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12 MAG 2016 di FEDERICA FIUMELLI
Tutto ciò che è profondo ama mascherarsi; le cose più profonde odiano l'immagine e la similitudine (Nietzsche)
Maschera come vuole l'etimologia della parola sta a significare persona. La maschera, nella mostra curata da Antonio Grulli alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, diventa luogo autentico di incontro tra tre persone di differenti generazioni.
Il celebre Autoritratto con maschere, 1899, del pittore belga James Ensor diviene l'innesco e il pretesto per un dialogo enigmatico tra Piero Manai e Luigi Presicce, entrambi gli artisti hanno infatti preso come punto di partenza la suddetta opera per alcuni lavori. Si crea così una voce triangolare che trova nell'assimetria geografica e temporale una corrispondenza colta, trasversale, e puntuale, rituale e preziosa.
L'esposizione può essere letta come una riflessione sul corpo, sulla trascendenza, la mancanza e l'enigma imprescindibile che risiede come edera nel profondo substrato dell'esistenza. Lo sguardo pittorico di Presicce e la pittura scultorea di Manai si infrangono l'uno nell'altra in una complessità stratificata che richiama l'essenza e l'arcaicità della materia. È una questione di gesti primordiali, importanti e intrisi di armata e mascherata coscienza.
Come ha affermato in un'intervista lo stesso Presicce "Compiere un gesto è tanto significativo quanto il non compierlo". E ancora: "La fissità è il punto esatto da dove parte o finisce il gesto, l’azione è fatta per chi si annoia, il movimento per chi non ha la pazienza di vedere". L'enigma di Presicce risiede nella bellezza della monumentalità che viene celebrata e ritualizzata con estrema cura nella fissità del tableau vivant. Il sapere dell'artista si denuda e si presenta davanti a noi nella complessità di storie e archetipi che si stratificano con una dignità eloquente.
Presicce performer ci conduce ogni volta in una riflessione sul significato del medium pittorico, e non solo. Enigma è, non a caso, il titolo di due oli su carta intelata di Piero Manai che ben mostrano/dimostrano una delle essenze dell'esposizione. Due corpi frammentati si ergono quasi specularmente per frammenti, e nella mancanza risiede il potere dell'evocazione e la forza del mistero.
Nelle parole di Tilman Osterwold in occasione della mostra monografica dedicata a Manai e tenutasi nel 2005 alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna "Nella gestualità e nella fisionomia degli individui tracciati dall'artista corporeità e sensibilità (percettiva) vivono nell'altalena di incertezza e autoconsapevolezza". E ancora: "I suoi colori monolitici, grigi e terrei riportano a quelli del tedesco Anselm Kiefer e la sua modalità compositiva, formalmente e tematicamente tarata sulla scultura all'italiano Enzo Cucchi; il suo nichilismo pittorico quasi monocromo all'austriaco Arnulf Rainer".
Piero Manai, oltre a interrogarsi sempre sulle logiche e sulle funzionalità della pittura ha indagato la storia dell'arte e i suoi maestri, non a caso "la sua autoconsapevolezza artistica trova un parallelo in Goya, Nolde, Brancusi o Bacon, in Géricault, Van Gogh, Schiele o Rainer, Beuys o Medardo Rosso, Cézanne". L'essere colti e consapevoli ha permesso sia a Manai che a Presicce di potere dialogare indagando la profondità dell'immagine, servendosi dei diversi mezzi artistici per riportarci lì da dove eravamo naufragati, dalla pittura, la più antica maschera artistica.
E se corpo e pittura sono due sottili echi che sembrano rincorrersi negli spazi della de’ Foscherari, nei monoliti di Manai la pittura si fa corpo autentico di una fisicità trascendentale, ha scritto sempre Osterwold "Monolitico è l'effetto della figura umana, ma anche l'immaginazione artistica di Piero Manai. La pittura, il processo pittorico, producono un effetto monolitico: la corrispondenza di colore, di forma, spazio nella struttura aperta dello sfondo, dove vibra la pienezza del vuoto". E ancora "La pittura si aggrappa alla sua forma compatta e monolitica, rinforzando, allo stesso tempo, i suoi labili contorni. Poi, quando le linee di colore sgorgano grondanti dalle pietre, pare disfarsi in una liquida melanconia".
