini utilizzati per il collage.Sacro e profano. All'artista interessa accorpare icone, simboli sedimentati nell'immaginario comune, apparentemente disconnessi fra loro. In realtà oggi più che mai, il flusso non stop di immagini bulimiche soprattutto nelle pubblicità ci propone accostamenti più che improbabili, il vero problema é che l'occhio abituato a ciò non ne é più consapevole.
É allora che Guaia ripara al guaio, con la sua solita linearità evanescente scava a fondo di questioni antitetiche e dicotomiche, mescolando con grande sobrietà religione, musica rock, paesaggio, medicina.
Più che di un gesto iconoclasta, Guaia si diverte a produrre altre nuove immagini che interrogano il fruitore sulle possibili conciliazioni proposte. Annunciazioni che si fanno carico di rileggere il senso delle icone nel rockeggiante panorama ibrido contemporaneo.

Federica Fiumelli



venerdì 9 gennaio 2015

Morandi e Spalletti. Un dialogo di luce



link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12711-morandi-e-spalletti-un-dialogo-di-luce






Appena si entra negli spazi della galleria tutto cessa. Da un preciso momento ho smesso tutto. Mi sono spogliata del tempo ordinario, quello che scorre dai palmi delle mani, inafferrabile. Ne ho guadagnato un altro, un tempo spoglio, circolare, sospeso. Grande silenzio, grande rispetto, tutto il tempo di questo tempo.

Due artisti, due differenti generazioni, due modi di vestire i lavori apparentemente diversi, ma i corpi poetici sono lì che dialogano passeggiando nell'atmosfera. Vengo quasi presa per mano, sì, sono accolta da cotanto colore volumetrico. A ogni passo è come sfiorare la pelle sull'ovatta. Il mio sguardo oramai è accolto, avvolto, sono raccolta in un silenzio di luce. Quindi mutabile e vulnerabile, in preda alle oscillazioni dello sguardo. Come una ballerina in punta sulla neve fresca sfalda un bianco puro, crepando il bugiardo silenzio.

Morandi e Spalletti non hanno certo bisogno di futili presentazioni, le loro opere hanno viaggiato, viaggiano e continueranno a farlo in tutto il mondo. Due uomini, due artisti che hanno saputo parlare in maniera personale dell'ambiente e delle cose, tenendo sempre presente l'esempio dei grandi maestri italiani, da Giotto a Raffaello. Uno natio di terra emiliana, l'altro di terra abruzzese, entrambi accompagnati dalla natura soave e profonda di confini e orizzonti modellati dal tempo e dalla luce atmosferica. Appennini dalle curvature muliebri e misteriose.

La mostra alla Galleria d'Arte Maggiore di Bologna prorogata fino al 25 Gennaio, è stata pensata e proposta da Franco e Roberta Calarota con il contributo di Hélène de Franchis volendo dimostrare come l'arte di Morandi sia di grande attualità e sia stata fonte di riflessione e confronto per uno dei massimi esponenti viventi dell'arte contemporanea italiana, Spalletti, che non a caso è stato il recente protagonista di importanti mostre a lui interamente dedicate, come quelle ospitate al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al MADRE di Napoli.

Morandi, nato nel 1890, ha sempre fatto dei suoi oggetti i protagonisti di un tempo astorico, la vita, la polvere di quelle tazzine e bottiglie è diventata pura materia, puro colore corpuscolare. Interstizi cromatici di vita. Lo stesso Morandi in un'intervista del 1957 affermava: "Per me non vi è nulla di astratto, peraltro ritengo che non vi sia nulla di più surreale, e nulla di più astratto del reale."

E difatti la sua pittura è in grado di andare oltre, di astrarre, di trarre fuori, oltre il tempo e oltre l'oggetto: avvicinandosi a una tela dell'artista bolognese, si viene travolti da una pennellata atmosferica, in grado di aprirci a un altro sguardo, a un'altra dimensione, di immergerci in un'autentica essenza, una presenza. Macchie di colore, niente più forme, tutto è indistinto. E gli oggetti smettono anche di essere tali.

