Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
Visualizzazione post con etichetta astuni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta astuni. Mostra tutti i post

domenica 1 novembre 2015

Raccontare un luogo - (Tales of a Place)




Raccontare Raccontare un luogo - (Tales of a Place) diviene una sorta di metaviaggio all'interno del narrare un luogo, in un luogo come la Galleria Astuni di Bologna. Curata da Lorenzo Bruni, l'esposizione è stata inaugurata agli inizi dell'estate passata e concluderà il proprio viaggio il 7 novembre. Vi è ancora dunque tempo, per chi non ci fosse ancora passato, per vedere le numerose opere in dialogo tra loro e ideate apposta per l'occasione, degli otto artisti internazionali scelti.

I lavori sono veri e propri dispositivi pronti a innescare una serie di match di riflessione sul processo conflittuale/dialogico che la società ha da sempre affidato alla relazione tra la parola e l'immagine, tra la didascalia e la rappresentazione a cui è associata, tra la cosa e la sua funzione, tra dimensione pubblica e privata. L'approccio alla fruizione è decisamente sismico, negli spazi della galleria le opere non fanno che far transitare il visitatore tra luoghi fisici e immaginati. Tra realtà e finzione.

Oggi la tecnologia ci permette di essere in più "luoghi" contemporaneamente, la velocità non permette una sosta di riflessione concreta. Il virtuale avanza impetuoso. Si è solo di passaggio in maniera superficiale, e non si appartiene mai a nulla in maniera vera e profonda, anche per pochi istanti. La mostra mira quindi a evocare l'esperienza e l'esplorazione di un luogo, piuttosto che limitarsi a nominarlo o presentarlo con delle immagini in tempo reale. È necessario esperire il luogo da cui osserviamo il mondo, andando oltre ogni banale connessione. Qui non si tratta di mete, ma di processi, di meccanismi, le opere-dispositivo devono innescare e generare veri e propri atti di scoperta.

I disegni proposti dall'artista bulgaro Nedko Solakov mi sembrano ottimi ambasciatori del senso più intimo della mostra. In Roads non vi è certezza sulla provenienza o sull'arrivo, quello che viene messo in risalto è il momento della scelta: dove andare. Perché ci si trova lì. Ecco cosa può raccontarci un luogo. È così che i 12 disegni seppia, in bianco e nero, si stagliano leggiadri tra curve di strade immaginate, e le figure si fanno esili e umili, desiderose di andare. E ancora andare. Oltre luogo, oltre tempo. Anche le parole sono luoghi e case, disabitate, affollate, abbandonate, distrutte, ristrutturate. Ma anche abusate e abusive. Come nel caso di Degrado 4U dello storico duo Cuoghi Corsello, che per questa esposizione propone un numero cospicuo di opere, come Piatti con paesaggi, Suf! Azzurrina, 6 Giugno, Cartina torna sole,La zampa di Pea Brain. Un degrado soffice, evanescente, argentato, che accoglie ironicamente e sdrammatizza lo sfruttamento assiduo che ne fanno giornalisti e politici. Cuoghi e Corsello sanno bene cosa significhi esplorare un luogo, marcarlo, farlo proprio nell'esperienza. La zampa di Pea Brain che avvolge l'esterno della galleria riporta alla memoria lo storico personaggio, le oche sui muri della stazione di Bologna. Le tag, la fine degli anni'80', i compagni writer del periodo. Una nostalgia romantica che si riscatta con la triplice fratellanza di memoria/spazio/tempo.

Lo statunitense Mel Bochner, classe 1940, lavora sul confine di ciò che viene definito reale e cosa invece è prodotto artistico. In Measurement plant delle piante da appartamento, quindi soggetti importati e decontestualizzati per eccellenza, sono messe di fronte a una griglia, la loro crescita potrà essere monitorata e misurata. Ciò ci riporta al gesto del mettere un tacca sull'altezza di una persona, ma rimanda anche alle griglie utilizzate in pittura per la copia dal vero e la rappresentazione mimetica. Il luogo di riferimento dell'osservatore sarà quindi quello della rappresentazione e dell'arte oppure quello della natura e dell'oggetto reale?

Una riflessione su ruolo e genesi dell'atto creativo la pone Mario Airò. In L'amour fou a sostegno della tesi duchampiana circa l'illegittimità del sistema della rappresentazione, la "macchina celibe" composta dalle pagine di alcuni libri (Bambini nel tempo di Philippe Besson; Cinecittà di Tommaso Pincio; Ogni cosa è illuminata di Jonathan Sofran Faer e i Romanzi erotici del ‘700 francese) rotea vorticosamente verso lo spettatore andando a costituire un nuovo frammento di narrazione. Le pagine si susseguono in un movimento cicloide, dove le parole sfuggono al senso del tempo, in una costante ciclicità dalle tinte anche ironiche. Una plurinarrazione fuori controllo.

