Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

venerdì 9 giugno 2017

Alessandra Maio. "Orizzonti" presso Officina 15 a Castiglione dei Pepoli







di
 
Officina 15 è un’associazione culturale senza scopo di lucro nata a Castiglione dei Pepoli, in provincia di Bologna, e volta alla diffusione della cultura e dell’arte senza nessun confine di carattere e di gusto; fino al 10 giugno propone la serie di lavori Orizzonti dell’artista bolognese Alessandra Maio. Gli obiettivi dell’associazione sono quelli di promuovere e rivalutare il territorio dell’Alto Appennino Bolognese, facendo da punto di riferimento e di aggregazione per chi voglia sviluppare le proprie idee artistiche e creative, con un interesse particolare ai nuovi media e alle forme di espressione contemporanee. 

“Sono affascinata dalle parole, dalle loro sfaccettature, dai significati che possono assumere a seconda dei contesti in cui sono inserite. Lego parole a immagini semplici esaltando la loro potenza attraverso la ripetizione ossessiva: scelgo frasi fatte o famose, cantilene, proverbi e le scrivo migliaia di volte componendo le trame fitte da cui scaturisce, come un ricamo, il disegno finale. La ripetizione non è una pratica sedativa, è un modo per riflettere: quando si riscrive una frase questa assume un significato più intenso portando a uno stato meditativo”, afferma Alessandra Maio. 

Orizzonti è il titolo della serie di lavori ad acquarello e matita su carta dell’artista, in cui utilizza un grigio che man mano da campitura di colore, si fa leggera e inconsistente sfumatura, per sciogliersi in corpo esile di scrittura. O ancora leggendo il movimento contrario: una scrittura che si condensa in fumose porzioni di colore etereo, fino a scomparire. A dissolversi. È proprio lo spazio della scrittura ad essere posto sotto una lente di ingrandimento temporale, l’artista è interessata a una questione nella quale tutti noi intimamente ci siamo imbattuti, fin da quando siamo bambini, dove nella fase di apprendimento è previsto un particolare tipo di rapporto tra noi e la pagina bianca, tra noi e il mondo. 

Alessandra Maio, classe 1982, vive e lavora a Bologna si è diplomata all’Accademia di Belle Arti e ha conseguito la laurea magistrale in Storia dell’arte contemporanea. Da attenta osservatrice e studiosa ha tratto e assorbito i punctum essenziali dalle sperimentazioni legate al rapporto tra parola e immagine, grafia e grafismo, dalle prima esperienze futuriste e dadaiste, alle ricerche delle neoavanguardie come Poesia concreta, Poesia Visiva, Fluxus, Concept Art, e Narrative Art, per rielaborare personalmente il luogo della scrittura. Scrittura che è movimento, immagine e forma. Scrittura che è orizzonte di conoscenza e pratica antica, espressiva e dicotomica. Tra noumeno e fenomeno, la scrittura è l’accadere di un tempo che piano piano stiamo perdendo. Ma la Maio non perde questo equilibrio e nemmeno questo tempo, lo custodisce con finezza ed eleganza, con precarietà e originarietà, il gesto recupera una forza pura semplice. La forma calligrafica si sdogana da imposizioni di senso, lontana di logiche di senso coercitive, è all’orizzonte, infinita nel mistero. “Il mistero non è un muro, ma un orizzonte. Il mistero non è una mortificazione dell’intelligenza, ma uno spazio immenso, che Dio offre alla nostra sete di verità” (Antonie de Saint-Exupery). 

La serie di lavori Orizzonti si avvicina per affinità stilistiche e concettuali ad altri lavori dell’artista come Esercizi di stile: Grigio nebbia: senza confini da superare non so dove andare, Linee parallele, Tentativo di mimesi: mi nascondo tra le ombre dei miei sogni, Sfumatura R: a volte confondersi aiuta a capirsi, Sfumatura A: non devo aver paura del buio, Grigio: non riesco a pensare a niente, Non devo aver paura del buio

Tonalità grigie, blu, rosee si alternano con una ripetizione nel titolo che fa da cornice al pensiero, NON. NON NON NON. La Maio ci suggerisce che ripetere aiuta, sia nell’ossessività della forma, che nella negazione della sua significanza, per liberarsi occorre insistere, muoversi, correre, scivolare verso un orizzonte di originarietà. Sia nello stile esecutivo sia nella scelta dei titoli, nella poetica della Maio si può trovare e riscontrare una genuinità propria dell’infanzia, una propensione al gioco, puro, semplice, e proprio per questo estremamente profondo e complesso. “Possiamo dire: gioco è non-serietà. Ma questo giudizio, oltre a non dire nulla delle qualità positive del gioco, è estremamente precario. Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere” (Johan Huizinga). 