Mi è impossibile non citare Remo Bodei per sottolineare l'urgente differenza che vi è tra cose e oggetti.Qual è la differenza tra una cosa e un oggetto? Un "oggetto" lo si considera con indifferenza, ad esempio per usarlo, comprarlo o venderlo. Una "cosa", invece, è un oggetto sul quale si sono depositati dei significati, che siano affettivi, intellettuali o altro. In genere dovremmo trasformare gli oggetti in cose per rendere sensata la nostra esistenza. Ma per depositare si ha bisogno di tempo, di tempo lungo, di quel tempo che oggi ci è negato. E quanto significato allora può la polvere avere? Una straordinaria creatura che giorno dopo giorno si andava a depositare come una sirenetta su quegli scogli di cose. Ecco le cose di Morandi sono precisi scogli attraverso i quali l'atmosfera e il colore si sono infranti per sempre, in un eterno presente.

A tal proposito mi sento di citare Stefano Benni: "Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra, talvolta vediamo la vita nell'aria. E la chiamiamo polvere." I colori terrosi e tenui di Morandi mi hanno sempre ricordato I mangiatori di patate di Van Gogh. Uno dei quadri più terrosi e umili atmosfericamente parlando. In silenzio, solo una lampada a olio illumina un'economia di cose e soggetti. Un momento di ristoro serale, e le patate, verdure semplici ma nutrienti dai colori pacati, morandiani, originarie, dalla terra, la prima polvere del mondo.

E' come se Morandi avesse esplorato i suoi oggetti sempre con una fioca luce, quasi a lume di candela o con una lampada a olio, come se illuminasse gli oggetti, con una pazienza religiosa, come se lasciasse alle tenebre ogni volta il compito di nascondere qualcosa da scoprire il giorno dopo. Nuova luce, nuovo sguardo, Spalletti tramite le sue tele monocromatiche ricrea nello spazio quello che Morandi faceva nella tela; l'artista stesso sostiene: "L'arte contemporanea si assume la responsabilità dello spazio, a differenza di quella antica in cui viene delimitato dalla cornice."

Le cornici delle opere di Spalletti vertono, si proiettano verso lo spazio, dorate si assottigliano, si allungano, non delimitano, ma proseguono. Il colore corre lontano, si dipana come un profumo infinito, oltre l'orizzonte. Lo stesso artista dice: " Il colore, come si sposta, occupa lo spazio e noi entriamo. Non v’è più la cornice che delimitava lo spazio. Togliendola, il colore assume lo spazio e invade lo spazio. E quando questa cosa riesce, è miracolosa". Una drammaturgia di spazio, luce e colore. Le opere dei due artisti affiancate nell'esposizione rassicurano lo sguardo, è un'esplosione piumata, così raffinata e fragile.

Le campiture di Spalletti, sono precipizi luminosi che seducono, e la vicinanza del corpo dello spettatore all'opera è una necessità. Gli azzurri atmosferici del cielo, i rosa dell"incarnato, o i grigi che accolgono, e il bianco come struttura emergente e portante di ogni lavoro dialogano con i terrosi e polverosi originari, colori morandiani; quello a cui si assiste è una polifonia non pretenziosa, umile, colori radicalmente nobili, per la semplicità, oceani di profonda complessità. Spalletti ha sempre affermato quanto il maestro bolognese lo avesse influenzato tanto da confessare in un'intervista per Flash Art, di trarre ispirazione proprio da un disegno da lui custodito. Speciali compagnie, in momenti di grande intimità. Perché solo l'intimità con le cose ci porta a una profonda comprensione.