Altro lavoro molto interessante di Airò è Ierofania. Un raggio verticale di luce di wood solidificata fa da perno al testo When tre sacred manifests itself, ed è proprio all'arte come manifestazione che l'artista si rivolge. Ogni oggetto pur rimanendo se stesso diventa sempre qualcosa di altro. Questo il paradosso della manifestazione del sacro. La sospensione, l'attesa e l'aura di mistero si infittiscono a mezz'aria, a fiato corto, dipanando ogni laicità residua.

Antonis Pittas arricchisce la mostra con due opere, Aggregate demand, aggregate supply; Marginal costs; Labour costs tepid e We shall do as We have decided. Nella prima, l'artista greco guarda a un artista del Bauhaus, l'austriaco Herbert Bayer, il quale era solito utilizzare per le strutture espositive "narrative" un sistema a tre colori di forte impatto sull'esperienza del visitatore. Le tre sculture in ottone e acciaio rappresentano invece, ognuna, una linea differente del diagramma di andamento finanziario. L'artista rende così fisso e immutabile un movimento destinato a subire costanti oscillazioni e variazioni. We shall do as we have decided rimane una delle opere che ho preferito. Un'opera frammento che si espande nello spazio espositivo integrandosi perfettamente con il resto. Con delicata forza esplosiva. L'artista indaga il recente uso di gas lacrimogeni da parte di squadre di polizia in città come Istanbul e il Cairo. A seguito di scontri tra manifestanti e polizia, grandi quantità di lacrimogeni vuoti di diverse forme e dimensioni - oltre a pietre, legno e bottiglie d'acqua vuote - vengono lasciate sulla strada, creando un'atmosfera molto distinta, che mostra la "quiete dopo la tempesta". Pittas traduce le forme di questi resti in oggetti scultorei in marmo greco, combinandole con frammenti di testo provenienti da quotidiani e riscritti con la grafite. Da sottolineare anche che il marmo è stato estratto dalla stessa cava dei marmi utilizzati per il Partenone (suggerendo così collegamenti tra il passato e l'oggi), inoltre questi oggetti possono essere presi e riarrangiati dagli spettatori, che si trasformano così in partecipanti attivi. Foreign powers. Gli amabili resti di una civiltà si posano con "disordine pulito" tra il caos e l'odierno bombardamento dell'informazione e un armonioso e composto classicismo.

Christian Jankowsky con il video Tableau Vivant TV del 2010 lavora sul rapporto tra dimensione pubblica e privata. In quest'opera infatti, realizzata per la Biennale di Sidney, vari spezzoni di format televisivi si susseguono, famosi conduttori parlano del lavoro preparatorio intorno all'esposizione. Si conclude poi con la visione della diretta dell'inaugurazione. Si porta così all'estremo la tesi di McLuhan Il medium è il messaggio. Disvelamento. L'artista rende praticabili i luoghi nascosti e privati. E se il mondo frenetico si muove all'infinito senza sosta, da contrasto la figura dell'artista resta immobile proprio come in un Tableau Vivant.

La californiana Suzanne Lacy indaga invece i luoghi di margine, quasi outsider e poco illuminati, quasi dimenticati volutamente e marginalizzati. Secondo l'artista il luogo non può mai essere separato dalle convenzioni sociali e di genere. La Lacy è stata importante esponente di una nuova modalità di performance femminista. In Prostitution notes ha indagato sul tema della prostituzione, ha trovato le prostitute chiedendo ad amici e conoscenti, lasciandosi condurre in un altro mondo, agli angoli delle strade, in ristoranti o bar di Los Angeles.

Wherever you are wherever you go, parlando di angoli, lì dove sembra finire una delle stanze della galleria, ecco che per altezza verticale si staglia l'installazione neon blu di Maurizio Nannucci. Quella dell'artista non vuole essere soltanto una riflessione propria sul linguaggio, sulla nominazione delle cose e sulla tautologia. Si viene a creare una relazione tra lo spazio fisico e l'immaginazione di chi guarda. Lo sguardo si posa. E la mente viaggia, nel passato, in quello che sarà. Non importa. Come sottolinea il curatore Lorenzo Bruni: "Vi è la possibilità di essere un migrante giornaliero - sia a livello fisico che virtuale".

