Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

lunedì 25 maggio 2015

The Opening. Sanja Iveković e Franco Vaccari


link: http://wsimag.com/it/arte/15134-the-opening 







C'è un bellissimo disegno del 1492 di Leonardo Da Vinci che rappresenta in sezione il corpo di un uomo e di una donna durante un coito. Quello che ne deriva è di come i due corpi nel momento del contatto si trovino profondamente legati, gli organi assumono la forma di una mappatura stradale strettamente interconnessa. La locuzione latina Inter nos, tradotta letteralmente significa "fra di noi".

E Inter Nos è esattamente il titolo di una performance del 1978 dell'artista croata Sanja Iveković esposta insieme a Franco Vaccari nella mostra The Opening alla Galleria P420 di Bologna, curata da Marco Scotini. The Opening perché entrambi gli artisti, già attivi negli anni Settanta, hanno superato il tradizionale concetto di performance sviluppando una nuova definizione di happening basato sul dialogo, sulla relazione tra artista e spettatore. Lo spazio diventa quello della galleria, il tempo quello dell'Opening appunto della mostra, in cui tutto diviene processo, dal momento della creazione, all'esposizione, alla fruizione definitiva dell'opera. L'opening che diviene coito.

Entrambi gli artisti, dopo quasi quarant'anni dall'ultima esposizione insieme, hanno sempre lavorato contro la passività della fruizione del pubblico volendo innescare dinamiche relazionali in grado di "riattivare i processi della socialità e della relazione". Contro ogni volontà aprioristica lo studio dei due artisti si rivolge alla continua mutazione delle relazioni, potenzialmente infinite e sempre diverse.

Franco Vaccari, classe 1936, attraverso la sua esplorazione a livello sia teorico che operativo, grazie al concetto di Esposizione in tempo reale detronizza la passività contemplativa fotografica per donarle invece lo spazio dell'azione. Da una dichiarazione dell'artista allegata all'opera Viaggio + Rito del 1971: "Il pubblico è chiamato a distruggere lo spazio della contemplazione per aprire quello dell'azione". Come scrive Claudio Marra in Fotografia e pittura del Novecento - una storia senza combattimento il concetto di esposizione reale richiama l'"immagine atto" che Philippe Dubois definì all'inizio degli anni Ottanta. Un'immagine che "permette la presentazione di atti, esperienze e tranches de vie, che obbligatoriamente richiedono partecipazione". Non è difficile ricondursi a una delle più grandi correnti filosofiche, la fenomenologia indetta da Husserl, il quale assunto principale era appunto quello che alla base di ogni conoscenza ci fosse relazione con l'alterità. Se le fotografie mantengono una strettissima imprescindibile relazione col proprio referente, non è un caso che Vaccari lavori con i concetti di indizi, tracce e segni. Occorre qui aprire una parentesi semiotica cara a Pierce.

Come anche Marra ricorda nel testo sopra citato, Pierce stabilì che un indice è "un segno o una rappresentazione che rinvia al suo oggetto non tanto perché è associato con i caratteri generali che questo oggetto si trova a possedere, ma perché è in connessione dinamica (compresa quella spaziale) e con l'oggetto individuale da una parte e con i sensi o la memoria della persona per la quale serve da segno, dall'altra". Umberto Eco sintetizzò successivamente affermando: "Pierce chiama talora indici anche le fotografie (che parrebbero rientrare tra le icone): infatti una foto non solo rappresenta un oggetto, come può farlo un disegno, ma ne costituisce anche la traccia e funziona come il cerchio di vino rimasto sul tavolo che testimonia la presenza (passata) di un bicchiere".

In mostra, di Vaccari, sono esposte Esposizione in tempo reale num.1, Maschere (1969), Esposizione in tempo reale num.5, Spazio privato in spazio pubblico (1973), Esposizione in tempo reale num.6, Il cieco elettronico (1973) e Esposizione in tempo reale num.7, Mito Istantaneo (1974). In Maschere, presentata alla Galleria Civica di Modena, l'artista fece distribuire centinaia di maschere che recavano impressa la fotografia di un uomo qualunque. In seguito venne fatto buio in sala. Vaccari si mise a girare tra il pubblico con una pila e una macchina fotografica. Ogni tanto illuminava qualche persona e cercava di fotografarla, ma questa in quel preciso momento si nascondeva sorpresa o seccata dietro la maschera, usandola come scudo, come corazza, barriera, come mezzo per rientrare in una dimensione totalmente privata e anonima, come difesa e protezione dall'eccesso di individuazione che l'uso del mezzo fotografico può portare.