Spalletti che ripone la capacità di racconto nella superficie del colore. E avvicinandosi alla tele, è un leggero crepitio dello sguardo, un sussurro di vento lontano, il colore che si espande sotto il nostro occhio in realtà è nebuloso, corpuscolare proprio come la polvere morandiana. Quasi tracce, segni, passaggi di colore, leggere emersioni, o profonde eclissi, quasi come lame su una pista di ghiaccio, sulle superfici di Spalletti sembra aver pattinato la luce, in un duello d'amore con il colore. La contemplazione e la meditazione e la necessità di tempi lunghi, il guardare le stesse cose con luci e posizioni diverse ha caratterizzato e segnato la poetica di entrambi gli artisti. Pavese, nei Dialoghi con Leucò scriveva: " ...sappiamo che il più sicuro è più rapido modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento questo oggetto ci sembrerà miracoloso di non averlo visto mai."

Spalletti diverse volte ha raccontato il proprio modo di lavorare, intenso, lungo, dopo aver dipinto per dieci giorni e aver controllato i tempi di essicazione passava all'abrasione. In questa fase i pigmenti si rompono, e fuoriesce il colore. In tutti i suoi lavori si trova il bianco, avvicinandosi alla tele ce se ne accorge, come secrezioni nebbiose la superficie restituisce una leggera polvere bianca che viene dall'interno. Quella stessa luce che le cose di Morandi emanano, una luce fantasmagorica dall'interno. Lavori estraenti magmatici, sobriamente incandescenti. Le tracce che ho scorto sulle superfici di Spalletti mi hanno ricordato subito i segni e le circonferenze che le cose morandiane lasciavano sui tavoli e i diversi basamenti. In entrambi i casi si può parlare di trame, di autentiche pelli, di origini vitali.

La pelle del mondo raccontata attraverso la luce, il corpo che viene narrato attraverso l'incorporeo. In questa esposizione, il tempo si è fermato nell'eterno presente, mi sono sentita come Klein nel 1958 totalmente accolta nel nulla, come se i confini del paesaggio si fossero fusi, nella totalità della luce bianca, accecante; se dovessi servirmi di un'opera per tradurre il senso del mio trovarmi rispetto a questo dialogo sarebbe Entrare nell'opera di Giovanni Anselmo.

Sono dentro, sono entrata con grande rispetto, in questo silenzioso, polveroso, universo fatto di trame, in questo vuoto pieno accogliente, con uno sguardo sempre differente, come ogni tramonto. Sfumato, vibrante, non pretenzioso. Un giorno bianco, così bianco, (titolo della personale di Spalletti al MADRE), che nevica dentro. Qui e ora, in questo presente senza confini. Precipita nell'atmosfera, e sulle cose, depositando la memoria di uno sguardo senza tempo.
Lungo e lontano scivola il colore.

Federica Fiumelli











martedì 21 ottobre 2014

The Monsters Mash @ Spazio San Giorgio, Bologna








Art of Sool
Opening Saturday 27th September 2014 - 7pm
27th September - 1st November 2014

La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.
Chuck Palahniuk, Cavie, 2005

