Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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giovedì 12 maggio 2016

Autoritratto con maschere Piero Manai e Luigi Presicce alla Galleria de' Foscherari di Bologna

http://wsimag.com/it/arte/20229-autoritratto-con-maschere



12 MAG 2016 di FEDERICA FIUMELLI

Tutto ciò che è profondo ama mascherarsi; le cose più profonde odiano l'immagine e la similitudine (Nietzsche)

Maschera come vuole l'etimologia della parola sta a significare persona. La maschera, nella mostra curata da Antonio Grulli alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, diventa luogo autentico di incontro tra tre persone di differenti generazioni.

Il celebre Autoritratto con maschere, 1899, del pittore belga James Ensor diviene l'innesco e il pretesto per un dialogo enigmatico tra Piero Manai e Luigi Presicce, entrambi gli artisti hanno infatti preso come punto di partenza la suddetta opera per alcuni lavori. Si crea così una voce triangolare che trova nell'assimetria geografica e temporale una corrispondenza colta, trasversale, e puntuale, rituale e preziosa.

L'esposizione può essere letta come una riflessione sul corpo, sulla trascendenza, la mancanza e l'enigma imprescindibile che risiede come edera nel profondo substrato dell'esistenza. Lo sguardo pittorico di Presicce e la pittura scultorea di Manai si infrangono l'uno nell'altra in una complessità stratificata che richiama l'essenza e l'arcaicità della materia. È una questione di gesti primordiali, importanti e intrisi di armata e mascherata coscienza.

Come ha affermato in un'intervista lo stesso Presicce "Compiere un gesto è tanto significativo quanto il non compierlo". E ancora: "La fissità è il punto esatto da dove parte o finisce il gesto, l’azione è fatta per chi si annoia, il movimento per chi non ha la pazienza di vedere". L'enigma di Presicce risiede nella bellezza della monumentalità che viene celebrata e ritualizzata con estrema cura nella fissità del tableau vivant. Il sapere dell'artista si denuda e si presenta davanti a noi nella complessità di storie e archetipi che si stratificano con una dignità eloquente.

Presicce performer ci conduce ogni volta in una riflessione sul significato del medium pittorico, e non solo. Enigma è, non a caso, il titolo di due oli su carta intelata di Piero Manai che ben mostrano/dimostrano una delle essenze dell'esposizione. Due corpi frammentati si ergono quasi specularmente per frammenti, e nella mancanza risiede il potere dell'evocazione e la forza del mistero.

Nelle parole di Tilman Osterwold in occasione della mostra monografica dedicata a Manai e tenutasi nel 2005 alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna "Nella gestualità e nella fisionomia degli individui tracciati dall'artista corporeità e sensibilità (percettiva) vivono nell'altalena di incertezza e autoconsapevolezza". E ancora: "I suoi colori monolitici, grigi e terrei riportano a quelli del tedesco Anselm Kiefer e la sua modalità compositiva, formalmente e tematicamente tarata sulla scultura all'italiano Enzo Cucchi; il suo nichilismo pittorico quasi monocromo all'austriaco Arnulf Rainer".

Piero Manai, oltre a interrogarsi sempre sulle logiche e sulle funzionalità della pittura ha indagato la storia dell'arte e i suoi maestri, non a caso "la sua autoconsapevolezza artistica trova un parallelo in Goya, Nolde, Brancusi o Bacon, in Géricault, Van Gogh, Schiele o Rainer, Beuys o Medardo Rosso, Cézanne". L'essere colti e consapevoli ha permesso sia a Manai che a Presicce di potere dialogare indagando la profondità dell'immagine, servendosi dei diversi mezzi artistici per riportarci lì da dove eravamo naufragati, dalla pittura, la più antica maschera artistica.

