Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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venerdì 5 dicembre 2014

Fatamorgana @ Galleria Astuni, Bologna


link wsimag: http://wsimag.com/it/arte/12400-fatamorgana



Perdere l'ullusione.

Perdere un'illusione rende più saggi che trovare una verità.
Ludwig Börne, Frammenti e aforismi, 1840 (postumo)
Forse un orizzonte che non puoi raggiungere è tuo per sempre, ho pensato trovandomi lì. In campo ottico fatamorgana indica la possibilità di vedere miraggi, nelle leggende celtiche fatamorgana rivestiva i panni di una strega con poteri sovrannaturali, uno di questi era appunto la sospensione.
Sull'illusione e la sospensione nasce la mostra fatamorgana alla Galleria Astuni di Bologna curata da Antonia Alampi. I lavori esposti dialogano e rimangono in bilico tra l'immaginazione e la speranza, verso nuovi desideri e conquiste, fittizie illusione e la nostalgia di una realtà passata. Le opere si interrogano quindi anche sul ruolo del potere oggi, e non solo quello politico, sulla crescente dote di creare fra le più grandi e pericolose illusioni.
Sin dall'entrata in galleria ci accolgono dei lavori, il vinile adesivo sulla vetrina dell'artista lituana Goda Budvytyte, dal titolo fatamorgana appunto. Un ibrido tra un logo e un disegno, un monogramma astrattamente concreto delle lettere FM. L'artista stessa afferma di interpretare il segno come un profilo di onde e poi di montagne. L'illusione metaforica di un paesaggio che può essere tutto come niente. Appena sulla soglia ci troviamo convogliati da un'installazione site specificper la galleria firmata Clemens Hollerer, con Noshelter, l'artista austriaco indaga lo spazio, regalandoci un senso di precaria sospensione e precaria protezione. Non vi è alcuna protezione e la sicurezza non è che l'ennesima illusione. E' questo quello sul quale vuol farci riflettere l'artista. Come un cantiere dell'immaginario alterna lunghi legni aggrovigliati bianchi e giallo fluorescente, come uno Shanghai sospeso sulla nostra percezione.
La prima impressione che si ha trovandosi all'interno della galleria è quella di un set cinematografico ai confini della realtà. Le opere dell'artista egiziana Malak Helmy si collocano a metà tra finzione e realtà, acquistando significato diverso a secondo del contesto, gioca su codici semiotici che confondono la fruizione. Al centro dello spazio espositivo troviamo la scultura della fontana total white in poliuretano, altro non è che la riproduzione in scala reale di un tipo di fontana tipicamente costruita in complessi residenziali e spazi commerciali in Medio Oriente. Il materiali impiegato è solitamente utilizzato per modellini architettonici. Questa fontana diviene una pedina fittizia di un'architettura inesistente e rimane immutata in un film dal futuro vacillante e precario.
Di stessa natura le sculture dal titolo Scene 4: a composition for gradients, riproduzioni in scala reale di diversi tipi di roccia salina realizzate in resina. Queste pseudo rocce geneticamente modificate narrano gli spesso alterati ritmi biologici e sociali della nostra contemporaneità. Gli interventi della Helmy sono spiazzanti, ci si aspetta di trovare marmo o minerali e invece non potremmo che toccare polistirolo ad alta densità o resina. Il fittizio di interroga spietato sulle mutazioni del reale. Nel video Chapter 3: Lost referents of some attraction, tre paesaggi tra il surreale, l'artificiale e il naturale metafisico trovano dialogo. Una Piana di sale, una spiaggia, e una futura centrale elettrica nucleare. Personaggi alla deriva tra attese, risoluzioni e desideri. Un'analisi bio sul paesaggio di una costa egiziana.
Su due lati speculari del perimetro dello spazio espositivo sono poste in serie, in una successione ordinata i frammenti di visioni, dei molteplici viaggi dell'artista egiziano Basim Magdy, Every Subtle Gesture del 2013 sono 25 stampe a colori incorniciate non solo da un passpartout bianco, ma da frasi in argento stampate, come incisioni e ponti di collegamento, altrovi linguistici che ampliano le possibilità delle immagini immortalate su carta fotografica. Queste foto sono parte di una grande collezione che ormai prosegue da anni, istantanei indizi, pezzi di un puzzle che probabilmente non esiste, parti di un gioco che vuole essere costruzione in bilico tra realtà e finzione. Fiori che sbocciano, universi o planetari plastificati, gabbie di volatili, diversi sguardi su diversi paesaggi, un uomo barbuto sperimenta su un giovane un apparecchio metallico semisferico all'altezza del cranio e la frase-cornice ci racconta brevemente con un tweet su carta: we wake up in dirty masks and election costumes of unknown history. E ancora, un cantiere, e alcuni operai fanno da sfondo a un altro breve ma intenso e mirato tweet: we construct intricate alibs to make up for our absent-mindedness. Magdy ci offre appunti di viaggi radicati nell'incertezza. Una natura sempre in sospensione.
Quella stessa sospensione che rende visibile l'opera di Luca Pozzi. Trinity platform del 2014, è un'installazione che utilizza neon, campi di levitazione elettromagnetica, e spugne. Tre piattaforme quadrate sono interconnesse al fine di tenere in levitazione delle spugne luminescenti e colorate. La forma dell'installazione non è casuale, difatti riprende la posizione delle tre piramidi di Giza, connessa a loro volte con la costellazione di Orione. Il lavoro si presenta ricco di sinergie cosmiche e dicotomiche. L'artista stesso lo definisce come un "rimescolamento violento di informazione tra una forma geometrica-grafica di derivazione architettonica stabilità e verificata è una spugna di imprecisabile contorno". Limitato e illimitato, definito e indefinito si ritrovano a collidere. L'immaginifico e il possibile digitale si mescola alla costruzione analogica dalla quale lo stesso digitale dipende.
Razionale e irrazionale. Tutta la mostra è costruita su quel limen dai contorni fragili e precari, illusori, il visitatore stesso si sente in balia di una vertigine-voragine ambigua tra ciò che è è quello che non è. El buro fantasma, dell'artista messicano Carlos Amorales, presenta quattro lastre incise di sette pagine di giornale prodotte nel suo studio nell'estate 2013. L'artista e il team hanno creato ad hoc articoli del tutto fittizi che tramite la collaborazione di un giornalista, di domenica mattina (giornata di minor controlli), sono stati inviati alla redazione di un quotidiano nazionale e pubblicati successivamente come veri. Il contenuto degli articoli riguarda la poesia, l'arte e la storia politica dopo il colpo di stato cileno. Gli articoli raccontano di gesti compiuti sia dal regime fascista che dalla resistenza, molto simili tra loro per la peculiare e programmatica distorsione della realtà e strumentalizzazione dei media. Ritorna in luce quindi il discorso iniziale sul potere politico e non come maggiore produttore di false illusioni.
Altro lavoro esposto in mostra dell'artista messicano è Screenplay for Amsterdam, una serie di 100 stampe in bianco e nero su carta che ben dialogano a mio parere con il lavoro di Magdy. Anche qui ci troviamo davanti a un certo numero di frammenti di visioni. Questo lavoro è una sceneggiatura preparata per il film Amsterdam. Sceneggiatura che diventa opera a sé dal film è che rappresenta un filone di ricerca di Amorales ovvero l'indagine dell'artista sulle lingue non semantiche. Segni e simboli, immagini di attori e testi sono stati mixati e creati tramite l'uso di una fotocopiatrice. Diventando il linguaggio parlato sempre più astratto la comunicazione fra gli attori si è svolta via via in maniera eminentemente corporea. Questa ambiguità ha concesso di arrivare a un'esperienza simile a "un'anarchia sociale temporanea" come l'ha definita l'artista durante le riprese del film.
Fatamorgana ci appare sfuggente, sempre in bilico fra verità di diversa natura, non si lascia concepire mai integralmente, l'illusione di un possesso totale non è che l'idea fittizia sulla quale getta le proprie radici il potere avaro. Il beneficio di essere equilibristi dell'incerto è una precarietà che oggi più che mai fatichiamo ad accettare. Rimanere sospesi come spugne indefinite in un preciso ritmo cosmico che sempre più viene modificato costa più che un passo falso. Fatamorgana è una circense in fuga, temporanea, un miraggio profondo aldilà di un velo di Maya cinematografico.
Federica Fiumelli