E le pietre sono protagoniste di questo dialogo fatto di rimandi e suggestioni rimbalzanti, le pietre tornano bloccate nell'eternità di un attimo fissato per sempre nella fotografia della performance di Presicce Santo Stefano, i coriandoli, le pietre del 2015, sospese in un clima tra l'arcaico e il grottesco, nella trama fitta ma ben costruita dell'atemporalità liquida che costeggia gli interventi di Presicce.
L'enigma sussurrato da Manai viene ripreso e riflesso nelle sculture di Presicce, come un richiamo, come un appuntamento, o meglio come un accadimento dettato dal fato, Nel costato e Nel nome del padre , nelle quali la figura umana si mostra nel sacrificio del frammento, dell'incompiuto e dell'assenza, della ferita come margine dell'altrove. Nella prima la terracotta, nella seconda ottone, gesso, piume, fimo, acrilico e make up, i materiali non sono che veicoli per una sublimata stasi.
La fotografia è un'altra linea che scorge come guida al dialogo tra i due artisti, in Presicce il lavoro fotografico accompagna sempre la ricerca e lo svolgersi dell'atto performativo diventando a tutti gli effetti sia strumento di indagine che opera, in Manai è altrettanto imprescindibile l'atto fotografico, soprattutto tramite la polaroid che permette un'istantaneità, una fisicità, e un'intimità del tutto particolari. Note, infatti, sono le polaroid di Manai attraverso le quali, alla stregua di Arnulf Rainer o Egon Schiele, l'artista si è autoritratto indagando l'espressione psicofisica intervenendo poi a posteriori con gesti pittorici.
Il gesto si ritrova e si identifica come autoritratto nell'opera magna, e fondamentale per il percorso dell'artista, nelle cinquantasei opere, carboncini su carta intelaiata, Autoritratto con maschera, 1899 del 1980. Una moltitudine centrifuga di volti in nero sono stati concepiti come strumenti di indagine, come elementi monocellulari, i carboncini riconfermano l'interesse di Manai per l'analisi del linguaggio del corpo e della mimesi facciale già visibili nella serie delle polaroid.
Una mostra questa, cardiaca, al limite tra la vibrazione e la cessazione del battito, che indaga con estrema complessità e profondità l'identità della pittura, dell'opera d'arte in se stessa e della figura umana, come elementi di una costellazione ancora da monitorare, che scioglie e lega nell'enigma sia l'assenza che la cura.
Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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giovedì 12 maggio 2016
Autoritratto con maschere Piero Manai e Luigi Presicce alla Galleria de' Foscherari di Bologna
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martedì 3 febbraio 2015
Oggetti su piano @ Fondazione del Monte, Bologna
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Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
(Ungaretti)
Dal principio la mia personale definizione di piano sarebbe quella di un confine tra la profondità e la superficie, lì tra l'abisso e la pelle. Ho un'immagine instabile e sismica del piano. Un piano in perenne oscillazione come nella scena del film Il pianista sull'oceano, nel bel mezzo di una tempesta in pieno oceano, Novecento continuava a suonare il suo pianoforte su un pavimento danzante, e si spostava seguendo il movimento dell'acqua e della musica, lì sul quel piano mobile. A dispetto della fissità che paiono assumere gli oggetti sulla tela, questi provocano in noi un antico tremore. Anche Glissant nel "pensée du tremblement" ovvero il "pensiero sismico del mondo che trema in noi e attorno a noi" suggeriva il tremore non come paura o debolezza, ma come la speranza di avvicinarsi al caos. Il caos della bios.
La pittura non è morta, la natura morta non è morta. Solo dio lo è. Forse. Speculazioni religiose a parte, Oggetti su pianoè laicamente intima. Antonio Grulli, curatore di questa mostra accolta negli spazi della Fondazione del Monte, come un abile couturier ha saputo tessere una trama visiva mobile pittorica vivida e maieutica. E lo fa con quattordici opere di haute-couture firmate e partorite da Riccardo Baruzzi, Pierpaolo Campanini, Paolo Chiasera, Leonardo Cremonini, Pirro Cuniberti, Cuoghi Corsello, Flavio Favelli, Piero Manai, Giorgio Morandi, Alessandro Pessoli, Comcetto Pozzati, Sergio Romiti, Vincenzo Simone, Sissi.