Il moto ascensionale di Nannucci ci accompagna in un altrove, verso un'altra opera di Solakov con la quale mi piacerebbe concludere. On the wing nasce come lavoro site specific per una compagnia di aeroplani in cui l’artista ha scritto testi sulle ali di 6 Boeing 737 – non luoghi per eccellenza – con l’obiettivo di tranquillizzare i passeggeri. Attraverso questa serie di 12 fotografie Solakov continua a far vivere il lavoro, trasformandolo in un racconto dedicato alla passione del viaggiare. Talvolta anche senza meta. Le parole migrano. Come noi. Vagando per luoghi che non solo attraversano ma esplorano. Luogo dunque come conoscenza e sapere, del sé e dell'altro. Luogo come lente di ingrandimento interna ed esterna. Un luogo che ama essere raccontato senza certezze o finali.

Michel Serres scriveva: "Mi piace che il sapere faccia vivere, che sia capace di coltivare; mi piace farne carne e casa; mi piace che aiuti a bere e a mangiare, a camminare lentamente, ad amare, a morire, talvolta a rinascere; mi piace dormire tra le sue lenzuola, mi piace che non sia esterno a me".

Federica Fiumelli












venerdì 5 dicembre 2014

Fatamorgana @ Galleria Astuni, Bologna


link wsimag: http://wsimag.com/it/arte/12400-fatamorgana



Perdere l'ullusione.

Perdere un'illusione rende più saggi che trovare una verità.
Ludwig Börne, Frammenti e aforismi, 1840 (postumo)
Forse un orizzonte che non puoi raggiungere è tuo per sempre, ho pensato trovandomi lì. In campo ottico fatamorgana indica la possibilità di vedere miraggi, nelle leggende celtiche fatamorgana rivestiva i panni di una strega con poteri sovrannaturali, uno di questi era appunto la sospensione.
Sull'illusione e la sospensione nasce la mostra fatamorgana alla Galleria Astuni di Bologna curata da Antonia Alampi. I lavori esposti dialogano e rimangono in bilico tra l'immaginazione e la speranza, verso nuovi desideri e conquiste, fittizie illusione e la nostalgia di una realtà passata. Le opere si interrogano quindi anche sul ruolo del potere oggi, e non solo quello politico, sulla crescente dote di creare fra le più grandi e pericolose illusioni.
Sin dall'entrata in galleria ci accolgono dei lavori, il vinile adesivo sulla vetrina dell'artista lituana Goda Budvytyte, dal titolo fatamorgana appunto. Un ibrido tra un logo e un disegno, un monogramma astrattamente concreto delle lettere FM. L'artista stessa afferma di interpretare il segno come un profilo di onde e poi di montagne. L'illusione metaforica di un paesaggio che può essere tutto come niente. Appena sulla soglia ci troviamo convogliati da un'installazione site specificper la galleria firmata Clemens Hollerer, con Noshelter, l'artista austriaco indaga lo spazio, regalandoci un senso di precaria sospensione e precaria protezione. Non vi è alcuna protezione e la sicurezza non è che l'ennesima illusione. E' questo quello sul quale vuol farci riflettere l'artista. Come un cantiere dell'immaginario alterna lunghi legni aggrovigliati bianchi e giallo fluorescente, come uno Shanghai sospeso sulla nostra percezione.
La prima impressione che si ha trovandosi all'interno della galleria è quella di un set cinematografico ai confini della realtà. Le opere dell'artista egiziana Malak Helmy si collocano a metà tra finzione e realtà, acquistando significato diverso a secondo del contesto, gioca su codici semiotici che confondono la fruizione. Al centro dello spazio espositivo troviamo la scultura della fontana total white in poliuretano, altro non è che la riproduzione in scala reale di un tipo di fontana tipicamente costruita in complessi residenziali e spazi commerciali in Medio Oriente. Il materiali impiegato è solitamente utilizzato per modellini architettonici. Questa fontana diviene una pedina fittizia di un'architettura inesistente e rimane immutata in un film dal futuro vacillante e precario.
Di stessa natura le sculture dal titolo Scene 4: a composition for gradients, riproduzioni in scala reale di diversi tipi di roccia salina realizzate in resina. Queste pseudo rocce geneticamente modificate narrano gli spesso alterati ritmi biologici e sociali della nostra contemporaneità. Gli interventi della Helmy sono spiazzanti, ci si aspetta di trovare marmo o minerali e invece non potremmo che toccare polistirolo ad alta densità o resina. Il fittizio di interroga spietato sulle mutazioni del reale. Nel video Chapter 3: Lost referents of some attraction, tre paesaggi tra il surreale, l'artificiale e il naturale metafisico trovano dialogo. Una Piana di sale, una spiaggia, e una futura centrale elettrica nucleare. Personaggi alla deriva tra attese, risoluzioni e desideri. Un'analisi bio sul paesaggio di una costa egiziana.
Su due lati speculari del perimetro dello spazio espositivo sono poste in serie, in una successione ordinata i frammenti di visioni, dei molteplici viaggi dell'artista egiziano Basim Magdy, Every Subtle Gesture del 2013 sono 25 stampe a colori incorniciate non solo da un passpartout bianco, ma da frasi in argento stampate, come incisioni e ponti di collegamento, altrovi linguistici che ampliano le possibilità delle immagini immortalate su carta fotografica. Queste foto sono parte di una grande collezione che ormai prosegue da anni, istantanei indizi, pezzi di un puzzle che probabilmente non esiste, parti di un gioco che vuole essere costruzione in bilico tra realtà e finzione. Fiori che sbocciano, universi o planetari plastificati, gabbie di volatili, diversi sguardi su diversi paesaggi, un uomo barbuto sperimenta su un giovane un apparecchio metallico semisferico all'altezza del cranio e la frase-cornice ci racconta brevemente con un tweet su carta: we wake up in dirty masks and election costumes of unknown history. E ancora, un cantiere, e alcuni operai fanno da sfondo a un altro breve ma intenso e mirato tweet: we construct intricate alibs to make up for our absent-mindedness. Magdy ci offre appunti di viaggi radicati nell'incertezza. Una natura sempre in sospensione.
Quella stessa sospensione che rende visibile l'opera di Luca Pozzi. Trinity platform del 2014, è un'installazione che utilizza neon, campi di levitazione elettromagnetica, e spugne. Tre piattaforme quadrate sono interconnesse al fine di tenere in levitazione delle spugne luminescenti e colorate. La forma dell'installazione non è casuale, difatti riprende la posizione delle tre piramidi di Giza, connessa a loro volte con la costellazione di Orione. Il lavoro si presenta ricco di sinergie cosmiche e dicotomiche. L'artista stesso lo definisce come un "rimescolamento violento di informazione tra una forma geometrica-grafica di derivazione architettonica stabilità e verificata è una spugna di imprecisabile contorno". Limitato e illimitato, definito e indefinito si ritrovano a collidere. L'immaginifico e il possibile digitale si mescola alla costruzione analogica dalla quale lo stesso digitale dipende.
Razionale e irrazionale. Tutta la mostra è costruita su quel limen dai contorni fragili e precari, illusori, il visitatore stesso si sente in balia di una vertigine-voragine ambigua tra ciò che è è quello che non è. El buro fantasma, dell'artista messicano Carlos Amorales, presenta quattro lastre incise di sette pagine di giornale prodotte nel suo studio nell'estate 2013. L'artista e il team hanno creato ad hoc articoli del tutto fittizi che tramite la collaborazione di un giornalista, di domenica mattina (giornata di minor controlli), sono stati inviati alla redazione di un quotidiano nazionale e pubblicati successivamente come veri. Il contenuto degli articoli riguarda la poesia, l'arte e la storia politica dopo il colpo di stato cileno. Gli articoli raccontano di gesti compiuti sia dal regime fascista che dalla resistenza, molto simili tra loro per la peculiare e programmatica distorsione della realtà e strumentalizzazione dei media. Ritorna in luce quindi il discorso iniziale sul potere politico e non come maggiore produttore di false illusioni.
Altro lavoro esposto in mostra dell'artista messicano è Screenplay for Amsterdam, una serie di 100 stampe in bianco e nero su carta che ben dialogano a mio parere con il lavoro di Magdy. Anche qui ci troviamo davanti a un certo numero di frammenti di visioni. Questo lavoro è una sceneggiatura preparata per il film Amsterdam. Sceneggiatura che diventa opera a sé dal film è che rappresenta un filone di ricerca di Amorales ovvero l'indagine dell'artista sulle lingue non semantiche. Segni e simboli, immagini di attori e testi sono stati mixati e creati tramite l'uso di una fotocopiatrice. Diventando il linguaggio parlato sempre più astratto la comunicazione fra gli attori si è svolta via via in maniera eminentemente corporea. Questa ambiguità ha concesso di arrivare a un'esperienza simile a "un'anarchia sociale temporanea" come l'ha definita l'artista durante le riprese del film.
Fatamorgana ci appare sfuggente, sempre in bilico fra verità di diversa natura, non si lascia concepire mai integralmente, l'illusione di un possesso totale non è che l'idea fittizia sulla quale getta le proprie radici il potere avaro. Il beneficio di essere equilibristi dell'incerto è una precarietà che oggi più che mai fatichiamo ad accettare. Rimanere sospesi come spugne indefinite in un preciso ritmo cosmico che sempre più viene modificato costa più che un passo falso. Fatamorgana è una circense in fuga, temporanea, un miraggio profondo aldilà di un velo di Maya cinematografico.
Federica Fiumelli