Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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martedì 3 febbraio 2015

Oggetti su piano @ Fondazione del Monte, Bologna


link wsi mag: http://wsimag.com/it/arte/13105-oggetti-su-piano


Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
(Ungaretti)

Dal principio la mia personale definizione di piano sarebbe quella di un confine tra la profondità e la superficie, lì tra l'abisso e la pelle. Ho un'immagine instabile e sismica del piano. Un piano in perenne oscillazione come nella scena del film Il pianista sull'oceano, nel bel mezzo di una tempesta in pieno oceano, Novecento continuava a suonare il suo pianoforte su un pavimento danzante, e si spostava seguendo il movimento dell'acqua e della musica, lì sul quel piano mobile. A dispetto della fissità che paiono assumere gli oggetti sulla tela, questi provocano in noi un antico tremore. Anche Glissant nel "pensée du tremblement" ovvero il "pensiero sismico del mondo che trema in noi e attorno a noi" suggeriva il tremore non come paura o debolezza, ma come la speranza di avvicinarsi al caos. Il caos della bios.

La pittura non è morta, la natura morta non è morta. Solo dio lo è. Forse. Speculazioni religiose a parte, Oggetti su pianoè laicamente intima. Antonio Grulli, curatore di questa mostra accolta negli spazi della Fondazione del Monte, come un abile couturier ha saputo tessere una trama visiva mobile pittorica vivida e maieutica. E lo fa con quattordici opere di haute-couture firmate e partorite da Riccardo Baruzzi, Pierpaolo Campanini, Paolo Chiasera, Leonardo Cremonini, Pirro Cuniberti, Cuoghi Corsello, Flavio Favelli, Piero Manai, Giorgio Morandi, Alessandro Pessoli, Comcetto Pozzati, Sergio Romiti, Vincenzo Simone, Sissi.

Il metodo praticato dal saggio e quantomai vicino Socrate prevedeva appunto una natura dialettica, in un'indagine filosofica basata sul dialogo e quindi intriso fino al midollo di spirito critico. La pittura come critica, ed eterna portatrice dell'inesprimibile, Grulli, coraggioso quanto studioso, controvento ha saputo scegliere, quasi eleggere, in via del tutto meritocratica, una rosa purpurea di artisti, facendoli sfilare in uno spazio atemporale, in un silenzioso dibattito fra generazioni. Una scuola di pittura bolognese. Una Pittura di oggetti. Quegli stessi oggetti con i quali Duchamp fece sterzare per sempre la direzione dell'arte a venire. L'uomo si è sempre confrontato dapprima con la rappresentazione e poi con la presentazione degli oggetti della vita quotidiana.

In un saggio contenuto in Semiotiche della pittura Lucia Corrain e Paolo Fabbri riprendono un passo da All'ombra delle fanciulle in fiore di Proust, a proposito del genere still-leven, cito come segue: "Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle "nature morte". E ancora prendo in prestito un altro pensiero da Pascal che affermava: "Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali". Straordinaria pure la definizione di De Chirico con la quale definiva questo linguaggio delle cose come "segni passionali di un alfabeto metafisico".

In questa mostra differenti generazioni vengono poste sullo stesso piano, come se stessero dipingendo tutti quanti insieme nello stesso atelier, in una totale mobilità oscillatoria, in dialogo, in un tempo ucronico e circolare dalla durata bergsoniana. Concetto Pozzati ad esempio fu maestro e incontro fondamentale di numerosi artisti presenti in mostra tra cui Campanini, Monica Cuoghi, Claudio Corsello, Alessandro Pessoli, Paolo Chiasera, Sissi e Vincenzo Simone.

Figli e padri si confrontano quindi, qui, a radici di colore e pennelli. Perché di una riflessione geopolitica si tratta. Oggi dove è così difficile trovare una mostra integrale di pura pittura, oggi dove è così complicato curare e dare attenzione alla realtà locale nella quale viviamo. E' più facile pensare alla pittura come una signorona datata senza alcun sex appeal o ricercare l'artista più impronunciabile oltreoceano. Al contrario è estremamente interessante, risalire il torrente degli eventi, guardare appena oltre, proprio sotto la punta del proprio naso e respirare a pieni polmoni l'aria che tira intorno e tra di noi. Un Grulli esploratore che utilizza le opere pittoriche alla stregua di una lente di ingrandimento per setacciare le sfumature autoctone. Una collezione di pittura così lontana, così vicina, perché l'eco non è che un ritorno che differisce dall'origine, nello spazio del tempo. E lo spazio di questa esposizione sono i piani. Molteplici. La mostra è una continua schiusa dentro una chiusa, alla stregua di una scatola cinese, si trova una cura dentro una cura. La mostra si prende cura della pittura, la pittura si prende cura del mondo. Una cura attenta, una cura critica.

Il piano pittorico altro non è che un non-confine, labile, concettuale, violabile, ambiguo, prezioso e intenso, drammatico, gli oggetti attori senza fissa dimora nel tempo del colore. Il piano curatoriale, altro non è che un limite fisico dato dallo spazio del luogo, su cui poggiano come orizzonti indomabili, le opere degli artisti. Quindi similitudini e rimandi. Siamo risospinti in una meta riflessione continua. Notevole il display curato dall'artista Flavio Favelli, uno splendido fil rouge, sul quale le opere si dipanano senza orpelli cronologici. E' così che in una fioritura corporale, rosso sangue, si ritrova a dialogare face to face Morandi con Flavelli. Gli oggetti morandiani, avvolti nel loro manto polveroso di vita si riflettono nelle due bottiglie bolognesi, in una speculazione temporale, la vecchia Romagna si è riversata in un sguardo alcolico, accolto dal fluire rosso á plat dello stesso artista. La pittura si appoggia, si aggrappa, si affida alla pittura stessa, il sapore, liquore e languore bolognese si lascia andare a vaghezze orientali. Un rapporto sismico tra zolle di pittura.

E' così che all'angolo della sala uno straordinario scorcio italiano anni '90, una fotografia dipinta ad olio su cartoncino di Cuoghi e Corsello affianca e chiacchiera con due straordinari compagni, tra la scomposizione scogliosa di Romiti e la metafisica liquida di Campanini. Nell'ultima sala, il Sergente che non può calpestare le margherite di Cuniberti scivola straordinario tra i piani sensuali e organici, linguali, capillari, dell'Indice Madre di Sissi e la shakespeariana buia pittura di Cremonini, con Un cranio di montone. Tra dettagli anatomici e vanitas sintetiche e solitarie.

Lo slittamento dell'essere pittura si fa sempre più danzante tra l'esistenziale Testa di Manai, dalla quale emergono come naufraghe impastate di bianco parole di giornali, e la sinestetica stop motion di Pessoli, dove un energico e solitamente irriverente Petrolini ci accompagna tra i pastelli, l'acrilico e il suono. La nota solitaria e stridente per la sopraffine fitta eleganza desertica è l'altra opera di Cuoghi e Corsello, Bambini morti nel giardino dei bucintori. Pitture polifoniche si adagiano sullo stesso piano, quello che ne fuoriesce non è un baccano ma un rispettoso soppesarsi di sguardi che si sono depositati in eterni gesti trattenuti dalla tela.

Da questa fragile malinconia fotografica ad olio riporto l'attenzione a ritroso nella sala precedente per cogliere i piani dall'equilibrio sintetico, e senza peso di Baruzzi, Sinistra Destra verso l'alto che ben dialogano a bassa voce con le Choreography of Species: Rosa Tannenzapfen di Paolo Chiasera, che pone sui propri piani atmosferici e oltrefisici, nature opulescenti come muliebri fantasmagorici perni. Statuette della fertilità arcaiche che riflettono con ombre scure il loro incidere sullo spazio tempo che altro non è che un cielo capovolto. La coreografia contenuta nel titolo fa pensare alla mostra stessa come una danza su piano. Oggetti su piano è un movimento che scivola piano.

Ma esplode pastosa e corporea questa pittura nelle Collezioni di fiori di Vincenzo Simone, una turbolenta espressiva gettata di colore in tempesta, dove la natura non lascia alla cultura che un fiorente sanguinoso distacco. Atemporale mi muovo al principio della prima sala. Il corpo della mostra può essere percorso facendo avanti e indietro tra le stanze, balzando da parete a parete proprio per la flessibilità di confronto che la metodologia espositiva offre, il corpo dell'esposizione come quello di un amante da esplorare da cima a fondo con estrema pazienza, curiosità e sensibilità sismografica. Rileviamo tutte le oscillazioni di colore.

Cinque le opere di Chiasera che per questa volta indaga interni di ambienti da diversi punti di vista o svista, qualdirsivoglia, libri, una scultura del grande cardinale di Manzú, altre opere d'arte, i piani si succedono a diversi tempi, negli stessi luoghi, che divengono altri. Chiasera dipinge mostre che accadranno, potrebbero accadere al di là della tela e del colore. Al di là della superficie. La curatela come pittura al di là del piano. E poi chiude a ritroso e accoglie all'arrivo, Sottochiave di Pozzati, su piccolo formato, si mescolano pirografia, acrilico e smalto, ecco che abbiamo trovato, forse, la chiave di volta di tutto, di questa scatola orientale, amante di una pittura tra padri e figli, che si fa scambio e critica delle proprie radici.

Sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po' folle, un po' saggio
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio,
la paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: " io ho sempre tentato."
(Guccini)

Federica Fiumelli












venerdì 9 gennaio 2015

Morandi e Spalletti. Un dialogo di luce



link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12711-morandi-e-spalletti-un-dialogo-di-luce






Appena si entra negli spazi della galleria tutto cessa. Da un preciso momento ho smesso tutto. Mi sono spogliata del tempo ordinario, quello che scorre dai palmi delle mani, inafferrabile. Ne ho guadagnato un altro, un tempo spoglio, circolare, sospeso. Grande silenzio, grande rispetto, tutto il tempo di questo tempo.

Due artisti, due differenti generazioni, due modi di vestire i lavori apparentemente diversi, ma i corpi poetici sono lì che dialogano passeggiando nell'atmosfera. Vengo quasi presa per mano, sì, sono accolta da cotanto colore volumetrico. A ogni passo è come sfiorare la pelle sull'ovatta. Il mio sguardo oramai è accolto, avvolto, sono raccolta in un silenzio di luce. Quindi mutabile e vulnerabile, in preda alle oscillazioni dello sguardo. Come una ballerina in punta sulla neve fresca sfalda un bianco puro, crepando il bugiardo silenzio.

Morandi e Spalletti non hanno certo bisogno di futili presentazioni, le loro opere hanno viaggiato, viaggiano e continueranno a farlo in tutto il mondo. Due uomini, due artisti che hanno saputo parlare in maniera personale dell'ambiente e delle cose, tenendo sempre presente l'esempio dei grandi maestri italiani, da Giotto a Raffaello. Uno natio di terra emiliana, l'altro di terra abruzzese, entrambi accompagnati dalla natura soave e profonda di confini e orizzonti modellati dal tempo e dalla luce atmosferica. Appennini dalle curvature muliebri e misteriose.

La mostra alla Galleria d'Arte Maggiore di Bologna prorogata fino al 25 Gennaio, è stata pensata e proposta da Franco e Roberta Calarota con il contributo di Hélène de Franchis volendo dimostrare come l'arte di Morandi sia di grande attualità e sia stata fonte di riflessione e confronto per uno dei massimi esponenti viventi dell'arte contemporanea italiana, Spalletti, che non a caso è stato il recente protagonista di importanti mostre a lui interamente dedicate, come quelle ospitate al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al MADRE di Napoli.

Morandi, nato nel 1890, ha sempre fatto dei suoi oggetti i protagonisti di un tempo astorico, la vita, la polvere di quelle tazzine e bottiglie è diventata pura materia, puro colore corpuscolare. Interstizi cromatici di vita. Lo stesso Morandi in un'intervista del 1957 affermava: "Per me non vi è nulla di astratto, peraltro ritengo che non vi sia nulla di più surreale, e nulla di più astratto del reale."

E difatti la sua pittura è in grado di andare oltre, di astrarre, di trarre fuori, oltre il tempo e oltre l'oggetto: avvicinandosi a una tela dell'artista bolognese, si viene travolti da una pennellata atmosferica, in grado di aprirci a un altro sguardo, a un'altra dimensione, di immergerci in un'autentica essenza, una presenza. Macchie di colore, niente più forme, tutto è indistinto. E gli oggetti smettono anche di essere tali.

Mi è impossibile non citare Remo Bodei per sottolineare l'urgente differenza che vi è tra cose e oggetti.Qual è la differenza tra una cosa e un oggetto? Un "oggetto" lo si considera con indifferenza, ad esempio per usarlo, comprarlo o venderlo. Una "cosa", invece, è un oggetto sul quale si sono depositati dei significati, che siano affettivi, intellettuali o altro. In genere dovremmo trasformare gli oggetti in cose per rendere sensata la nostra esistenza. Ma per depositare si ha bisogno di tempo, di tempo lungo, di quel tempo che oggi ci è negato. E quanto significato allora può la polvere avere? Una straordinaria creatura che giorno dopo giorno si andava a depositare come una sirenetta su quegli scogli di cose. Ecco le cose di Morandi sono precisi scogli attraverso i quali l'atmosfera e il colore si sono infranti per sempre, in un eterno presente.

A tal proposito mi sento di citare Stefano Benni: "Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra, talvolta vediamo la vita nell'aria. E la chiamiamo polvere." I colori terrosi e tenui di Morandi mi hanno sempre ricordato I mangiatori di patate di Van Gogh. Uno dei quadri più terrosi e umili atmosfericamente parlando. In silenzio, solo una lampada a olio illumina un'economia di cose e soggetti. Un momento di ristoro serale, e le patate, verdure semplici ma nutrienti dai colori pacati, morandiani, originarie, dalla terra, la prima polvere del mondo.