Riportata anche nel famigerato libro Body art e storie simili - il corpo come linguaggio di Lea Vergine, a proposito di "maschere" l'artista stesso affermava: "Io uso la fotografia come azione e non come contemplazione e questo comporta una negazione dello spazio ottico a favore dello spazio delle relazioni. Mi interessa sparire come autore per assumere il nuovo ruolo di innescato re e regista di processi. Gli ambienti dove opero devono essere luoghi dove le cose accadono realmente e il dopo è sempre diverso dal prima. In altre parole sono interessato alla riscoperta del rischio, inteso come rifiuto di ogni tipo di garanzia aprioristica; si può infatti affermare che le manifestazioni artistiche assolvono il compito di essere le nicchie della rassicurazione dove si ha la certezza che non succederà assolutamente niente".

In Il mendicante elettronico Vaccari registrò in una piazza vicino alla fermata dei tram un mendicante nell'atto di chiedere l'elemosina. Successivamente al posto di questo lasciò un televisore che trasmetteva la registrazione appena fatta: sullo schermo appariva la scritta "Il cieco torna subito". Parafrasando McLuhan, il medium diviene potere, l'uso di quel tipo di mezzo solitamente gestito da grossi gruppi di potere ha determinato un effetto di "mitizzazione istantanea" del mendicante.In Comunicazione Segreta, presentata alla Trigon 73 Neue Galerie a Graz, l'artista ricavò una nicchia privata all'interno dello spazio della mostra. Quella nicchia era composta da due ambienti in comunicazione audiovisiva fra loro. La comunicazione purché prendesse vita in pubblico era sottratta al controllo pubblico stesso. Il momento della documentazione si trovava così davanti a indizi, tracce e segni, limiti di fronte ai quali la curiosità doveva arrestarsi e interpretare. In Mito istantaneo, presentata alla Galleria 291 a Milano, l'artista aveva a disposizione due ambienti, in uno fotografava con la polaroid i visitatori, nell'altro faceva proiettare sulle pareti la foto appena scattata, che in questa maniera risultava ingigantita. Chi era stato fotografato, quando scopriva la propria immagine proiettata, veniva illuminato e rifotografato insieme a questa.

Sanja Iveković, classe 1949, si è formata presso l'Accademia di Belle Arti di Zagabria; sin dagli anni Settanta la sua produzione artistica ha abbracciato vari tipi di media, quali la fotografia, il video, l'installazione, la performance, l'azione in pubblico. Da sempre ha indagato criticamente l'uso delle immagini e dei corpi, ha analizzato la costruzione dell'identità nei media e nella politica, ed è stata protagonista di un attivismo soprattutto di origine femminista. Il coinvolgimento del pubblico è alla base della ricerca artistica della Iveković, determinando una relazione con i fruitori, stretta a un livello intimo ed emozionale.

La mostra si apre appunto con Inter Nos, quattro foto in bianco e nero, un disegno con testo e un video. L'installazione prevedeva un dialogo privato tra l'artista e il visitatore. E ciò avveniva tramite l'interazione della Iveković con l'immagine sul monitor del fruitore che suscitava ogni volta una reazione individuale e diversa. Le due stanze erano messe in collegamento tramite un circuito chiuso composto da due apparecchi video senza connessione audio, e un ambiente dove la performance veniva videotrasmessa al pubblico che poteva vedere la sola immagine del partecipante. Nella 1st Belgrade performance la performance iniziava nel momento in cui l'artista entrava in galleria insieme al curatore. Continuava a camminare formando cerchi a ritmo di musica affinché la distanza tra l'Iveković e il pubblico diminuiva riducendosi ogni volta di 1 metro; la velocità della camminata diminuiva fino a quando arrivava in una posizione in cui con l'aiuto del curatore si presentava e stringeva la mano a ogni persona, iniziando una conversazione con ogni visitatore della galleria. Gradualmente scompariva come performer, mentre l'azione performativa continuava come spontanea azione del pubblico.