giovedì 12 settembre 2013

Valerie Hegarty. D come Distruzione. Quando la vita sprofonda nell'aldiquà.

Ecco il mio ultimo articolo sull'artista newyorkese 
Valerie Hegarty pubblicato sul Wall Street International Magazine.

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/valerie-hegarty-d-come-distruzione_20130912061238.html#.UjHLktI9OSo



Enjoy!
:)

REPORT - United States, Arte

Valerie Hegarty. D come Distruzione

Quando la vita sprofonda nell'aldiquà.

Valerie Hegarty. D come Distruzione

“…et jette dans mes yeux pleins de confusion
des vêtements souillés, des blessures ouvertes,
et l’appareil sanglant de la Destruction!” (Baudelaire, “La Destruction”, Le Fleurs du Mal)

Valerie Hegarty è un’artista contemporanea che vive e lavora a New York, molti dei suoi lavori infatti si possono trovare alla Nicelle Beauchene Gallery. Lo scorso 17 maggio si è inaugurata al Brooklyn Museum con durata fino al 1 dicembre 2013 “Alternative Histories”, una mostra comprendente alcuni lavori dell’artista, in particolare opere site-specific con temi come la colonizzazione, e altre fasi storiche dove la repressione è stata dominante. La produzione artistica della Hegarty va dal 2002 a oggi e le sue opere colpiscono fin dal primo sguardo, non passano inosservate. La componente dominante della Hegarty è la D di Distruzione. Come Pete Townshend, leader degli Who che nel 1967 distrusse la sua chitarra sul palco, o come Paul Simonon nella famigerata copertina di London Calling del 1979 dei The Clash.