E se corpo e pittura sono due sottili echi che sembrano rincorrersi negli spazi della de’ Foscherari, nei monoliti di Manai la pittura si fa corpo autentico di una fisicità trascendentale, ha scritto sempre Osterwold "Monolitico è l'effetto della figura umana, ma anche l'immaginazione artistica di Piero Manai. La pittura, il processo pittorico, producono un effetto monolitico: la corrispondenza di colore, di forma, spazio nella struttura aperta dello sfondo, dove vibra la pienezza del vuoto". E ancora "La pittura si aggrappa alla sua forma compatta e monolitica, rinforzando, allo stesso tempo, i suoi labili contorni. Poi, quando le linee di colore sgorgano grondanti dalle pietre, pare disfarsi in una liquida melanconia".

E le pietre sono protagoniste di questo dialogo fatto di rimandi e suggestioni rimbalzanti, le pietre tornano bloccate nell'eternità di un attimo fissato per sempre nella fotografia della performance di Presicce Santo Stefano, i coriandoli, le pietre del 2015, sospese in un clima tra l'arcaico e il grottesco, nella trama fitta ma ben costruita dell'atemporalità liquida che costeggia gli interventi di Presicce.

L'enigma sussurrato da Manai viene ripreso e riflesso nelle sculture di Presicce, come un richiamo, come un appuntamento, o meglio come un accadimento dettato dal fato, Nel costato e Nel nome del padre , nelle quali la figura umana si mostra nel sacrificio del frammento, dell'incompiuto e dell'assenza, della ferita come margine dell'altrove. Nella prima la terracotta, nella seconda ottone, gesso, piume, fimo, acrilico e make up, i materiali non sono che veicoli per una sublimata stasi.

La fotografia è un'altra linea che scorge come guida al dialogo tra i due artisti, in Presicce il lavoro fotografico accompagna sempre la ricerca e lo svolgersi dell'atto performativo diventando a tutti gli effetti sia strumento di indagine che opera, in Manai è altrettanto imprescindibile l'atto fotografico, soprattutto tramite la polaroid che permette un'istantaneità, una fisicità, e un'intimità del tutto particolari. Note, infatti, sono le polaroid di Manai attraverso le quali, alla stregua di Arnulf Rainer o Egon Schiele, l'artista si è autoritratto indagando l'espressione psicofisica intervenendo poi a posteriori con gesti pittorici.

Il gesto si ritrova e si identifica come autoritratto nell'opera magna, e fondamentale per il percorso dell'artista, nelle cinquantasei opere, carboncini su carta intelaiata, Autoritratto con maschera, 1899 del 1980. Una moltitudine centrifuga di volti in nero sono stati concepiti come strumenti di indagine, come elementi monocellulari, i carboncini riconfermano l'interesse di Manai per l'analisi del linguaggio del corpo e della mimesi facciale già visibili nella serie delle polaroid.

Una mostra questa, cardiaca, al limite tra la vibrazione e la cessazione del battito, che indaga con estrema complessità e profondità l'identità della pittura, dell'opera d'arte in se stessa e della figura umana, come elementi di una costellazione ancora da monitorare, che scioglie e lega nell'enigma sia l'assenza che la cura.












sabato 23 aprile 2016

Francesco Candeloro. Altri passaggi

link: http://wsimag.com/it/arte/20005-francesco-candeloro





"La città consente di vedere senza essere visti e di essere visti senza vedere."
(Serge Daney)

Immaginate un'alba oppure un tramonto, la luce che ne deriva e che si insinua e si riposa tra le pieghe delle architetture di una città che ha l'eleganza di un'anziana signora e l'ansia e la trepidazione di una giovane studentessa. Nell'essenzialità lineare di plexiglass eletta dall'artista Francesco Candeloro, la città di Bologna viene riportata nelle opere esposte alla galleria Studio G7 nel cuore del centro storico del capoluogo emiliano.
La mostra Altri passaggi racconta come lo skyline del paesaggio urbano può essere ripreso e suggerito in maniera decisa, astratta e colorata, e riporta lavori appartenenti alla ricerca più recente di Candeloro. L'artista, veneziano di nascita e di formazione, utilizza per la maggior parte plexiglass neutro o colorato al quale a volte associa carta variamente trattata. Se la luce naturale va a infrangersi tra le architetture urbane, nei lavori dell'artista la luce viene accolta nell'opera stessa, i fogli di plexiglass si sovrappongono allo sguardo restituendoci la complessità stratificata intrinseca della visione.
I profili di Bologna, dalla Basilica di San Petronio ai merli di palazzo dei Notai, una torre, gli elementi lineari si sovrappongono e si intersecano confondendosi nelle trasparenze shocking. Ma non solo Bologna, nei ricordi dei viaggi, anche Amburgo e Napoli, i profili si alternano nell'astrazione dai contorni di una mappatura espansa. All'antica e imponente bellezza dei dettagli architettonici si confonde la fluidità eccentrica delle trasparenze fluo in una dicotomia che fa da ponte per visioni ancora da incontrare.
Esiste qualcosa di più intimo di un profilo? Un'intimità che assume le vesti di un confine così sensibile e originario che dai profili aguzzi resi dall'artista derivano frequenze di una matrice personale e profonda. Ritmi incandescenti rubati dalla memoria di una città, che si sdoppia, e nella specularità si annida l'affascinante ambiguità. Il colore e la geometria sono due elementi che coincidono in questa simultaneità urbana, dove gli sguardi (nostri) e dei personaggi fotografati e riportati tramite aerografo o stampa UV nelle opere cubiche si incontrano in una pluridimensione costituita da luoghi che non sono che linee, come passaggi per altre visioni.
"La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole".
(Italo Calvino)

Federica Fiumelli










domenica 1 novembre 2015

Raccontare un luogo - (Tales of a Place)




Raccontare Raccontare un luogo - (Tales of a Place) diviene una sorta di metaviaggio all'interno del narrare un luogo, in un luogo come la Galleria Astuni di Bologna. Curata da Lorenzo Bruni, l'esposizione è stata inaugurata agli inizi dell'estate passata e concluderà il proprio viaggio il 7 novembre. Vi è ancora dunque tempo, per chi non ci fosse ancora passato, per vedere le numerose opere in dialogo tra loro e ideate apposta per l'occasione, degli otto artisti internazionali scelti.

I lavori sono veri e propri dispositivi pronti a innescare una serie di match di riflessione sul processo conflittuale/dialogico che la società ha da sempre affidato alla relazione tra la parola e l'immagine, tra la didascalia e la rappresentazione a cui è associata, tra la cosa e la sua funzione, tra dimensione pubblica e privata. L'approccio alla fruizione è decisamente sismico, negli spazi della galleria le opere non fanno che far transitare il visitatore tra luoghi fisici e immaginati. Tra realtà e finzione.

Oggi la tecnologia ci permette di essere in più "luoghi" contemporaneamente, la velocità non permette una sosta di riflessione concreta. Il virtuale avanza impetuoso. Si è solo di passaggio in maniera superficiale, e non si appartiene mai a nulla in maniera vera e profonda, anche per pochi istanti. La mostra mira quindi a evocare l'esperienza e l'esplorazione di un luogo, piuttosto che limitarsi a nominarlo o presentarlo con delle immagini in tempo reale. È necessario esperire il luogo da cui osserviamo il mondo, andando oltre ogni banale connessione. Qui non si tratta di mete, ma di processi, di meccanismi, le opere-dispositivo devono innescare e generare veri e propri atti di scoperta.