Un mash up mostruoso, ecco che cos’è “Monster Mash”.
Sia mash che mostro sono parole che vogliono porre l’accento sulla mescolanza, sull’ibridazione, sul melting pot, sul mescolone, sul cocktail, sull’infuso, sulla contaminazione di mostruosità mostruose.
Forse si tratta di un’ apologia del mostro?
Ma prima di farne una celebrazione è giusto porsi: che cos’è un mostro?
È per il senso comune definito come un personaggio reale o immaginario cui vengono attribuite caratteristiche straordinarie per i quali ci si discosta dalla norma, si trascende quindi il normale e l’ordinario. (Ma cos’è poi definito normale?)
Spesso usato con accezione negativa, mostro viene definito anche chi deforme o chi presenta anomalie estetiche.
Ma è venuto prima il mostro o l’uomo?
Antico come questa domanda probabilmente retorica, di mostri se ne parla fin dalle origini, allora scappa un’enumerazione che farà sicuramente eco nella memoria di tutti: dal mondo egizio a quello greco basta pensare a Cerbero, alle gorgoni, al minotauro, a polifemo, al ciclope, e ancora in altre civiltà e culture, ai troll agli orchi, alle loscuste, alle bestie del mare, a Satana stesso, al floklore e alle fiabe, dai golem, alla mandragola, la bestia della Bella e la Bestia, a Quasimodo nel gobbo di Notre Dame, ai folletti agli gnomi, ai lupi mannari, ai vampiri, alle streghe che hanno popolato libri o film, a Dracula, a Frankestein, Freddy Krueger, a King Kong, a Mr. Hide, all’uomo che ride di Victor Hugo, alle mummie, alle fantasmagorie allucinate del cinema espressionista tedesco dei primi decenni del Novecento (da Nosferatu al Dott. Caligari), al più recente immaginario che va dagli alieni ai cyborg, ai post-human, agli esseri biomorfi e neo tecnologici che hanno popolato l’immaginario di Floria Sigismondi con i celebri videoclip per Marilyn Manson o David Bowie.
Sembra proprio che l’essere umano li generi e li crei per confrontarsi e interrogarsi in qualche modo su se stesso.
L’essere mostruoso ha da sempre infatti ispirato tutte le arti visive, dalla pittura alla scultura, al cinema, alla musica, come non ricordare uno su tutti, il padre dei moderni visionari, Goya, il quale affermava proprio che:
“Il sonno della ragione genera mostri.”
E allora ecco che irrazionalmente e ironicamente, in taglio super neo-pop, il collettivo degli “Art of Sool” ci sforna una generazione di mostri ad hoc.
Confezionati in vero stile sool, dal grafismo famelico e preciso, leggero e vivace, la banda di mostri che ci sguinzagliano è tutto sommato confortante e per niente spaventosa.
Si perché se la società vigente ci vuole tutti bell’impacchettati con lo stesso fiocco, in questa età della super iper comunicazione, in piena globalizzazione, dove la standardizzazione sembra la nostra vera ombra, quest’ombra tanto vale perderla come faceva Peter Pan.
E i Sool lo sanno bene, tant’è che i loro mostri sono realmente diversi, sono dei freak, outsiders, dei mash-up visivi altisonanti, sono differenti perché probabilmente riconoscono le loro paure e cacciano via la maschera dell’omologazione e delle finte e buoniste velleità “umane”.
I cliché se li mangiano a colazione.
I mostri del giovane collettivo bergamasco attingono dal più vasto e folle immaginario, si cibano di ogni cosa o idea facendo sbarcare l’estro collettivo della gang dalla strada, al fumetto, dal wall painting, all’illustrazione, questi ragazzi si nutrono di pane e fantasia, lavorano a più mani, e la loro polifonica bravura e passione rischiara chiassosamente su qualsiasi supporto prendano in considerazione: dal muro alla tela, non c’è pietà per questa invasione salvifica mostruosa. Le immagini di fatto sono caotiche e rumorose, un vero rave visivo.
Un baccano pazzesco, accentuato dalle scritte a fumetto, dalle onomatopee e dalla scelta di composizione a patchwork.
Plastici e volumetrici e i personaggi riempiono tutto lo spazio, ove ce ne sia, la mostruosità è virale, dai colori caramellosi, e rotondi, sembrano intonsi a qualsiasi pioggia acida. Anche nei bianchi e neri tutto è gommoso.
Sono già di per sé corrosivi al punto giusto. Geneticamente modificati sono troppo indie per far veramente paura, sono underground, o al massimo vivono di notte, alla deriva, dei clown situazionisti acronici. Sono maschere di loro stessi e hanno superato Pirandello, non hanno bisogno di nascondersene dietro una vera di maschera, perché loro sono così, tutti diversi divisi dall’uguale.
Originari più che originali, un po’ come ferite aperte, uniche e irripetibili, pullulano e schizzano di vita, pian piano cicatrizzano il dolore e ne fanno un’identità. DNA ad alto tasso di sballatura.
Una parata di flâneur grotteschi, dall’umorismo smaltato che scivola tra le rotondità abbondantemente presenti.
Sembrano urlarci: mostrate i vostri mostri.
L’etimologia di mostrare non a caso, significa: far vedere, presentare ad altri perché veda, esamini, osservi. Rivelare, lasciare vedere. Offrirsi alla vista.
Quindi vuol dire anche un po’ donarsi, e questo soprattutto oggi fa paura.
Fa paura vedere, e allora ci si accontenta di guardare.
Abbiate perciò coraggio di scendere dalla giostrina felice della perfezione apparente.
Mica facile però quando ti s’incolla l’etichetta sul volto.
Un elogio al disagio e alla bruttezza, qualcuno se ne frega della grande bellezza. Decadenti da ridere, un brutto rock, perfino Ensor si farebbe un selfie tra la monster walking targata Sool.
Comicità a parte, i Sool con questa new generation, ci fanno riflettere sulla paura dell’essere diverso, perché è più facile omologarsi che mostrarsi veramente. Ed oggi il mondo è pieno zeppo di paura e l’uomo preferisce giudicare ed escludere piuttosto che capire e integrare.
Chi sono allora i veri mostri?
Prendendo a prestito una cara frase dal film “Forrest Gump” viene quasi da dire:
“Mostro è chi mostro fa.” O forse ancora più opportuno apportando una lieve modifica: “Mostro è chi mostra di sé non fa.”

