Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 17 gennaio 2017

Gilberto Zorio. Le opere oscillano e fluidificano da un secolo al successivo.




12 GEN 2017
di
… Sussurro. Mi presento con le mie strutture, i marrani, le stelle, le canoe, i sibili, i desideri incolmabili, le esagerazioni … Mi presento con le necessità di tentare le voragini rovesciate che anelano il grande, rosso, grande lampo dell’arte. Arte prima pulsione, Arte veicolo del sogno intelligente, Arte assidua nell’intelligenza. Arte convinta rivoluzione rincorsa, Arte felicità pensante che sogna, che precede l’utopia; Arte elegante, Arte orgogliosa, Arte operaia, Arte sconfitta che sconfigge il buio. Benvenuti.
(Gilberto Zorio, Torino, ottobre 2000)
Questo scriveva l’artista in occasione di una mostra personale nella città che tanto gli ha dato e alla quale ha dato tanto negli anni Sessanta, così lontani, così vicini, la bella e algida Torino, quando il movimento italiano dell’arte povera capitanato da Germano Celant prendeva sopravvento nel panorama artistico internazionale. Ho riportato questo pezzo per sottolineare quanto l’artista sia uno di quegli artisti dotati di una penna straordinaria in grado di investire la scrittura di potente evocazione e bellezza. 

L’arte di Zorio è fatta di oscillazioni temporali, e colmo di meravigliosa energia torna per quest’anno, nel cuore di Bologna, alla galleria de’ Foscherari, la stessa che proprio nel 1968, a cura del già citato Celant ha ospitato la mostra Arte Povera. Le opere oscillano e fluidificano da un secolo al successivo... vuol essere un viaggio nella poetica dell’artista e nell’arte stessa, una mostra che raccoglie opere che slittano nelle intensità di mezzo secolo. Una felice spossatezza, una nostalgia del futuro, come scrive lo stesso artista. Un’esposizione magica, da fruire anche al buio, per assorbire tutta l’incandescenza e la forza della visione immaginifica di Zorio. Una visione eccitata, costruita da simboli e archetipi, ma che ben si tengono lontani dalle metafore, all’artista infatti ha da sempre interessato la potenza stessa dell’immagine o del materiale impiegato, e non il loro valore simbolico. 

Marrani volteggianti, motori, sibili, canoe, sospensioni, pelli di animali, stelle, letti, ampolle in pyrex, metalli, liquidi, giavellotti, è impossibile non rimanere sorpresi e incuriositi da questi strumenti, mistici, ambigui, ancestrali, dall’esistenza possibile e impossibile. Quella di Zorio è una continua ascensione alla speranza, l’arte acquista significato solo come atto di estrema e disperata speranza, una possibilità di redenzione, miglioramento, innalzamento, purificazione. Contrasti, appoggi, le dicotomie si innalzano, in modo che la galleria acquisti una dimensione eterea, preziosa, ritagliata fuori da un tempo prestabilito, il tempo diventa per un momento democratico, circolare, forse ellittico, il tempo scivola, fluttua, viaggia, come glassa, come burro caldo sul pane croccante, si infrange, si scioglie e si muove tra e con i nostri sensi. 

È un mostra che slitta tra il silenzio e il rumore, tra la luce e il buio, tra la pesantezza del metallo e la fluidità e mobilità di un liquido, tra la concretezza di una forma o di un oggetto e l’aleatorietà di un pensiero, qualunque esso sia. Con la fruizione al buio, ci troviamo di fronte a un altro volto, a un’altra mostra, a un altro ambiente, siamo immersi in un percepire stellare, cosmico, la materia pulviscolare si dipana nello spazio, senza peso, illuminando le nostre attese. Fremiti di galassia, un concretismo magico, straniante, che trova una vibrazione materica nelle pulsazioni luminose. 

Letto del 1966 e Per purificare le parole del 1980 sono due opere storiche che si fondono temporalmente con le altre presenti del 2016: Marrano con treccia, Canoa aggettante, Stella calibrata. Che dire su quest’ultima? La stella atavica e cosmica da sempre è utilizzata dall’artista fin dagli esordi, un simbolo dalla semplice complessità, antico come le stesse origini dell’uomo, perfetta negli equilibri e nelle proporzioni, tanto da raccogliere in se stessa le purità canoniche dell’uomo vitruviano, così elegante da non potere fare male. La stella catalizza in sé l’energia millenaria del tempo e della memoria, come elemento costitutivo del DNA del sogno dell’uomo, appartiene all’altrove e sorregge, o viene sorretta dalle alchimie. Ogni essere umano è un recipiente di minerali e di acqua, le sue vene, i polmoni e organi sono uno straordinario laboratorio chimico fatto di tubi e alambicchi. Così affermò l’artista in una conversazione con Celant. 