I disegni proposti dall'artista bulgaro Nedko Solakov mi sembrano ottimi ambasciatori del senso più intimo della mostra. In Roads non vi è certezza sulla provenienza o sull'arrivo, quello che viene messo in risalto è il momento della scelta: dove andare. Perché ci si trova lì. Ecco cosa può raccontarci un luogo. È così che i 12 disegni seppia, in bianco e nero, si stagliano leggiadri tra curve di strade immaginate, e le figure si fanno esili e umili, desiderose di andare. E ancora andare. Oltre luogo, oltre tempo. Anche le parole sono luoghi e case, disabitate, affollate, abbandonate, distrutte, ristrutturate. Ma anche abusate e abusive. Come nel caso di Degrado 4U dello storico duo Cuoghi Corsello, che per questa esposizione propone un numero cospicuo di opere, come Piatti con paesaggi, Suf! Azzurrina, 6 Giugno, Cartina torna sole,La zampa di Pea Brain. Un degrado soffice, evanescente, argentato, che accoglie ironicamente e sdrammatizza lo sfruttamento assiduo che ne fanno giornalisti e politici. Cuoghi e Corsello sanno bene cosa significhi esplorare un luogo, marcarlo, farlo proprio nell'esperienza. La zampa di Pea Brain che avvolge l'esterno della galleria riporta alla memoria lo storico personaggio, le oche sui muri della stazione di Bologna. Le tag, la fine degli anni'80', i compagni writer del periodo. Una nostalgia romantica che si riscatta con la triplice fratellanza di memoria/spazio/tempo.

Lo statunitense Mel Bochner, classe 1940, lavora sul confine di ciò che viene definito reale e cosa invece è prodotto artistico. In Measurement plant delle piante da appartamento, quindi soggetti importati e decontestualizzati per eccellenza, sono messe di fronte a una griglia, la loro crescita potrà essere monitorata e misurata. Ciò ci riporta al gesto del mettere un tacca sull'altezza di una persona, ma rimanda anche alle griglie utilizzate in pittura per la copia dal vero e la rappresentazione mimetica. Il luogo di riferimento dell'osservatore sarà quindi quello della rappresentazione e dell'arte oppure quello della natura e dell'oggetto reale?

Una riflessione su ruolo e genesi dell'atto creativo la pone Mario Airò. In L'amour fou a sostegno della tesi duchampiana circa l'illegittimità del sistema della rappresentazione, la "macchina celibe" composta dalle pagine di alcuni libri (Bambini nel tempo di Philippe Besson; Cinecittà di Tommaso Pincio; Ogni cosa è illuminata di Jonathan Sofran Faer e i Romanzi erotici del ‘700 francese) rotea vorticosamente verso lo spettatore andando a costituire un nuovo frammento di narrazione. Le pagine si susseguono in un movimento cicloide, dove le parole sfuggono al senso del tempo, in una costante ciclicità dalle tinte anche ironiche. Una plurinarrazione fuori controllo.

Altro lavoro molto interessante di Airò è Ierofania. Un raggio verticale di luce di wood solidificata fa da perno al testo When tre sacred manifests itself, ed è proprio all'arte come manifestazione che l'artista si rivolge. Ogni oggetto pur rimanendo se stesso diventa sempre qualcosa di altro. Questo il paradosso della manifestazione del sacro. La sospensione, l'attesa e l'aura di mistero si infittiscono a mezz'aria, a fiato corto, dipanando ogni laicità residua.