Federica Fiumelli - Spazio San Giorgio











martedì 15 aprile 2014

Il Tè dei Matti @SpazioSanGiorgio, Bologna

Lorenzo Guaia artist
dal 22 Marzo al 30 Aprile 2014



“Ogni tazza di tè rappresenta un viaggio immaginario”
Catherine Douzel
Tè nero, verde, bianco, giallo. La bevanda che porta dietro l’aroma dell’antichità si racconta già di per sé attraverso i colori.
Colori che sanno di follia, riflessione e incontro come anche Carroll descrisse nel tè dei matti tra il Cappellaio e Alice.
Legata a civiltà orientali questa pianta magica ha ispirato il lavoro dell’artista Lorenzo Guaia che ne fa ossessione materica e grafica.
L’artista unisce la fisicità consumata della bustina da tè alla sua rappresentazione simbolica.
I lavori di Guaia consistono in tavole di legno pressoché quadrate, rivestite con decine di bustine di tè, raggrinzite, stropicciate dal tempo, dall’ocra al sabbiato all’argilla, dal marrone chiaro allo scuro fino ad un rosé sfumato, i colori formano un tappeto surreale e tattile, come un sottobosco fatato.
Ogni filtro rappresenta un preciso momento di vita, di giornate timide o memorabili, attimi di vita quotidiana. Opere che diventano così ritratti e autoritratti aromatizzati del tempo, che profumano di istanti vicini o lontani.
L’artista elegge i filtri a cellule di vita bevuta, o a pixel quadrati e medievali come frati cappuccini avvolti nel loro saio, le opere diventano così mosaici di visioni al tè.
Il profumo degli infusi, imprigionato per sempre nelle bustine, apre immagini e sensazioni trasportando gli occhi, la mente e i ricordi in spazi speziati e lontani. La bustina diventa così attrice della scena pronta a spostarsi, stringersi, piegarsi appena per lasciarsi delicatamente dipingere.
Le tazze di tè, protagoniste indiscusse dei lavori di Guaia, sono bidimensionali, iconiche, stilizzate e simboliche, dal sapore pop ma senza alcuna prepotenza espressiva. Il supporto rende il soggetto soft ed elegante, non invasivo, estremamente educato.
“La filosofia del tè è igiene perché richiede la più rigorosa pulizia; è economia perché dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nel complicato e pretenzioso; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto tra i nostri sentimenti e l’universo.” 
Così scriveva Okakura Kazuko, nel “Libro del tè” nel 1906. E ancora:
“Il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè e neppure la leziosa innocenza del cacao.”
Le grandi e robuste linee di contorno rosse o nere delineano prepotentemente la tazza custode di tè bollenti o raffreddati, in attesa di essere sorseggiati da labbra sognanti, sospese in chissà quale luogo, sembrano fluttuare sulla loro stessa materia, il bianco della porcellana prende così vita tra le rughe, cime e angoli dei filtri. Probabilmente Tien Yiheng aveva ragione nell’affermare che “Il tè si beve per dimenticare il frastuono del mondo.”
Filtri vintage di una memoria collettiva e singolare.
E ancora tazze capovolte e antigravitazionali volteggiano, tazze ribaltate o quasi speculari, un teatrino di composizione silenzioso e immobile nella rigidità del tempo.
Linee di confine si adagiano sul corpo sinuoso delle bustine tracciando confini metafisici e immaginati davanti al fumo bollente e nebbioso di un tè.
Ma ecco che talvolta su quel confine alla deriva, dalla terrosità dei filtri nasce con grafismo vagamente orientale e leggero, un lucido e nero albero, foglioso ed etereo, evanescente e decorativo, sospeso come i sogni nel profumo di un tè.
Il viaggio di Guaia è delicato, in punta di piedi, tra aromi funambolici e sospesi, quasi con il timore e la paura come Sydney Smith scriveva: “Che la creazione possa finire prima dell’ora del tè.”
Federica Fiumelli  