Tutto in Zorio è trasformazione, come nei processi alchemici costituiti proprio dagli alambicchi in vetro o in piombo, le conflittualità di energia scaturite dalla tensione tra i materiali, sono questi gli ingredienti di una visione mitica di un’arte sia operaia che sognante. Mettere a nudo i propri strumenti e meccanismi, un'arte pronta a rivelarsi pur mantenendo un’aura di fascino e mistero, che cede al dubbio e alla perplessità la sua più segreta energia. L’arte di Zorio è un’arte alla continua ricerca di un moto di energia pura, di movimento, di luce, di incandescenza, di reazione, di fluorescenza, di esplosione cosmica indefinita. Scienza e arte si intrecciano come impronte in un percorso mistico, enigmatico, dai contorni fragili e intercambiabili, l’unica certezza è il provocare una visione di inspiegabile stupore nell’osservatore, che rimane rapito dagli interstizi inarrivabili della cosmogonia artistica di Zorio. 

È così che la Canoa aggettante si libra sospesa per un viaggio fluido, tra le narrazioni di un’energia, come a colpire la nostra immaginazione, come una freccia, si fa mezzo per un altrove luminoso, intermittente, tra i sospiri di una speranza, talvolta chiamata arte.
Non pensare a quanto è rimasto indietro […] se quanto hai già trovato è fatto di materia pura, non potrà marcire. […] Se è stato soltanto un attimo di luce, come l’esplosione di una stella allora non troverai più nulla quando ritornerai... Ma avrai visto un’esplosione di luce. E anche solo per questo ne sarà valsa la pena.
(Paulo Coelho, L’Alchimista, 1995).








Richard Nonas. RIVER-RUN

link: http://julietartmagazine.com/it/events/richard-nonas-river-run/




La galleria P420 di Bologna, ospita per la chiusura di questo 2016 la personale dell’artista americano Richard Nonas, classe 1936, dal titolo RIVER-RUN. Richard Nonas ha lavorato come antropologo per una decina di anni studiando sul campo gli Indiani d’America nel Nord Ontario, Canada e continuando la sua pratica etnografica in Messico e in Arizona. A metà degli anni ’60, all’età di 30 anni, ha deciso di dedicarsi alla scultura. La sua esperienza da antropologo ha profondamente influenzato la sua pratica artistica e il suo impegno nel sentire e percepire lo spazio. Attraverso un vocabolario minimalista Nonas ha sviluppato un corpo di lavoro che ha indagato il tema del luogo. Nonas ha esposto in numerosi musei, istituzioni e gallerie in tutto il mondo realizzando installazioni di diverse dimensioni sia da interno che da esterno come le installazioni permanenti nel villaggio abbandonato di Vière et les Moyennes Montagnes,Digne-les-Bains, Francia (2012) e alla Fondazione Ratti (2003-2011).

Un intraducibile istantaneo accadere come suprema sintesi dell’esistenza, quando la parola non basta, allora la forma connette e condivide atmosfere, idee, memorie e sensazioni in un confluire inarrestabile che trae le proprie radici nel dubbio. La scultura compie un gesto antico, primordiale, ragionato e sentito, avvertito, si pone ancestralmente all’inizio di un tutto pronto ogni volta a cessare, per ripetersi, differentemente. Da capo. Se è vero che il minimalismo e l’antropologia hanno regalato gli strumenti della poiesis, è anche vero che Nonas ha saputo disfarsi di correnti, scuole, etichette, conclusioni o appartenenze per librarsi leggero all’originarietà dell’esperienza. Per spogliarsi ogni volta di risposte. Contemporaneamente affermazione e negazione, l’arte di Nonas, ci proietta, ci getta nel dubbio, senza proteggercene. Il dubbio si innesta viralmente nell’occhio di colui che osserva, che come un amante in caduta libera, con la potenza di un fiume in corsa, si ritrova a confrontarsi con l’ambuguità del coito, dell’esperire, dell’accadere, del fluire.

L’arte di Nonas è costruita abilmente da forme e materiali semplici (legno, ferro, pietre) che at-traggono in inganno, la semplicità non è che la componente erotica, seduttiva, che conduce invece ad una più profonda lettura umana, ad una più profonda analisi, ad un più profondo intercalare e declinare l’esperire; perché come sosteneva anche Jung non esiste nulla di più complesso della semplicità. La scultura si fa grammatica di una letteratura intraducibile del visibile ma soprattutto del non visibile. Le forme divengono così punteggiatura, imbevute, tra numerose correnti libere di possibilità, dando ritmo all’essenza così dannatamente sfuggevole e mutevole. E allora spazio all’ambiguità, che viene misurata e resa lirica, per compiersi e fondersi nello scambio osmotico tra arte e vita in luoghi pieni di umana significanza, come racconta lo stesso artista, dal forte impatto emotivo, che urlano di un silenzio profondo, e ci portano nell’abisso della dicotomia dell’essere.

RIVER-RUN è il flusso inarrestabile, il progredire ciclico della vita, l’essere e il cessare, una forza dicotomica indomabile che fluisce nell’incontro tra arte e vita. Dal riferimento colto, preso da un celebre testo di Joyce, RIVER-RUN diviene il senso più intimo e più intraducibile dell’esposizione e della poetica dell’artista, un divenire mutevole che ricorda il panta rei di Eraclito. Nonas differenzia il concetto di spazio da quello di luogo, se il primo viene inteso come proprietà fisica di pura misurazione, il secondo, pieno di significato umano, crea legami e situazioni, connette l’uno all’altro in un antico algoritmo, i places di Nonas sono infatti luoghi di forte impatto emotivo, dove la condivisione e la forza di evocazione sono all’origine del tutto.

RIVER-RUN interpreta la forza dei places, portando con sé molteplici visioni possibili di guardare e osservare il mondo, dove il dubbio e l’ambiguità trovano corpo in materiali crudi, grezzi, pesanti, industriali o naturali, mantenendo forme semplici, e ordinarie.

RIVER-RUN vuole essere un punto privilegiato d’osservazione, tramite il quale la scultura si fa mero strumento critico, dove l’interrogarsi diviene una corsa, un fluire inarrestabile.

La scultura, come ha scritto l’artista in uno dei suoi numerosi scritti, non è che il cuore dell’arte e queste sue affermazioni lo dimostrano: “Sculpture is the place where place is only barely possible. Is it the place where we begin to meet the meaning of culture. (…) Sculpture is that just unreacheable place. Sculpture is the object mark of paradox in our spatial – and special – being.
(…) Sculpture is absence acknowledged through placeness, then re-objectified. Sculpture is the solidified presence of absence, here and now. Sculpture is the hard heart of art. – And that’s quite enough for me.”

Nonas ci lascia attraverso le sue parole un erudito testamento della sua poetica, rientrando così in quella categoria di artisti dalla penna nobile, dal pensiero tagliente, agitatore del dubbio, sia nel silenzio della carta, che nell’immensità della forma, celebrata da un gesto aperto alla pluralità del tempo.

Federica Fiumelli 









 

Sissi. Motivi Ossei

link: http://formeuniche.org/sissi-motivi-ossei/


 


Il mio corpo è anche il corpo di Violette. L’odore di Violette è come la mia seconda pelle. Il mio corpo è anche il corpo di papà, il corpo di Dodo, il corpo di Manès […] Il nostro corpo è anche il corpo degli altri.
Daniel Pennac, Storia di un corpo

Parlare del lavoro di Daniela Olivieri in arte Sissi, significa parlare del nostro corpo attraverso il corpo dell’artista. La ricerca di Sissi, così viscerale, volta da sempre a indagare gli aspetti emotivi e identitari, fanno dell’artista un’archeologa, un’anatomista ma prima di tutto una persona appassionata alla costituzione infinitesimale dell’essere umano e delle cose.
La creazione per Sissi è architettura, è necessario scovare una struttura, un sistema, che sia esso nervoso od osseo, che sia trama e ordito, occorre trovare e incontrare qualcosa che sostenga e dia forma a un divenire.
“Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole”. Questo scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. E il linguaggio artistico di Sissi, che comprende le più svariate tecniche, dal disegno, all’installazione, alla tessitura, al libro d’artista, alla performance, alla fotografia, alla scultura, è un linguaggio che diviene pelle, profondamente superficiale, dicotomico, in grado di rivelare e rilevare ogni vibrazione tellurica organica e psico-emotiva. Vibrazioni che in punta di dita si trasformano e si compiono nel gesto dell’artista, in questa mostra ad esempio, una grande installazione scultorea, tentacolare ci accoglie.

In Motivi Ossei, ospitata alla G.A.M. Galleria d’Arte Maggiore di Bologna a cura di Maura Pozzati, il paesaggio di germinazioni ossee è composto dal servizio di piatti (ossei) del banchetto dell’ultima performance L’imbandita tenutasi presso il suggestivo oratorio di San Filippo Neri e da opere appositamente realizzate presso la storica Bottega Gatti di Faenza. Ci troviamo dinanzi a ossa che divengono stucchi settecenteschi, dove il servizio di piatti in ceramica – come sottolinea bene Maura Pozzati nel delizioso catalogo –  smette di essere solo contenitore di cibo per assumere le sembianze di un paesaggio naturalistico tardo barocco. Il riferimento e l’ispirazione tratti dalla visione della Cripta dei Cappuccini di Roma, è forte ed evocativo. Le sculture in ceramica sono autentiche e originarie pulsazioni, la materia vibra sotto i nostri occhi, così candida e tormentata, nei tornanti della forma trasuda con quanto ardore e minuzia il corpo dell’artista abbia fecondato l’opera, l’abbia abbracciata, schiaffeggiata, palpeggiata, resa respiro e movimento. Come una sinfonia, una danza, una materia da masticare e inglobare. Sissi seduce attraverso la sua manualità e si distingue per sensibilità in un panorama contemporaneo spesso puntellato di anonimia e distacco. L’immaginario di Sissi è un meraviglioso ibrido tra rigore scientifico e un’immaginazione feconda quasi dannunziana, carroliana, barocca e fantastica, che trova attraverso il piacere, e i sensi, la più alta forma di espressione. Basta pensare ai primi lavori con gli abiti, alle lezioni nei teatri anatomici facenti parti di un progetto plurimo e ambizioso come quello di Anatomia Parallela per comprendere quanto il corpo sia luogo di scambio e di passaggio, un oggetto mitico e rituale attraverso il quale l’esterno e l’interno sono in continuo dialogo osmotico. Superficie e viscere in un solo tango.
La ricerca di Sissi, chiede tempo al tempo, lo sottrae e lo dilata. Le ore passare nei vari studi e atelier è quasi palpabile, tattile e lo si capisce e lo si comprende dalla cura che l’artista rivolge a ogni aspetto della creazione.
A sostegno del dinamismo espressivo dell’artista, in mostra si trovano anche i disegni dal virtuosismo pulsionale, Motivi ossei e Nodo Osseo, nei quali il segno diviene struttura portante di un’interazione sospesa tra lo scientifico e il fantastico, appunto. Nel menù dell’imbandita, la gastronomia barocca, decorativa e opulenta, proposta, si palesa negli eccessi e nella follia di confessioni trasparenti in gelatina.

Il cibo lussureggiante e beffardo, volto a deliziare e soddisfare, a divenire godimento estetico, sia visivo, olfattivo che gustativo, pronto a entrare in corpi sognanti e affamati fa dell’artista una regista famelica e bizzarra in grado di farci condividere sensazioni reali, di connetterci in un gesto antico, laddove oggi, in una realtà sempre più orientata a piaceri inconsistenti, virtuali ed effimeri tutto ciò sembra distante.
Delle performance gastronomiche rimangono anche scatti notevoli (Cene, Aiuola delle delizie), nature morte iperrealiste nelle quali forme, colori, odori e sapori si sovrappongono orgiasticamente e dionisicamente, i quali vengono resi eterni e attraenti, le tavole imbandite distillate in due dimensioni, quelle della superficie fotografica ci proiettano in una fantasia dilatata, eccentrica, fascinosa, malinconicamente decadente, provocante, trasbordante, assordante, ridondante, appartenente a un qui, lontano, a un accadimento consumato in punta di dita.
Così riesco a vedere, e a percepire, l’arte di Sissi, della quale ho potuto apprendere durante i miei anni di studio in Accademia avendola avuta come insegnante, come un’arte in punta di dita, che vibra, che pulsa tra interno ed esterno attraverso un corpo immerso nel più microscopico e incandescente granello di vita.

Federica Fiumelli