Antonis Pittas arricchisce la mostra con due opere, Aggregate demand, aggregate supply; Marginal costs; Labour costs tepid e We shall do as We have decided. Nella prima, l'artista greco guarda a un artista del Bauhaus, l'austriaco Herbert Bayer, il quale era solito utilizzare per le strutture espositive "narrative" un sistema a tre colori di forte impatto sull'esperienza del visitatore. Le tre sculture in ottone e acciaio rappresentano invece, ognuna, una linea differente del diagramma di andamento finanziario. L'artista rende così fisso e immutabile un movimento destinato a subire costanti oscillazioni e variazioni. We shall do as we have decided rimane una delle opere che ho preferito. Un'opera frammento che si espande nello spazio espositivo integrandosi perfettamente con il resto. Con delicata forza esplosiva. L'artista indaga il recente uso di gas lacrimogeni da parte di squadre di polizia in città come Istanbul e il Cairo. A seguito di scontri tra manifestanti e polizia, grandi quantità di lacrimogeni vuoti di diverse forme e dimensioni - oltre a pietre, legno e bottiglie d'acqua vuote - vengono lasciate sulla strada, creando un'atmosfera molto distinta, che mostra la "quiete dopo la tempesta". Pittas traduce le forme di questi resti in oggetti scultorei in marmo greco, combinandole con frammenti di testo provenienti da quotidiani e riscritti con la grafite. Da sottolineare anche che il marmo è stato estratto dalla stessa cava dei marmi utilizzati per il Partenone (suggerendo così collegamenti tra il passato e l'oggi), inoltre questi oggetti possono essere presi e riarrangiati dagli spettatori, che si trasformano così in partecipanti attivi. Foreign powers. Gli amabili resti di una civiltà si posano con "disordine pulito" tra il caos e l'odierno bombardamento dell'informazione e un armonioso e composto classicismo.

Christian Jankowsky con il video Tableau Vivant TV del 2010 lavora sul rapporto tra dimensione pubblica e privata. In quest'opera infatti, realizzata per la Biennale di Sidney, vari spezzoni di format televisivi si susseguono, famosi conduttori parlano del lavoro preparatorio intorno all'esposizione. Si conclude poi con la visione della diretta dell'inaugurazione. Si porta così all'estremo la tesi di McLuhan Il medium è il messaggio. Disvelamento. L'artista rende praticabili i luoghi nascosti e privati. E se il mondo frenetico si muove all'infinito senza sosta, da contrasto la figura dell'artista resta immobile proprio come in un Tableau Vivant.

La californiana Suzanne Lacy indaga invece i luoghi di margine, quasi outsider e poco illuminati, quasi dimenticati volutamente e marginalizzati. Secondo l'artista il luogo non può mai essere separato dalle convenzioni sociali e di genere. La Lacy è stata importante esponente di una nuova modalità di performance femminista. In Prostitution notes ha indagato sul tema della prostituzione, ha trovato le prostitute chiedendo ad amici e conoscenti, lasciandosi condurre in un altro mondo, agli angoli delle strade, in ristoranti o bar di Los Angeles.

Wherever you are wherever you go, parlando di angoli, lì dove sembra finire una delle stanze della galleria, ecco che per altezza verticale si staglia l'installazione neon blu di Maurizio Nannucci. Quella dell'artista non vuole essere soltanto una riflessione propria sul linguaggio, sulla nominazione delle cose e sulla tautologia. Si viene a creare una relazione tra lo spazio fisico e l'immaginazione di chi guarda. Lo sguardo si posa. E la mente viaggia, nel passato, in quello che sarà. Non importa. Come sottolinea il curatore Lorenzo Bruni: "Vi è la possibilità di essere un migrante giornaliero - sia a livello fisico che virtuale".

Il moto ascensionale di Nannucci ci accompagna in un altrove, verso un'altra opera di Solakov con la quale mi piacerebbe concludere. On the wing nasce come lavoro site specific per una compagnia di aeroplani in cui l’artista ha scritto testi sulle ali di 6 Boeing 737 – non luoghi per eccellenza – con l’obiettivo di tranquillizzare i passeggeri. Attraverso questa serie di 12 fotografie Solakov continua a far vivere il lavoro, trasformandolo in un racconto dedicato alla passione del viaggiare. Talvolta anche senza meta. Le parole migrano. Come noi. Vagando per luoghi che non solo attraversano ma esplorano. Luogo dunque come conoscenza e sapere, del sé e dell'altro. Luogo come lente di ingrandimento interna ed esterna. Un luogo che ama essere raccontato senza certezze o finali.