giovedì 16 gennaio 2014

La Porta dei Sogni, Raimondo Galeano Artist @ SPAZIO SAN GIORGIO, Bologna

La Porta dei Sogni
Raimondo Galeano
 dal 11 Gennaio al 8 Febbraio 2014





"La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori.” Alda Merini
Il colore non esiste. E’ questa l’affermazione che ha spinto lo studio e la ricerca scientifica, artistica ed estetica di anni e anni dell’artista bolognese Raimondo Galeano.
La luce dà forma e colore a tutte le cose, io dò forma e colore alla luce”, queste le parole chiave della poetica di Galeano formatosi inizialmente a Roma con la Scuola di Piazza del Popolo. 
L’artista supera i limiti della pittura e va oltre, si affida direttamente a qualcosa di più complesso e   maestoso, all’uso della luce.
Lo studio di Galeano si concretizza in un sorta di camera oscura, un modus operandi affine alla fotografia e alla cinematografia. 
Grafia della luce. 
Luce che scrive, luce che dipinge. Una luce attiva che disvela il suo fascino come la più bella e seducente delle amanti. La pittura si spoglia del colore e si dona alla verità formale della luce. 
Appena il buio scende, si viene sedotti da opere luminescenti e ci si trova dinnanzi ad immagini che entrano in scena: l’immagine diventa verbo, irrompe nell’apparire della visione, diventa  protagonista galoppante e si fa attrice del momento. Come una diva, icona dell’immaginario collettivo. 
E proprio di icone si vestono le opere in esposizione, simboli cult dell’immaginario cinematografico fantastico e surreale.
Peter Pan, Trilly, Mary Poppins e altri personaggi fantasy saranno i protagonisti di qualcosa che va oltre una semplice mostra.  
Cosa di più fantastico di una pittura di luce? Cosa di ancor più fantastico, quando la fantasia dei personaggi del cinema brilla incandescente rendendo preziosa l’oscurità? Galeano “stilista”, veste di luce le icone del cinema ponendole letteralmente sotto il riflettore. 
L’artista diviene faro, unico nel suo genere e unico nella storia dell’arte.
Galeano si serve della luce per donarci immagini splendide e splendenti, quasi ritratti fotografici in negativo fluo. Di fronte ad una sua opera, come all'interno di una sala cinematografica buia, meraviglia e attesa ricordano momenti emozionanti di scene proiettate che possono cambiare la storia del cinema, commuoverci o farci sorridere.
La pittura di Galeano è una pittura dialettica e performativa, attiva. 
Mai uguale a se stessa, nè di giorno, nè di notte. Come una scia di stelle, di giorno tele lattee quasi scremate e monocrome si trasformano di notte, al buio, in qualcosa d'altro, regalandoci le immagini che si nascondono alla luce. Ecco la trasformazione, la metamorfosi, il passaggio.
Il bruco diventa farfalla, e la pittura si accende, si va in azione. 
Ciak si gira.  La tela come un set cinematografico sfavillante.
Una pittura quindi in costante rinnovo che si allinea straordinariamente all’ideologia contemporanea: luce quale soggetto informe, ineffabile e immateriale che richiama perfettamente la concezione di tecnologia.  
Una pittura quindi tecnologica quella di Galeano.
Galeano artista, performer, drammaturgo, regista e scultore di quella creatura libera, bizzarra, indefinibile, priva di limiti che è la luce.
Più che una mostra, una vera e propria esperienza sensoriale.
Spazio San Giorgio
Federica Fiumelli 