I sogni, i pensieri, l’incertezza, il dubbio, le paure; fanno parte di un’attitudine "calviniana" quella dell’artista, già riscontrata peraltro da altri critici, “di planare sulle cose dall’alto” , una modalità estetica aerea, con un approccio sincero e curioso sul mondo e sull’esperire. “Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio” (dall’incipit di Lezioni Americane di Italo Calvino). 

Dal quaderno, al foglio, alla carta di cotone, la scelta dei supporti da parte dell’artista mantiene un’essenzialità basica ed elegante, lo spazio bianco si rende disponibile ad accogliere silenzi fatti di negazioni, pensieri e ripetizioni. Ed è così anche per la scelta della tecnica di colorazione (prevalentemente acquerello) e dei colori. “Gli spazi vuoti, gli orizzonti vuoti, le pianure vuote, tutto quello che è spoglio mi ha sempre profondamente impressionato” (Joan Mirò). 

Il lavoro della Maio è un lavoro di riduzione, di spogliazione, dove lo spazio e il tempo si incontrano nella vertigine del vuoto, nella purezza del colore o nel reiterarsi della forma, o nella semplicità di una locuzione. Una concezione estetica che la rende molto vicina a ricerche di tipo orientale. Di fatti, basta pensare alla serie Seascapes del fotografo giapponese Hiroshi Sugimoto per captare affinità distanti ma estremamente vicine, dove l’essenza diviene concetto, negli scatti di Sugimoto, l’orizzonte diviene quel limen, quel gap, quella mancanza irraggiungibile tra la distesa oceanica dell’acqua e l’inafferrabilità del cielo; tutto si perde in una gradazione tonale, soave, amplificata, infinita, in un grigio che diviene metafora stessa dell’esistenza. Proprio come accade negli Orizzonti della Maio, dal taglio implicitamente fotografico, sia nei formati verticali, orizzontali, ma nella fattispecie in quelli tondi, dove la perfezione del cerchio diviene "occhiello" attraverso il quale spiare, ma anche cornice, buco, fuga, foro, fessura attraverso quale l’entropia si compie. 

Gli Orizzonti della Maio, sono luoghi, arcipelaghi o isole, paradossalmente letterarie, dove la non-significanza risiede nella bellezza del gesto. Un gesto puro sintomo di una ricerca minuziosa, quasi ascetica che la avvicina a una grande artista come la tedesca (ma italiana d’adozione) Irma Blank, anche per le scelte cromatiche. La scrittura in entrambe diviene movimento, respiro e riflessione (in) formale. In Orizzonti silenzio e densità si incontrano osmoticamente nella trasparenza dell’acquarello e nella trama fitta di parole, per evocare sensazioni, per ricordare liquidamente, fluidamente che tutto scorre silente, si muta e trasforma, sbiadisce, come lacrime su carta di cotone, si dissolve una linea d’ombra. 

Al buio, in punta di piedi. 














Five questions for Jessica Ferro

link:http://formeuniche.org/five-questions-for-jessica-ferro/




Jessica Ferro, classe 1992, nasce a Dolo, e fin da bambina comincia a disegnare sapendo già con fermezza e con urgenza che l’arte sarebbe stata la strada per la vita. La fascinazione verso il mondo dell’entomologia e della malacologia la elegge come una rara osservatrice del dettaglio naturale, dell’infinitesimale, della nervatura, del macroscopico indispensabile che, attraverso varie tecniche e sperimentazione, diviene traccia pittorica evanescente e altra.

Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
La mia personalità è sempre stata caratterizzata da una forte inclinazione artistica: fin dalla più tenera età ho cominciato a disegnare, dipingere e muovermi in ambito creativo con disinvoltura. Di conseguenza, l’interesse per i linguaggi dell’arte ha delineato la mia formazione: il Liceo Artistico (Rovigo) e l’Accademia di Belle Arti (Bologna). La mia attività espositiva è cominciata molto presto e, col passare del tempo si è notevolmente intensificata, sia in Italia che all’estero. Ho partecipato a diversi concorsi, premi e residenze artistiche perché trovo molto stimolante il confronto costruttivo con altri artisti e quando, in più occasioni, ho ottenuto il riscontro positivo delle giurie, poi, inevitabilmente, ho cominciato a prendere molto più sul serio il mio lavoro e la mia ricerca, anche da un punto di vista professionale. La differenza principale che ho notato fra gli esordi e oggi è probabilmente il fatto che il “fare artistico” è man mano diventato per me molto più di una semplice passione: una priorità rispetto a ogni altra cosa, un’urgenza, proprio come se quello fosse l’unica, irrinunciabile modalità, con cui mi è concesso di esprimermi.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
I soggetti delle mie opere sono perlopiù dettagli del mondo naturale: insetti e molluschi, materie organiche e fossili, appartenenti sia alla terra che al mare. In linea generale la zoologia mi affascina particolarmente, nello specifico l’entomologia e la malacologia sono fonti d’ispirazione e mi danno la possibilità di raccogliere quelle suggestioni che poi si riflettono inevitabilmente sulla poetica delle opere. Il processo artistico mi porta a indagare con accanimento i particolari di ogni soggetto raffigurato e de-figurato, inducendolo a mutazione. Lo specifico dettaglio rimanda a una visione più ampia, dilatata, vibratile, non meno astratta del dettaglio stesso. Le tematiche delle opere sono inerenti alle apparizioni e alle sparizioni di enigmatiche figure, dense di evocazioni.
In generale amo molto sperimentare ed entrare in contatto con le tecniche e i materiali più diversi, quindi i miei progetti futuri riguardano anche la possibilità di ricercare e collaudare nuove soluzioni in questo ambito; le mie opere sono spesso il frutto dell’unione di più procedimenti che mettono in relazione la pittura e alcune tecniche incavo-rilievografiche sperimentali.

Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Il contesto ambientale in cui vivo sicuramente, in un certo modo, ha influito nel rapporto che ho con il mondo della natura e i suoi dettagli.
Abito a Rosolina, un paese della provincia di Rovigo che si affaccia sul mare.
I paesaggi del basso Polesine sono ricchi di suggestioni e talvolta ho cercato spunti visivi nelle zone naturalistiche più isolate e silenziose che caratterizzano il parco del Delta del Po, attivando un personale percorso d’indagine della realtà. Per quanto riguarda la mia ricerca artistica infatti ritengo che sia estremamente importante l’osservazione della natura e delle sue forme, soprattutto di quegli aspetti che solitamente vengono ignorati.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Il sistema dell’arte contemporanea è una questione complessa. In linea generale penso che dovrebbe aprirsi molto di più alle nuove proposte e ai giovani artisti piuttosto che atrofizzarsi sul mercato di artisti storicizzati che non portano più ulteriori novità e sviluppi alla scena artistica contemporanea. Sono molto poche le gallerie che si occupano seriamente e in modo professionale di artisti emergenti e questo è un peccato.