Michel Serres scriveva: "Mi piace che il sapere faccia vivere, che sia capace di coltivare; mi piace farne carne e casa; mi piace che aiuti a bere e a mangiare, a camminare lentamente, ad amare, a morire, talvolta a rinascere; mi piace dormire tra le sue lenzuola, mi piace che non sia esterno a me".

Federica Fiumelli












giovedì 4 luglio 2013

ALIENS -Tappa Bologna @ Spazio San Giorgio

Ed ecco il testo pubblicato su Frattura Scomposta

(www.fratturascomposta.it)

Enjoy!
:)

RECENSIONE: ALIENS-BOLOGNA



“Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera.”
Ermeticamente poetando, Salvatore Quasimodo aveva racchiuso in poche parole il senso di solitudine estrema che ci appartiene. Che oggi più che mai nell’era dell’ultra comunicazione sembra appartenerci. Non ce ne accorgiamo ma siamo tutti a modo proprio degli outsider.
Chi più degli artisti, può fornirci in maniera pratica e concisa, attraverso le immagini, l’aspetto alienante del contemporaneo?
ALIENS è un progetto artistico curatoriale che propone collettive di artisti contemporanei per lo più italiani, la tappa di Bologna, dall’11 al 25 maggio scorso, alla Galleria Spazio San Giorgio ha visto esporre ben tredici nomi.
Una squadra made in italy che ha prodotto differenti visioni sul tema dell’alienazione.
Grazie alla collaborazione con la galleria ho avuto modo di osservare la mostra più volte, tra queste in maniera silenziosa e solitaria, esercitando lo sguardo sulle opere in molteplici momenti.
Alessio Bolognesi con il suo alter ego total white Sfiggy, con il terrore del romanticismo a buon mercato, vieta la pace al perbenismo assuefante e stucchevole, avendone per tutti, è il proclamatore dell’amata ultraviolenza (per dirla all’Alex di Arancia Meccanica), punta la pistola all’omino anonimo verde di poca speranza di Haring, la cacchina emessa è solo un eco alla Manzoni.
Le foto di Andrea Valsecchi, tra il cyber e il metafisico,  propongono presenze fuori fuoco in un mondo digitalizzato, tutto passa niente resta, le figure evanescenti si concretizzano solo nell’attimo del fotografico. Il tempo non basta, è fermo, ed ecco un cartello indica che Facebook è di là, la condivisione, la social obsession detta la strada, luogo immateriale dove ormai tutti passano il tempo che non resta.
Elegante, sottile, in punta di piedi, il rouge di Angela Viola, inchiostri su cartoncini aventi come protagonista una sconosciuta dalle sembianze femminili, dalle nudità in bianco e nere, la sagoma sembra vivere di profili e fili rossi, gomitoli organici si dispiegano nel bianco, per avvolgere e intrappolare di un rosso vitale, come sangue ipersottile il corpo esanime.
Iperrealismo, da nanetti ipertrofici S(botero) con simboli di denari e sette belli in paesaggi dai cieli lividi e alberi riccioluti, magri e ondulati, per una tela di due metri di lunghezza, l’opera di Domenico Dell’Osso, una scena solitaria, di un piccolo uomo rotondo che ci da le spalle, a metà tra l’industralizzazione e la natura, poi Dio fece carte a lungo, carte a denari, sette bello e la settanta. Come andrà a finire? Forse nessuno lo sa e lo saprà.
War Child, Gabriele Talarico si ispira al negativo fotografico per fornire splendidi acrilici su tela, autentici dipinti, un focus on, un ritratto di bambino, una realtà che il mondo degli adulti non risparmia, nessun bambino dovrebbe accedere a quello scempio che viene chiamato guerra. Il bambino sovrappone il suo sguardo, i suoi contorni, i suoi limiti, le sue sensazione che si tingono di verde, giallo, rosso, si sovrappongono, lasciandoci uno scanner di malinconia e riflessione.