Meeting-points era una performance composta in due parti. Il primo giorno l'artista eseguiva la performance all'interno della galleria vuota con solo una videocamera come testimone. L'azione nello spazio corrispondeva nell'anticipazione di dove il pubblico si sarebbe trovato e in come la comunicazione fra di loro si sarebbe sviluppata. Il giorno seguente un monitor venne posizionato in un angolo della galleria e il video trasmesso mentre l'azione vera iniziava. In quell'istante le anticipazioni dell'artista cercavano di trasformarsi in realtà, ad esempio ripetendo la performance alla presenza del pubblico.

Il lavoro che ho preferito insieme a Inter Nos è sicuramente Inaugurazione alla Tommaseo presentata a Trieste nel dicembre del '77. Durante l'inaugurazione della mostra, l'artista rimase chiusa nel piccolo spazio riservato all'ufficio, con la bocca sigillata da nastro adesivo. Un amplificatore trasmetteva il rumore del battito cardiaco in tutti gli ambienti della galleria, mentre l'artista incontrava singolarmente ogni visitatore. L'inizio di ogni incontro veniva scandito da un determinato suono e poi fotografato. Il giorno seguente, le immagini vennero appese in galleria insieme all'audio corrispondente. Lo spettatore aveva la possibilità di riascoltare il suono durante l'opening. Riascoltare il suono del battito dei cuori di quei visitatori in mostra ha annullato il senso del tempo e ha riattivato oggi come ieri quella volontà Inter Nos di partecipazione attiva nello spazio di relazione.


Una riflessione intima mi ha portato alla convinzione di quanto sia importante oggi riguardare con attenzione questa tipologia di interventi artistici mirati a renderci responsabili dell'essere presenti a noi stessi e all'altro, qui e ora. In una logica di abbandono del preconcetto. Quell'esserci così atrofizzato che nell'era della super comunicazione ritrova a spalleggiarsi tra individualismi atomizzati e non comunicanti. La molti-solitudine è divenuta un'attitudine contemporanea emblema della grande alienazione. Vige un'estraneità al contatto, un'impurità che fa dell'assenza non elemento attivo ma disertore. Per questo è necessario ripristinare uno spazio di relazione attivo nel quale corpi e pensieri siano legati in un coito, nel tempo di un Opening.


Federica Fiumelli








Opiemme. Vortex. Galassie di parole

link: http://wsimag.com/it/arte/14921-opiemme-vortex




"Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Incontrerò una parola
che trattenga il tuo corpo e lo faccia girare,
che contenga il tuo corpo
e apra i tuoi occhi come un dio senza nubi
e usi la tua saliva
e ti pieghi le gambe.
Tu forse non la sentirai
o forse non la capirai.
Non è necessario.
Vagherà dentro di te come una ruota
fino a percorrerti da un estremo all’altro,
donna mia e non mia
e non si fermerà neanche quando tu morirai".
(Roberto Juarroz)

Tutto in me ruota vorticosamente: scatole e mente
(Gaetano Arcangeli)

Vortex è l'incontro con la parola, che si fa materia. Una costituzione cosmopoetica è la ricerca che porta l'artista Opiemme con il ciclo di tre mostre, la prima al Bi-Box Art Space a Biella, la seconda conclusasi recentemente negli spazi di Portanova12 a Bologna e la terza che si terrà allo Studio D'Ars a Milano il prossimo Novembre.

Vortex indaga la stretta osmosi ciclica che vi è tra uomo e cosmo, interpellando parole, poesie, pianeti, e stelle. Lo spazio della pittura diventa respiro e luce. Il lavoro trae ispirazione dal libro L'alfabeto scende dalle stelle. Sull'origine della scrittura di Giuseppe Sermonti, nel quale si sostiene che l'alfabeto non sarebbe altro che un'immagine derivata dalle forme delle costellazioni. Il linguaggio non diviene quindi che una proiezione fluttuante dell'universo. Quanta vertigine e vastità nell'ombra di questo pensiero. Lettere come petali di soffioni, vorticosamente si liberano nel dipinto murale sopra l'Autostazione di Bologna. N, S, Y, F, I, H, M, ecc...