Sabato 11 e 18 Gennaio e sabato 1 e 8 Febbraio 2014 h. 16.00-18.00, Workshop con l'artista nell'ambito del programma Pop for Kids - Arte a Misura di Bambino. Per info e prenotazioni: INFO@SPAZIOSANGIORGIO.IT 

 Orari di apertura:
Martedì-Mercoledì-Giovedì 9.30-15.30 
Venerdì 10.00-13.00 / 17.00-19.00 
Sabato 16.00-19.00 
in altri orari su appuntamento / chiuso Domenica e Lunedì

Spazio San Giorgio – Via San Giorgio 12/A - Bologna - 3495509403
Ingresso Libero



mercoledì 18 dicembre 2013

Willow. Bianco, Rosso, VERDI Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna


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Willow. Bianco, Rosso, VERDI

Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna

Willow. Bianco, Rosso, VERDI

In occasione del bicentenario, l'artista neopop Willow dedica un omaggio al grande Maestro Giuseppe Verdi che ha saputo avvicinare la lirica e il teatro in un modo nuovo al grande pubblico.
Un poeta, un patriota del Risorgimento che ha veicolato un ideale, un pensiero attraverso la sua opera in un periodo in cui l'Italia era alla ricerca di una vera e propria identità di Paese. Un uomo semplice, un italiano conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo e di cui ognuno di noi dovrebbe essere fiero di esserne conterraneo.

La cifra stilistica che Willow propone nelle sue opere sa di ottimismo e colore. Di stile Neopop, le tele che ci regala sono virus di gioia e sorrisi, antibiotici contro la pioggia, il malumore e la tristezza, sono esplosioni alcoliche inebrianti, spumeggianti e frizzanti, un continuo cin-cin visivo, e i personaggi e le forme che popolano la superficie sembrano tante bollicine di spumante. It’s always a party, a pop party!

Lo stile di Willow mescola grafica, design e fumetto, i personaggini si elevano a icone pop, semplici, dirette, immediate. Cuoricini, lettere, smile super positivi invadono da veri combattenti il nostro sguardo, che ne rimane rallegrato e sorridente. Far sorridere lo sguardo, ecco una mission importante. Guardando le sue tele si ha l’impressione di trovarsi in una bolgia colorata di tanti piccoli esseri comunicativi, con cuori rampanti e vogliosi di amare. Willow ci regala un momento di relax e gioia. Il suo grafismo leggero ma conciso, anche nei bianchi e neri, ci trasporta in un’atmosfera di tutto pieno, di un caos fumoso, una metropoli di inchiostri, piccoli grumi espressivi.

Spicchi di gelatina colorata, i piccoli personaggi sono come una cascata di canditi dalle tonalità accese, hanno umori incandescenti. Gialli, rossi, arancioni, blu, azzurri, verdi e viola, una parata festosa e caramellata corredata da una forte impronta onomatopeica tipica del fumetto, “UOP”, “B”, “PA”, “PE”, “HI”, “EB”, “Z”, “:D”, “SBU”, “LA”... sembra quasi di sentirli goffamente. Le fantasie di Willow sono invasioni di positività, e non ci resta che cantare allegramente sotto una pioggia di colore.