Il metodo praticato dal saggio e quantomai vicino Socrate prevedeva appunto una natura dialettica, in un'indagine filosofica basata sul dialogo e quindi intriso fino al midollo di spirito critico. La pittura come critica, ed eterna portatrice dell'inesprimibile, Grulli, coraggioso quanto studioso, controvento ha saputo scegliere, quasi eleggere, in via del tutto meritocratica, una rosa purpurea di artisti, facendoli sfilare in uno spazio atemporale, in un silenzioso dibattito fra generazioni. Una scuola di pittura bolognese. Una Pittura di oggetti. Quegli stessi oggetti con i quali Duchamp fece sterzare per sempre la direzione dell'arte a venire. L'uomo si è sempre confrontato dapprima con la rappresentazione e poi con la presentazione degli oggetti della vita quotidiana.
In un saggio contenuto in Semiotiche della pittura Lucia Corrain e Paolo Fabbri riprendono un passo da All'ombra delle fanciulle in fiore di Proust, a proposito del genere still-leven, cito come segue: "Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle "nature morte". E ancora prendo in prestito un altro pensiero da Pascal che affermava: "Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali". Straordinaria pure la definizione di De Chirico con la quale definiva questo linguaggio delle cose come "segni passionali di un alfabeto metafisico".
In questa mostra differenti generazioni vengono poste sullo stesso piano, come se stessero dipingendo tutti quanti insieme nello stesso atelier, in una totale mobilità oscillatoria, in dialogo, in un tempo ucronico e circolare dalla durata bergsoniana. Concetto Pozzati ad esempio fu maestro e incontro fondamentale di numerosi artisti presenti in mostra tra cui Campanini, Monica Cuoghi, Claudio Corsello, Alessandro Pessoli, Paolo Chiasera, Sissi e Vincenzo Simone.
Figli e padri si confrontano quindi, qui, a radici di colore e pennelli. Perché di una riflessione geopolitica si tratta. Oggi dove è così difficile trovare una mostra integrale di pura pittura, oggi dove è così complicato curare e dare attenzione alla realtà locale nella quale viviamo. E' più facile pensare alla pittura come una signorona datata senza alcun sex appeal o ricercare l'artista più impronunciabile oltreoceano. Al contrario è estremamente interessante, risalire il torrente degli eventi, guardare appena oltre, proprio sotto la punta del proprio naso e respirare a pieni polmoni l'aria che tira intorno e tra di noi. Un Grulli esploratore che utilizza le opere pittoriche alla stregua di una lente di ingrandimento per setacciare le sfumature autoctone. Una collezione di pittura così lontana, così vicina, perché l'eco non è che un ritorno che differisce dall'origine, nello spazio del tempo. E lo spazio di questa esposizione sono i piani. Molteplici. La mostra è una continua schiusa dentro una chiusa, alla stregua di una scatola cinese, si trova una cura dentro una cura. La mostra si prende cura della pittura, la pittura si prende cura del mondo. Una cura attenta, una cura critica.
Il piano pittorico altro non è che un non-confine, labile, concettuale, violabile, ambiguo, prezioso e intenso, drammatico, gli oggetti attori senza fissa dimora nel tempo del colore. Il piano curatoriale, altro non è che un limite fisico dato dallo spazio del luogo, su cui poggiano come orizzonti indomabili, le opere degli artisti. Quindi similitudini e rimandi. Siamo risospinti in una meta riflessione continua. Notevole il display curato dall'artista Flavio Favelli, uno splendido fil rouge, sul quale le opere si dipanano senza orpelli cronologici. E' così che in una fioritura corporale, rosso sangue, si ritrova a dialogare face to face Morandi con Flavelli. Gli oggetti morandiani, avvolti nel loro manto polveroso di vita si riflettono nelle due bottiglie bolognesi, in una speculazione temporale, la vecchia Romagna si è riversata in un sguardo alcolico, accolto dal fluire rosso á plat dello stesso artista. La pittura si appoggia, si aggrappa, si affida alla pittura stessa, il sapore, liquore e languore bolognese si lascia andare a vaghezze orientali. Un rapporto sismico tra zolle di pittura.
E' così che all'angolo della sala uno straordinario scorcio italiano anni '90, una fotografia dipinta ad olio su cartoncino di Cuoghi e Corsello affianca e chiacchiera con due straordinari compagni, tra la scomposizione scogliosa di Romiti e la metafisica liquida di Campanini. Nell'ultima sala, il Sergente che non può calpestare le margherite di Cuniberti scivola straordinario tra i piani sensuali e organici, linguali, capillari, dell'Indice Madre di Sissi e la shakespeariana buia pittura di Cremonini, con Un cranio di montone. Tra dettagli anatomici e vanitas sintetiche e solitarie.