Lasciate a casa Geppetto, ormai ha fatto storia e Giacomo Rossi ne avrebbe anche per lui. Le sculture di Rossi riemergono dalla loro ferite, dalle loro ceneri come delle fenici, presentano le loro mostruosità, le loro manone, il loro dentoni, non vogliono ammiccare ad essere sexy, non hanno un bel portamento e sembrano anche un po’ ingobbiti, ma tranquilli niente notre-dame, qui niente campane da suonare, solo tanta ironia e un’altra vita regalata dall’artista al legno.
Un’altra tela enorme, anche qui quasi due metri di lunghezza, una tecnica particolare, pittura ad encausto su base fotografica, Uscita Forzata: mela alt esc di Gianluca Chiodi, gioca in un mix di contemporaneo e biblico, fornendoci un Adamo ed Eva, straordinariamente targati d’oggi, un Adamo tronista, tatuato, trash, kitsch, tamarro inside, un Eva più finta del finto, una Paris Hilton, forse troppo coperta con la sola foglia. Dio li fa poi li accoppia, Dio forse non era astemio, e quel giorno della creazione al suo controllo sfuggirono un bel po’ di cosette. Ma questa è un’altra faccenda. L’unica cosa è che il Dio del nuovo Millennio ha fatto storia sotto il nome di Steve Jobs, la mela del peccato, è diventata la più desiderata del globo, e non è un caso se i due se la contendono. La tecnologia è il vero accesso al paradiso, oggi.
Il futuro che sarà? Un astronauta, una mucca con l’insegna del Mc,  lo sponsor volante Technocasa, una coca-cola abbandonata in primo piano, un paesaggio disabitato e lunare quello di Marco Minotti; una Globalizzazione bizzarra, surreale e con la vita precaria, che ci lascia ad un cielo rosa.
Un rosa che trova massima esplosione nell’opera di Willow, un super pop divertente e iper colorato con esserini fumettistici sprizzanti per un fucsia iconico e da pop-brain, Pink side of life farebbe impallidire la Pantera Rosa per essere troppo poco pink. Una miscela pop irriverente e frizzante, scoppiettante ed elettrizzante. Un vero sciroppo contro la noia del bianco e nero.
Di un rosa pallido, trasparente, amniotico, è protagonista il lavoro di Vania Eletttra Tam che con delicatezza ci presenta Rodiola Rosea in Re Minore, una sinfonia silenziosa e fluttuante, un viaggio in assenza di gravità delicato e liscio, liquido e perturbante. Femminile e personale.
Una placenta tentacolare avvolge e culla, l’artista protagonista in questa danza privata.
Amletici e spauriti sono invece i paperi di Luigi Leonidi, con gli inglobanti occhi grandi, che sembrino uscire dalla tela, soffrono di qualcosa, hanno in loro dolori e sconfitte silenziosi, sono iconici ma anche anonimi, profondamente misteriosi, sono da scoprire petalo a petalo per ammirarne l’essenza profonda ed esistenzialista. Un bocciolo di segreti.
Con Circus, fotografia digitale, Massimo Festi ci regala un attimo di grande solitudine, un monologo teatrale visivo, una mascherata sottomessa e quasi rassegnata, fingere di stare bene, che in fondo al come stai nessuno vuole veramente sapere la verità. Un personaggio solitario, mascherato piega la testa nel tunnel del silenzio e della solitudine. L’angoscia si traveste, ma questa volta si tratta di un anti-eore, un outsider, uno ai margini della parola.
E per finire le donne dalle pennellate sensuali e pastose di Silvio Porzionato, sono semi nude, aspettano forse qualche minuto d’amore, sono in attesa e ci guardano, aprono le gambe al nostro sguardo fecondo di curiosità. La spazio che contorna i soggetti è a sua volto scomposto in pennellate di luce, le stesse pennellate che sezionano i corpi muliebri, donando loro luminosi spazi di infinito.

Federica Fiumelli