Pubblicato: Giovedì, 12 Dicembre 2013

Articolo di:  Federica Fiumelli








domenica 27 ottobre 2013

ALEANDRO RONCARA’ “Non esistono più i conigli di una volta” @Spazio San Giorgio, Bologna Dal 26/10 al 9/11


Ecco il mio testo critico per l'artista Aleandro Roncarà, visibile sia sul sito di Spazio San Giorgio, sia sul Wall Street International Magazine al link:





Qualcuno come Matisse sosteneva che il colore ancor prima del disegno fosse una liberazione, Klein pensava addirittura che i colori siano i veri abitanti dello spazio.
I personaggi che vivono a Mondorondo dell’artista Aleandro Roncarà, vivono, respirano, sono immersi, sono essi stessi colore puro e à plat, diretti, iconici, semplici nel modo di divertire e rallegrare apparendo.
A Mondorondo tutto è fantasia e niente è violenza come sottolinea l’artista.
Erede del grafismo chiaro e conciso alla Keith Haring, Roncarà delinea le sue figure con contorni neri marcati e robusti, le linee nere diventano veri esoscheletri di pensieri, sostengono i personaggi, sono impalcature buffe e iridescenti, derivano da sogni e idee, da ritornelli di canzoni cantati all’alba, dopo aver fatto le ore piccole al bar sotto casa.
“Maaa il cielo è sempre più, POP!”
Ogni forma è sagoma evanescente, cartonata, fluttuante negli angoli della libera fantasia più sfrenata. Cuori vispi, fiori, stelle, ma anche spille, frecce, torte, latte, chiavi, corone, matite, drink, bottiglie, prese della corrente, perché proprio di colorata elettricità si tratta nei lavori di Roncarà.
I personaggi dagli occhi a metà, occhi che sembrano serrature aperte su praterie di possibilità, perchè l’enumerazione di oggetti e situazioni si moltiplicano, perché tutto è possibile e moltiplicabile.
Cervelli in festa, o enormi baffi, teste colorate, o scheletri colored, bocche a cuore, cappelli e grandi orecchini oro, sigarette pendenti sulle labbra o nasoni allungati e rotondeggianti. Uno nessuno e centomila.
I personaggi di Mondorondo sono abituati a visioni a tutto tondo, dallo spazio all’oceano, visioni inglobanti e totalizzanti, a 360 gradi, dove gli angoli e i confini non sembrano esistere, non sono sorpresi da un mondo iper glicemicamente colorato, il colore si fa concetto neon, il colore risplende sovrano e avvolge, inchioda e arresta lo sguardo, vorticosamente, risucchia.
Color in.
I quadri di Roncarà sono una performance visiva dello sguardo, lo fanno precipitare letteralmente nel caos del colore, tra forme e icone pop sostenute dai contorni neri ma libere di vagare con la totale assenza di gravità.
Nella totale assenza di gravità c’è però incastro e attrito tra i personaggi e gli oggetti che assumono quindi la valenza di divertenti pezzi pazzi di un puzzle a incastro, sono ben dosati, ben shakerati nella moltitudine, ognuno ha il suo spazio nel non-spazio, perché tutto è essenza, distillato super pop.

Si ricorda inoltre che nelle date del 26 ottobre e del 9 novembre dalle 15:30 alle 18:00 l’artista sarà presente per il workshop con i bambini per il progetto patrocinato dal Comune di Bologna, POP FOR KIDS.

Per info e prenotazioni: INFO@SPAZIOSANGIORGIO.IT 



Orari di apertura:
Martedì-Mercoledì-Giovedì 9.30-15.30 
Venerdì 10.00-13.00 / 17.00-19.00 
Sabato 16.00-19.00 
in altri orari su appuntamento / chiuso Domenica e Lunedì

Spazio San Giorgio – Via San Giorgio 12/A - Bologna - 3495509403
Ingresso Libero



Federica Fiumelli