Che domanda vorresti ti facessi?
Mi piacerebbe raccontarti qualche cosa in merito al mio processo di lavoro, quindi vorrei che la tua ultima domanda riguardasse appunto questo.
L’approccio di lavoro, che nel mio caso possiamo definire indiretto, pone un’interferenza e una debita distanza tra me e l’opera finita in quanto introduce ulteriori ingredienti rispetto a quei segni che imposto direttamente sul supporto, ossia permette l’inserimento di tracce, impronte, indizi, elementi che in qualche modo provengono dal mondo esterno e lasciano spazio ad una certa quantità di variabili possibili.
Qualche volta mi è capitato di parlare del processo di creazione delle opere come di un “Rituale” che procede per gradi, partendo dall’osservazione diretta di piccoli elementi naturali, e va dal momento dell’ideazione dell’immagine alla scalfittura della stessa sul supporto, dalla preparazione del colore (spesso ottenuto dall’impasto di pigmenti naturali) alla volontà di trasmettere una pressione fisica, corporea. Si tratta della rivisitazione di una modalità di stampa, questo mezzo viene infatti sovvertito e usato impropriamente, negando la produzione in serie di uno stesso soggetto ma piuttosto accentuandola possibilità di trasfigurazione e di differenziazione che l’immagine della matrice può subire attraverso diverse impressioni, fino a giungere al punto in cui il riferimento ad essa non è più visivamente riconoscibile. Il segno indiretto, quindi, restituisce qualcosa di superiore rispetto alla tradizionale dimensione espressiva della pennellata diretta, suggerendo tutto un complesso portato del vissuto inconscio dell’immagine e dei suoi significati.

www.jessicaferroarte.weebly.com


Intervista a cura di Federica Fiumelli per FormeUniche








Marco Ceroni. Late Night Show. Il potenziale immaginifico

link: http://wsimag.com/it/arte/25046-marco-ceroni-late-night-show




12 APR 2017
di
 
Nelle opere del giovanissimo artista Marco Ceroni (Forlì, 1987) si tratta di far esplodere il loro potenziale immaginifico. Alla voce di qualsiasi dizionario im-ma-gi-nì-fi-co significa: … che crea immagini; dotato di grande fantasia. Neologismo coniato nel 1728 dal grecista Anton Maria Salvini per tradurre Platone dal greco eidolopoiós (creatore di immagini). Il dizionario continua dicendoci che: con questa parola si intende il carattere del creatore d'immagini, in particolare riferito a scrittori e artisti: a esempio, per lungo tempo con questa parola si chiamò, per antonomasia, D'Annunzio. L'Immaginifico. E ancora: “Un’opera immaginifica sforza al massimo la nostra fantasia lasciandoci piacevolmente spossati.” Ecco l’effetto delle operazioni di Ceroni. 

In Late Night Show alla Gallleriapiù di Bologna, nella prima sala veniamo accolti dalla serie Please don’t go, titolo esplicativo di reminiscenze nostalgiche anni Ottanta, l’immaginario dell’artista viene filtrato attraverso una doratura applicata su locandine cinematografiche. I protagonisti cult seventies-eighties che hanno popolato la fantasia di intere generazioni vengono isolati, decontestualizzati, trattenuti, resi altro da loro stessi. Non sapendo se sono questi personaggi dalla mitologia moderna a non abbandonarci o noi a non volercene liberare; in una sorta di sfilata, si alternano uomini o macchine, motociclette, robot, tutti scappati dall’oscurità delle sale cinematografiche, sono pronti a nuove modalità di esistenza. 

È così che i protagonisti de I guerrieri della notte di Walter Hill fluttuano eterei come icone in uno spazio isolato e isolante, tra il sacro e il profano, tra kitsch e un raffinato concettuale, le opere di Ceroni sono appunto operazioni di confine. E all’artista piace sovvertire la realtà fornendoci un’altra chiave di lettura, immaginifica, amplificata appunto. L’operazione di doratura è frequente nei lavori di Ceroni, basta citare Infoline, Denti d’oro, Bling Bling, The Golden Age, attraverso i quali, scarti, frammenti, relitti, resti urbani vengono riletti, ri-osservati, ri-qualificati, ri-portati sotto una nuova luce, quella dorata. Come racconta lo stesso artista, attraverso il colore oro, l’oggetto viene astratto e sottratto all’ordinario. Perché tutto è già fuori, nell’epoca del ready–made, basta solo essere dotato di nuovo sguardo per comprendere (quasi pasolinianamente) che non occorre inventare o produrre del nuovo (che poi sono sul termine nuovo occorrerebbero oceani di approfondimento) quanto rileggere l’esistente. E per Ceroni rileggere l’esistente vuol dire amplificare la voce silenziosa dello spazio urbano, che in realtà silenziosa non lo è per niente, estenderne il potere immaginifico. I territori di confine attraversati dall’artista sia concettualmente che fisicamente sono territori esplosi. Post atomici? Forse. Sicuramente ogni residuo reso nasce dall’incontro, dallo scontro con qualcos’altro, da una collisione autentica, e ogni frammento è portatore sano di una meta-narrazione. 

Questo accade nella seconda sala espositiva, quando una hit di Gigi d’Agostino diventa il titolo dell’opera. In L’amour toujours frammenti di vetture, nella fattispecie carene di motorini, sono stati resi calchi di resina trasparenti, come ambre 2.0, lo scontro, il seducente crash viene cristallizzato in una forma fossile. Siamo nel bel mezzo di una visione collassata pronta a condurci tra infiniti spazi di possibilità. (Il che mi ha ricordato la versione erotica dello scontro metallico del Crash di David Cronenberg). Ecco che i lavori agiscono come interstizi di narrazione incompiuta, solo l’incontro con lo sguardo del fruitore può decidere di compierla. Is there life on … moon? Tanto per citare e ibridare un altro celebre titolo ‘bowieniano’, in Moonwalk (qui si saccheggia dal pop di Micheal Jackson) Ceroni sottrae un comune elemento urbano di sbarramento stradale per rileggerlo o eleggerlo a qualcosa di completamente diverso, un elemento scultoreo, neoclassicheggiante, reso tale dai basamenti preziosi di marmo giallo di Siena. Alterare la realtà per lasciarci piacevolmente spossati. È Ceroni. 

Per Ceroni la realtà è indagine, esplorazione, e archivi infiniti dai quali attingere sono lo spazio urbano e l’architettura. Le azioni performative che accompagnano la poetica dell’artista lo confermano, come negli scatti Senza Titolo (che è stata anche copertina di un numero di Artribune, dove Ceroni addenta letteralmente una porzione di materia urbana) e Strong Belief, dove il corpo dell’artista si fonde e si mescola, si ibrida a un elemento urbano, anche in questo caso di sbarramento stradale. Come racconta l’artista: “Venendo a creare uno sfasamento di sguardo all’interno del quotidiano.” Come spiega bene Fabiola Naldi nel testo critico che accompagna la mostra analizzando un preciso termine: “Il Parkour consiste nell'eseguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente circostante, sia esso naturale o urbano. Risalendo a quegli anni (gli anni Novanta) e leggendo ciò che si iniziò a scrivere per descriverlo e forse anche per analizzarlo, i primi termini utilizzati furono «arte dello spostamento» (art du déplacement) e «percorso» (parcours). 

Ma il termine che forse si presta a tracciare in parte il lavoro di Marco Ceroni è quello coniato da David Belle e Hubert Koundé nel 1998 che deriva da parcours du combattant (percorso del combattente), ovvero il percorso di guerra utilizzato nell'addestramento militare proposto da Georges Hébert. Alla parola parcours, Koundé sostituì la «c» con la «k», per suggerire aggressività, ed eliminò la «s» muta perché contrastava con l'idea di efficienza del parkour. Ovviamente ciò che si vuole sottolineare qui non è la nemesi con tale disciplina quanto la possibilità di un nuova tipologia di traceur non più nella sua funzione “sportiva”, ma come pretesto per configurare visivamente l’approccio che si può avere quando ci si rapporta con spazi, più o meno metropolitani, in grado di definire temporaneamente luoghi che oramai hanno le medesime caratteristiche di utilizzo e di percezione”. 

La mostra si chiude con un elemento ambiguo, in origine un copri-motore divenuto un muso nero dal nome Spirit troneggia nel vuoto della parete bianca, come sinossi: “Un feticcio che collassa violentemente su se stesso sincretizzando un frammento di realtà e la sua esaltazione”. Spirit come l’ultimo album dei Depeche Mode. Non è un caso. Lo è. Chi può dirlo. Mi fa sorridere poterlo pensare. Ed è questa la forza della maschera di Spirit… so dark, so electric. Questa esposizione, come la stessa poetica di Ceroni giace su un fil rouge musicale variegato, popolare. Questa mia ultima digressione, non vuol essere né leggera né perentoria ma di certo sono sicura che le opere di Marco Ceroni siano un chiaro esempio di come la contemporaneità vada letta, o possibilmente interpretata, trasversalmente, ponendo criticamente questi vuoti di spazi, o questi spazi vuoti, connettendo interstizi diversi, mantenendo un’esplosione immaginifica che dalla musica, filtra al cinema, alle arti visive, ma che riesce ad arrivare ad una quotidianità più stretta, più personale, più intima, a un immaginario condiviso sospeso tra la realtà e il suo simulacro.

Amplificare irreversibilmente questi confini tellurici.
Amplificare irreversibilmente questi confini.
Amplificare irreversibilmente.
Amplificare. 





E ora la parola a Marco Ceroni.
Come definiresti l’essere artista?
Essere sempre sulle montagne russe.
Che ruolo dovrebbe avere o ha nella società contemporanea l’artista, oggi?
Ogni artista ha il ruolo che si crea, anche a seconda delle proprie spinte e urgenze. Più generalmente l'artista si deve scontrare continuamente con il processo inarrestabile di decerebrazione collettiva.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i tuoi anni da studente?
La cosa più importante sono gli incontri che si fanno in quegli anni. Per quanto mi riguarda ho fatto prima un triennio in pittura all'Accademia di Bologna e poi il biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA a Milano. Due approcci formativi diversi che mi hanno dato delle referenze molto ampie. Ma la cosa che poi rimane e che ti fa veramente crescere, come ho già detto, sono gli amici e nemici che incontri. Quelli con cui cresci e ti confronti costantemente.
Come ti sei avvicinato all’arte?
Perché non so fare nient'altro.
C’è qualcosa (un brano musicale, un testo teatrale, un film) o qualcuno (poeta, attore, regista, musicista, architetto, o artista visivo) che ti ha ispirato o ti ispira maggiormente?
Arturo Martini
Se dovessi stilare una top ten di opere d’arte (anche qui dal teatro al cinema alla danza alla musica) quali sono i tuoi “must have”?
Non li metto in ordine di importanza ma direi questi: I guerrieri della notte di Walter Hill, 1997: Fuga da New York di John Carpenter, Discovery dei Daft Punk, la serie dei Piedi di Luciano Fabro, Mr. Simpatia di Fabri Fibra, Fino all'ultimo respiro di Jean-Luc Godard, Ubik di Philip K. Dick, Delirious New York di Rem Koolhaas, Foxy Lady di Jimi Hendrix e il primo rave a cui sono andato tanto tempo fa.
Da artista – critico, come definiresti/racconteresti i lavori che hai scelto per questa esposizione alla Gallleriapiù?
I lavori presenti nella mia ultima personale Late Night Show creano un percorso narrativo: un attraversamento. Con Please don't go ho voluto creare una sorta di orizzonte dorato. Una serie di ventitrè locandine cinematografiche originali sulle quali sono intervenuto con la foglia oro isolandone i personaggi. Sono tutti film che hanno caratterizzato il mio immaginario. I personaggi vengono estrapolati dal loro contesto ma viene amplificato il loro immaginario, in cui le varie storie si divorano una con l'altra. I personaggi diventano una sorta di guardiani del mio mondo. Nella seconda sala invece sono tutte sculture a terra tra cui Moonwalk, in cui ho alterato i basamenti di un dissuasore sostituendoli con due blocchi di marmo giallo di Siena. L'amour toujours è invece una sorta di crash ballardiano in cui calchi in resina di frammenti di vetture diventano ambre che cristallizzano l'attimo in cui ci scontriamo. L'ultima opera invece che incontriamo, Spirit, sincretizza un frammento di realtà e la sua esaltazione.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
Io sono di Faenza, ma vivo a Milano da cinque anni e penso che in Italia sia l'unica città in cui vivrei ora. Ti dà la possibilità sia di essere presente, ma allo stesso tempo anche di scomparire.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea attuale?
È una guerra e noi siamo in trincea. Ma dove dovremmo stare altrimenti?
Giunti al termine di questa conversazione, agli artisti faccio sempre una domanda … Cosa vorresti che ti chiedessi?
Il tuo incubo ricorrente?
Ultima domanda giuro. Se chiudi gli occhi in questo istante descrivici l’immagine che vedi (se la vedi).
Una Ceres gelata.