La serie di questi lavori però sono frutto anche di un certo sentire dell'artista, di una certa poetica portata avanti soprattutto negli ultimi due anni in giro prima per tutta l'Italia con Un viaggio di pittura e poesia e poi per il mondo, come Haiti, Thailandia, Uruguay, Argentina (dove ha partecipato alla 5a Bienal del fin del mundo) e la Polonia. Proprio in Polonia, secondo il mio parere, Opiemme ha dato forma e corpo all'emblema di Vortex, tramite il dipinto murale sulla parete di dieci piani per il Monumental Art a Gdansk dedicato a una donna che ha fatto della poesia uno struggente acuto lucido sentire, la poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Da Sotto una piccola stella: "Verità, non prestarmi troppa attenzione / Serietà, sii magnanima con me".

Come elementi irridescenti le lettere fluttuano e piovono da un gigantesco pianeta-buco nero. L'infinito poetare si ibrida all'oscuro mistero del cosmo. Una profonda introspezione genera l'abisso della parola. Una colata arcobaleno sovrasta e si frammenta in lingue di colore geometrico. Tutto è soppesato da forze contrastanti, sempre nei lavori di Opiemme. Dicotomico e calibrato, anche nel primo testo critico Daniele Decia descrive Vortex come una ricerca tra astrattismo e la parola, di "lettere informali", tra informale e poesia visiva. Lettere genitrici e fecondanti aggiungo io. Lettere atomi, lettere attimi.

Nei lavori esposti a Bologna, si può appunto constatare questo dualismo tra la tecnica dello stencil più rigoroso e uniforme in un teso e delicato confronto con il dripping multiforme e multicolorato, imprevedibile e casuale. L'astrofisico inglese Martin Rees scriveva: "Il Sole e il firmamento fanno parte del nostro ambiente - il nostro habitat cosmico: una percezione che gli scienziati condividono con poeti e mistici. "Io sono parte del Sole, micosi come il mio occhio è parte di me" scriveva D.H. Lawrence, e Van Gogh dipinse la Notte Stellata con lo stesso spirito con cui dipingeva i campi di grano e i girasoli. L'arte e la letteratura abbondano di simili esempi. La scienza rende più profondo questo senso di appartenenza a ciò che non è terrestre. Noi stessi, d'altronde, siamo a metà strada tra l'universo è il microcosmo: per mettere insieme la massa del Sole ci vogliono tanti corpi umani quanti sono gli atomi in ciascuno di noi. E la nostra esistenza dipende, certo, dalla tendenza degli atomi ad attaccarsi gli uni agli altri e unirsi in quelle molecole complesse che formano tutti i tessuti viventi, ma l'ossigeno e il carbonio dei nostri corpi sono stati creati, a loro volta, entro stelle lontane, vissute e morte miliardi di anni fa". Questi pianeti tatuati di lettere e parole diventano pelli intergalattiche.

Il poeta della streetart, come da molti definito, ha attinto da penne fiere e storiche, come Gaetano Arcangeli, Roberto Roversi, Lucio Dalla, Edgar Allan Poe, Eugenio Montale trasformando i versi in colate opulescenti di lettere che prima di farsi immagine, sono per me materia evanescente e nebulosa. Le parole sono decostruite per piovere a uno stato disgregato e gassoso, libero e caotico. Ho trovato come perfetto supporti alla polvere poetica, le cartine geografiche e le anziane pagine di alcuni Resto del Carlino. In questi lavori le lettere e i pianeti sono più decisi, grafici, autonomi, ma pur conservando una loro autonomia, riescono a interagire in punta di piedi con le realtà loro sottostanti. Gli spazi sono lattiginosi dripping che donano la completa percezione della consistenza Lattea, puntiforme e infinita.

Le galassie di parole si intersecano come precipitazioni meteorologiche su strati di memoria, di notizie e di luoghi, di geografie che ormai sono divenute orizzonti nelle mente dell'osservatore. Pulviscolare e centrifugo l'atto pittorico di Opiemme, cerca di ricondurci all'origine, al caos dell'inizio, al chiasmo organico della materia, all'inizio del linguaggio. Nell'ancestralità della costituzione riesce nei propri equilibri visivi a unire micro e macro. Una pittura che nel silenzio dell'universo è onomatopeica e altisonante. Declamatoria. I suoi lavori tendono a essere appelli, nell'urgenza e brevità di un verso notturno che si fa lampo di memoria e visione.

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
/
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all'occhiello
la rosa dei venti.
/
Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.
/
Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
/
La nave che non c'è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell'orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…
/
Tutto è pronto. Sul serio. Invano.
(Juan Vicente Piqueras, Voglia di restare)

Federica Fiumelli