Lo slittamento dell'essere pittura si fa sempre più danzante tra l'esistenziale Testa di Manai, dalla quale emergono come naufraghe impastate di bianco parole di giornali, e la sinestetica stop motion di Pessoli, dove un energico e solitamente irriverente Petrolini ci accompagna tra i pastelli, l'acrilico e il suono. La nota solitaria e stridente per la sopraffine fitta eleganza desertica è l'altra opera di Cuoghi e Corsello, Bambini morti nel giardino dei bucintori. Pitture polifoniche si adagiano sullo stesso piano, quello che ne fuoriesce non è un baccano ma un rispettoso soppesarsi di sguardi che si sono depositati in eterni gesti trattenuti dalla tela.
Da questa fragile malinconia fotografica ad olio riporto l'attenzione a ritroso nella sala precedente per cogliere i piani dall'equilibrio sintetico, e senza peso di Baruzzi, Sinistra Destra verso l'alto che ben dialogano a bassa voce con le Choreography of Species: Rosa Tannenzapfen di Paolo Chiasera, che pone sui propri piani atmosferici e oltrefisici, nature opulescenti come muliebri fantasmagorici perni. Statuette della fertilità arcaiche che riflettono con ombre scure il loro incidere sullo spazio tempo che altro non è che un cielo capovolto. La coreografia contenuta nel titolo fa pensare alla mostra stessa come una danza su piano. Oggetti su piano è un movimento che scivola piano.
Ma esplode pastosa e corporea questa pittura nelle Collezioni di fiori di Vincenzo Simone, una turbolenta espressiva gettata di colore in tempesta, dove la natura non lascia alla cultura che un fiorente sanguinoso distacco. Atemporale mi muovo al principio della prima sala. Il corpo della mostra può essere percorso facendo avanti e indietro tra le stanze, balzando da parete a parete proprio per la flessibilità di confronto che la metodologia espositiva offre, il corpo dell'esposizione come quello di un amante da esplorare da cima a fondo con estrema pazienza, curiosità e sensibilità sismografica. Rileviamo tutte le oscillazioni di colore.
Cinque le opere di Chiasera che per questa volta indaga interni di ambienti da diversi punti di vista o svista, qualdirsivoglia, libri, una scultura del grande cardinale di Manzú, altre opere d'arte, i piani si succedono a diversi tempi, negli stessi luoghi, che divengono altri. Chiasera dipinge mostre che accadranno, potrebbero accadere al di là della tela e del colore. Al di là della superficie. La curatela come pittura al di là del piano. E poi chiude a ritroso e accoglie all'arrivo, Sottochiave di Pozzati, su piccolo formato, si mescolano pirografia, acrilico e smalto, ecco che abbiamo trovato, forse, la chiave di volta di tutto, di questa scatola orientale, amante di una pittura tra padri e figli, che si fa scambio e critica delle proprie radici.
Sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po' folle, un po' saggio
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio,
la paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: " io ho sempre tentato."
(Guccini)
Federica Fiumelli
mercoledì 5 novembre 2014
Le leggi dell'ospitalità
link: http://wsimag.com/it/arte/11900-le-leggi-dellospitalita
La questione del "fuori"
Pierre Klossowsky ci ha reso eredi di importati insegnamenti culturologici. Inevitabile non ricordare uno dei più importanti anelli filosofici del maître à penser, e cioè il passaggio dallo speculativo allo speculare ovvero la tipica falsificazione che si cela alla base della riproduzione delle immagini nella cultura occidentale. Nel mondo contemporaneo il simulacro sostituisce il principio di realtà, l'individuo non incontra mai un'esperienza autentica, ma riproduzioni di una realtà assente. Vi sono tante copie senza un originale.
Simulacro inteso quindi come trasposizione ed elemento fantasmagorico. Ed è proprio oggetto di simulacro il corpo di Roberta, protestante, atea, attivista radical-socialista e moglie di Ottavio, prete fallito, teologo vizioso, specialista in perversioni, personaggi protagonisti del romanzo triologia klossowskiano, Le leggi dell'ospitalità. Ottavio tenta di gettare ogni uomo che entra in casa tra le braccia della moglie, moltiplicando così per lei le occasioni di "peccato" in maniera di farle riconoscere la legge divina, sfidando il suo pudore e portandola al cedere. Offrendo il corpo della moglie ecco le leggi dell'ospitalità.
Un'ospitalità perversa quella di Klossowsky, che tira in ballo altre speculazioni filosofiche, da Benveniste a Derrida. Se per il primo la pratica dell'ospitalità rientra in parametri economici del dare e avere, è hostis colui che a un dono fa seguire un contro-dono. L'hostis per gli antichi romani non era uno straniero perché gli venivano riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini. Derrida invece rifiuta questa parità reciproca ritenendo che affrontare il tema dell'ospitalità significhi porre una "questione del fuori". In quel fuori assoluto vi è una presenza giuridicamente innominabile. Non ci sono nomi e cognomi, tale ospitalità è assoluta e rompe con l'ospitalità di diritto. Riferendosi a Klossowski, Derrida nota che lo straniero diviene un liberatore, il padrone di casa ostaggio della propria soggettività, solo tramite una presenza estranea può porsi in una condizione di ospite. Il corpo di Roberta viene donato agli ospiti per essere meglio posseduta dal marito, il quale si logora per possederne appunto l'interezza. Gli oltraggi subiti alimentano sdoppiamenti e rovesciamenti, simulacri di una natura che si nasconde. Ottavio incita la sposa a commettere adulterio perché vuole scoprire le vere identità della sposa, pensando di conoscerne solo un'identità apparente, le pluralità di nature si manifestano solo tramite il contatto con lo straniero.
Le leggi dell'ospitalità è il titolo della mostra che ha luogo alla galleria bolognese P420 fino al 15 novembre a cura di Antonio Grulli. Il titolo della mostra ben eredita tutta la complessità che di fatto appartiene alle opere esposte. Sei artisti, una collettiva che giovani e mid career legati per nascita o formazione alla città di Bologna. Una scelta quindi che diventa cerniera e dialogo fra varie generazioni. Eva Marisaldi (1966) e Italo Zuffi (1969) fanno parte delle generazione degli artisti emersi negli anni Novanta, una scena così influente da far parlare Obrist di "miracolo Bologna". La mostra quindi tiene conto di un certo background artistico culturale bolognese che ha visto intellettuali importanti come Daolio, Pozzati, Gianuizzi e l'Alinovi; proprio il pensiero di Francesca, basato sugli studi dell'avanguardia dada, surrealista e situazionista, saranno fondamentali per tutta l'arte e la cultura realizzata a Bologna. Ma anche alcuni luoghi furono determinanti, come la Galleria Neon, l'Accademia, e negli anni novanta il Link, poi lo spazio Raum e l'associazione Xing, all'interno del quale si sono esibiti Riccardo Baruzzi (1976) e Cristian Chironi (1974). La mostra include infine due giovani artiste legate ancora al mondo accademico, come Costanza Candeloro (1990) e Giulia Cenci (1988).
L'esposizione si apre proprio con Alice's Adventures Undreground, del 2014, una serie di nove disegni a matita su carta della Candeloro. Dopo aver studiato all'Accademia di Belle Arti di Bologna sta terminando i suoi studi presso l'Head di Ginevra. Acuta osservatrice dell'immaginario, lo puntella di lucide e interessanti riflessioni. Il lavoro dell'artista si concentra sulla frammentazione e destrutturazione delle forme narrative, dei libri, dei sistemi educativi. Alice's Adventures underground era il titolo originale del manoscritto di Alice's Adventures in Wonderland. Alice da tramite per un fuori, Alice come frammento, come passaggio e come variazione. Poiché le cose in realtà non sono mai come si presentano. Come non ricordare l'esperienza radiofonica di Radio Alice nata sul finire degli anni Settanta. Un fuori che si concretizzò on air. Decisamente poco elementare tra le righe di una pagina di quaderno riecheggia "cattiva maestra televisione". Se l'artista mantiene un segno leggero a matita, sicuramente la forza contenutistica ne fa da contrappunto e rende estremamente speciale e pungente il lavoro della Candeloro. Un contrappeso di elementi espressivi, tra forma e contenuto.
Sempre nella prima sala troviamo anche un lavoro introduttivo ad altri pezzi che troviamo esposti nella seconda sala, un acquerello e succo di mirtillo di Riccardo Baruzzi. Ordine 1, 2, 3 e 4 infatti sono delicati segni e tracce, leggiadri matita e pennarello e gouache su calicot e acrilico su carta. Toccate e fuga nell'istante di una memoria. Lavori a più piani e strati di visione. Le tracce di figure o oggetti si perdono tra semitrasperenze, una prospettiva illusoria e velata. Lo spazio di fondo, sempre che un fondo ci sia, è un salto nel vuoto. E i segni da questo vuoto emergono sul filo, a galla, dal profondo della superficie. Una pittura destrutturata, smontata e scomposta, come una frattura o un gioco di un bambino. C'è in Baruzzi un'analisi delicata ed elegante dell'immagine, quasi evanescente. Nella stessa sala, Eva Marisaldi con Livingrooms, sceglie di esporre un telo dipinto a spray con l'immagine di una sedia da studio psicanalitico, un grande bicchiere, delle statuette, delle piantine in plastica, uno specchio e una foto in cornice. Tutto sospeso in un'atmosfera perturbante. Ci sentiamo come Alice sospesa tra frammenti in procinto di attraversare lo specchio. Folle.
Accanto al lavoro della Marisaldi, Chironi con Broken English: step 3 Connections or set, del 2013. Differenti tappeti poggiati al muro in moto ascensionale, differenti tessuti, saranno distesi uno sopra l'altro invece quelli nell'ultima sala. Il primo tappeto "recita" la scritta Welcome. Broken English: step 3 fa parte di una mostra tenuta al museo MAN, una rizomatica performance in più step. Il termine indica le varianti incerte della lingua inglese, terminologie perlopiú coniate da soggetti non di madrelingua. E' più forte una società che possiede una sola o più lingue? Da questa riflessione è scaturita la mostra Broken English, dove elementi del linguaggio diventano immagini, oggetti, suoni e cose. L'idea portante è sicuramente che non nella purezza bensì nell'intreccio, che sia di lingue, tecniche, mestieri o usanze, si cela la vita. La vera vita. Commistione e contaminazione le "c" di Chironi.
L'ultima sala accoglie altri due lavori della Marisaldi, il video Steadygirl del 1996 ci accoglie con suoni zen, girato all'interno di Palazzo Albergati a Zola Predosa, l'artista visita e penetra il luogo con il proprio corpo-occhio divenuto videocamera. Tra il mistico e il surreale ancora per una volta ci sentiamo Alice. Lo sguardo si perde così tra scalinate, affreschi, sedie, un non-luogo autentico. Fantasmagorico e simulacro mimetico. Coverage del 2014 sono invece progetti per tappeti, stampe su alluminio di immagini prelevate da Google Earth; la Marisaldi dunque adotta una trasposizione flat per tutti quei profili di luoghi. Operazione inversa e opposta invece fa Italo Zuffi con Profilato Villa, se quello che ci appare dinanzi può sembrarci un oggetto di design, non ci fermiamo allo specchio ma lo attraversiamo e troviamo così un rovescio dell'ordinario. Profilato villa non è che la resa tridimensionale di una pianta di un edificio palladiano. Un perfetto estraneamento Carrolliano.
In risposta ai suoni zen di Steadygirl ecco provenire da sette baccelli in ceramica dei fischi. Gli ignari di Zuffi non sanno o meglio non vogliono fischiare in maniera corretta. Straniamento e perturbamento. C'è sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che fugge alla percezione, alla possessione di una totalità, proprio come ci ricordava Klossowsky. "Chiudono" questa visita ermetica e complessa che richiede sicuramente tempo e attenzione, i lavori della giovane Giulia Cenci che ha il merito di aver creato negli ultimi anni uno dei progetti più stimolanti (attualmente in giro) insieme ad altri colleghi dell'Accademia "Interno 4" in cui vengono coinvolti artisti italiani e stranieri nella realizzazione di mostre all'interno della loro abitazione, ma non solo. Un progetto sicuramente in linea con la filosofia del'"ospitalità".
La ricerca della Cenci è prevalentemente scultorea, difatti nei due lavori esposti utilizza materiale che richiede di essere lavorato e maneggiato come poliestere, polvere di marmo e argilla, plastica. In Almost Invisible una sagoma di sedia, che fa da eco anche se in maniera totalmente differente a quella della Marisaldi, è poggiata al muro anch'esso bianco. Un'assenza presente. So untouchable. La Cenci sceglie due interventi estremamente ruvidi, vibranti e leggeri, dei bianchi ombrati dall'invisibilità indivisibile dell'essere. Bombardati come d'uso dalle vorticose e fameliche successioni di immagini senza respiro Le leggi dell'ospitalità ci rende ospiti di un tempo che da troppo tempo non ci concediamo.
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