E' come se Morandi avesse esplorato i suoi oggetti sempre con una fioca luce, quasi a lume di candela o con una lampada a olio, come se illuminasse gli oggetti, con una pazienza religiosa, come se lasciasse alle tenebre ogni volta il compito di nascondere qualcosa da scoprire il giorno dopo. Nuova luce, nuovo sguardo, Spalletti tramite le sue tele monocromatiche ricrea nello spazio quello che Morandi faceva nella tela; l'artista stesso sostiene: "L'arte contemporanea si assume la responsabilità dello spazio, a differenza di quella antica in cui viene delimitato dalla cornice."

Le cornici delle opere di Spalletti vertono, si proiettano verso lo spazio, dorate si assottigliano, si allungano, non delimitano, ma proseguono. Il colore corre lontano, si dipana come un profumo infinito, oltre l'orizzonte. Lo stesso artista dice: " Il colore, come si sposta, occupa lo spazio e noi entriamo. Non v’è più la cornice che delimitava lo spazio. Togliendola, il colore assume lo spazio e invade lo spazio. E quando questa cosa riesce, è miracolosa". Una drammaturgia di spazio, luce e colore. Le opere dei due artisti affiancate nell'esposizione rassicurano lo sguardo, è un'esplosione piumata, così raffinata e fragile.

Le campiture di Spalletti, sono precipizi luminosi che seducono, e la vicinanza del corpo dello spettatore all'opera è una necessità. Gli azzurri atmosferici del cielo, i rosa dell"incarnato, o i grigi che accolgono, e il bianco come struttura emergente e portante di ogni lavoro dialogano con i terrosi e polverosi originari, colori morandiani; quello a cui si assiste è una polifonia non pretenziosa, umile, colori radicalmente nobili, per la semplicità, oceani di profonda complessità. Spalletti ha sempre affermato quanto il maestro bolognese lo avesse influenzato tanto da confessare in un'intervista per Flash Art, di trarre ispirazione proprio da un disegno da lui custodito. Speciali compagnie, in momenti di grande intimità. Perché solo l'intimità con le cose ci porta a una profonda comprensione.

Spalletti che ripone la capacità di racconto nella superficie del colore. E avvicinandosi alla tele, è un leggero crepitio dello sguardo, un sussurro di vento lontano, il colore che si espande sotto il nostro occhio in realtà è nebuloso, corpuscolare proprio come la polvere morandiana. Quasi tracce, segni, passaggi di colore, leggere emersioni, o profonde eclissi, quasi come lame su una pista di ghiaccio, sulle superfici di Spalletti sembra aver pattinato la luce, in un duello d'amore con il colore. La contemplazione e la meditazione e la necessità di tempi lunghi, il guardare le stesse cose con luci e posizioni diverse ha caratterizzato e segnato la poetica di entrambi gli artisti. Pavese, nei Dialoghi con Leucò scriveva: " ...sappiamo che il più sicuro è più rapido modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento questo oggetto ci sembrerà miracoloso di non averlo visto mai."

Spalletti diverse volte ha raccontato il proprio modo di lavorare, intenso, lungo, dopo aver dipinto per dieci giorni e aver controllato i tempi di essicazione passava all'abrasione. In questa fase i pigmenti si rompono, e fuoriesce il colore. In tutti i suoi lavori si trova il bianco, avvicinandosi alla tele ce se ne accorge, come secrezioni nebbiose la superficie restituisce una leggera polvere bianca che viene dall'interno. Quella stessa luce che le cose di Morandi emanano, una luce fantasmagorica dall'interno. Lavori estraenti magmatici, sobriamente incandescenti. Le tracce che ho scorto sulle superfici di Spalletti mi hanno ricordato subito i segni e le circonferenze che le cose morandiane lasciavano sui tavoli e i diversi basamenti. In entrambi i casi si può parlare di trame, di autentiche pelli, di origini vitali.

La pelle del mondo raccontata attraverso la luce, il corpo che viene narrato attraverso l'incorporeo. In questa esposizione, il tempo si è fermato nell'eterno presente, mi sono sentita come Klein nel 1958 totalmente accolta nel nulla, come se i confini del paesaggio si fossero fusi, nella totalità della luce bianca, accecante; se dovessi servirmi di un'opera per tradurre il senso del mio trovarmi rispetto a questo dialogo sarebbe Entrare nell'opera di Giovanni Anselmo.

Sono dentro, sono entrata con grande rispetto, in questo silenzioso, polveroso, universo fatto di trame, in questo vuoto pieno accogliente, con uno sguardo sempre differente, come ogni tramonto. Sfumato, vibrante, non pretenzioso. Un giorno bianco, così bianco, (titolo della personale di Spalletti al MADRE), che nevica dentro. Qui e ora, in questo presente senza confini. Precipita nell'atmosfera, e sulle cose, depositando la memoria di uno sguardo senza tempo.
Lungo e lontano scivola il colore.

Federica Fiumelli