Distruggere.
Nei suoi lavori l’arte esce nella vita, o la vita esce dall’arte, è tutto un uscire, un fuori-uscire dalla tela che non contiene più, la bidimensionalità viene lacerata, Fontana rules. La tela non contiene più i peccati della pittura, la cornice non ci sta più a fare da deittico, ma sembra urlarci sordamente: anche io vivo! Anche io sono qua! Tutto strabocca, irrompe, evade, esplode. Tutto è corroso, corrosivo, sciolto, disciolto, sotto l’acido della memoria, come nei ritratti splat-splash di Washington. Nulla si salva, tutto è naufragio, incendio, devastazione, degenerazione. Il confine tra bio e artificio si fa sottile e armonioso, come in Autumn on the Hudson Valley with Branches del 2009, ecco un quadro innevato, sommerso da un manto soffice e ghiacciato di neve pallida ma non esanime, raffigurante un paesaggio, i buchi sulla tela sono diventati spazi vuoti di infinito, di aria ineffabile, ed ecco, che dall’esoscheletro del quadro spuntano rami, la realtà è un proseguo della pittura e si fa carne, vita.

Questi rami che sono abbracci spezzati da una struggente malinconia invernale. I lavori della Hegarty sono estremamente tattili, ricordano tanto il polimaterismo futurista, e il connubio di primordio più oggetto di impronta new dada, con la scarica pittorica alla Rauschenberg, come non ricordare Bed del 1955? O Canyon del 1959? Anche alla Hegarty piacciono i volatili e se Rauschenberg usò un’aquila, Valerie riprende i corvi alla Hitchcock sempre in preda alle still life, a nature morte, a frutti abbandonati su tavole fantasmagoriche. Ci sono anche picchi molesti, che tarlano quadri e cornici per lasciare furiosi e detestabili tracce di sé come in First Harvest in the Wilderness with Woodpecker del 2011. Colla, sabbia, fili, piume, plexiglas, schiua, vernici, poster, acquerelli, acrilici, carta, gel, nastri, un’enumerazione materica inglobante ed esplosiva, iridescente e distruttiva.

Watermelon tongue del 2012 vede protagonista un’enorme, famelica, esorbitante, lingua prendere vita da una fetta di anguria, il trompe l’oeil, il cetriolo di crivelli è solo un lontano ricordo. La tela non assorbe più. La materia è un incidente con la vita. Il velo di maya si è rotto. Con questo lavoro la Hegarty critica e contestualizza il fenomeno delle colture truccate di angurie in Cina, dove sopra ai frutti vengono spruzzati certi tipi di ormoni per velocizzarne e aumentarne la crescita soprattutto all’interno. Di impatto visivo e tattile anche Exploding Peaches (Whit frame) del 2012, le famose nature morte seicentesche prendono forma nello spazio tridimensionale, le pesche sono vittime di esplosioni convulse, suadenti, incontenibili, ormonali, le varietà cromatiche dal giallo tenue al rosso sangue sono sfumature di una vita fucilata.

A proposito delle nature morte, viene in mente un capitolo di un saggio di semiotica curato da Lucia Corrain e Paolo Fabbri, citando Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore: “... Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle nature morte”.

E qui non solo la vita è profonda, ma sprofonda nell’aldiquà, invadendo la nostra dimensione. Il quadro respira, i soggetti anche, esso soffre, essi soffrono, sembra quasi ricordare il Ritratto di Dorian Gray, la tela mostra il marcio, ce lo riconsegna, siamo testimoni di uno sfiorire di eterna bellezza. Una pittura bruciata, disciolta, liquefatta, un incendio irrazionale e stravolgente, in Headless George Washington with table (Marlborough Installation) del 2012 la Hegarty propone un cambio di storia, una virata tra le pagine dell’American History. L’installazione raffigura il celebre ritratto di Washington, una versione che fu salvata da un incendio della Casa Bianca del 1812, ma qui si presenta la storia parallela, quella che alle fiamme non si salva.

Lo scontro è anche tra astrazione e raffigurazione, tra caos e compostezza logica, i flussi pittorici sono cordoni ombelicali solitari, viscere filacciose e pendolanti, virus a piede libero. Autumn on the Wissahickon with Tree del 2010, vede come soggetto un quadro di un paesaggio, distrutto, dilaniato, da crepe e colori furiosi, grondanti, straripanti, e attorno proprio come un’epidemia, un virus infernale, ammala il muro ospitante, crepandolo, contorcendolo, quasi abbattendolo come una foglia morta.

La Hegarty cristallizza l’attimo del terremoto, dell’inondazione, dell’incendio, della furia, del ciclone, della catastrofe. Ma la Hegarty è anche quella specie di miracolo, quel filo dell’erba che cresce attraverso la crepa del cemento, perché dalla ceneri si può sempre risorgere. E’ dal caos che nasce il nulla che è tutto. Una valchiria di materia, è l’eco, un ruggito di un Wagner trionfante, è la creazione della distruzione, o sarà la distruzione della creazione?
Pubblicato: Giovedì, 12 Settembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli