Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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martedì 17 gennaio 2017

Richard Nonas. RIVER-RUN

link: http://julietartmagazine.com/it/events/richard-nonas-river-run/




La galleria P420 di Bologna, ospita per la chiusura di questo 2016 la personale dell’artista americano Richard Nonas, classe 1936, dal titolo RIVER-RUN. Richard Nonas ha lavorato come antropologo per una decina di anni studiando sul campo gli Indiani d’America nel Nord Ontario, Canada e continuando la sua pratica etnografica in Messico e in Arizona. A metà degli anni ’60, all’età di 30 anni, ha deciso di dedicarsi alla scultura. La sua esperienza da antropologo ha profondamente influenzato la sua pratica artistica e il suo impegno nel sentire e percepire lo spazio. Attraverso un vocabolario minimalista Nonas ha sviluppato un corpo di lavoro che ha indagato il tema del luogo. Nonas ha esposto in numerosi musei, istituzioni e gallerie in tutto il mondo realizzando installazioni di diverse dimensioni sia da interno che da esterno come le installazioni permanenti nel villaggio abbandonato di Vière et les Moyennes Montagnes,Digne-les-Bains, Francia (2012) e alla Fondazione Ratti (2003-2011).

Un intraducibile istantaneo accadere come suprema sintesi dell’esistenza, quando la parola non basta, allora la forma connette e condivide atmosfere, idee, memorie e sensazioni in un confluire inarrestabile che trae le proprie radici nel dubbio. La scultura compie un gesto antico, primordiale, ragionato e sentito, avvertito, si pone ancestralmente all’inizio di un tutto pronto ogni volta a cessare, per ripetersi, differentemente. Da capo. Se è vero che il minimalismo e l’antropologia hanno regalato gli strumenti della poiesis, è anche vero che Nonas ha saputo disfarsi di correnti, scuole, etichette, conclusioni o appartenenze per librarsi leggero all’originarietà dell’esperienza. Per spogliarsi ogni volta di risposte. Contemporaneamente affermazione e negazione, l’arte di Nonas, ci proietta, ci getta nel dubbio, senza proteggercene. Il dubbio si innesta viralmente nell’occhio di colui che osserva, che come un amante in caduta libera, con la potenza di un fiume in corsa, si ritrova a confrontarsi con l’ambuguità del coito, dell’esperire, dell’accadere, del fluire.

L’arte di Nonas è costruita abilmente da forme e materiali semplici (legno, ferro, pietre) che at-traggono in inganno, la semplicità non è che la componente erotica, seduttiva, che conduce invece ad una più profonda lettura umana, ad una più profonda analisi, ad un più profondo intercalare e declinare l’esperire; perché come sosteneva anche Jung non esiste nulla di più complesso della semplicità. La scultura si fa grammatica di una letteratura intraducibile del visibile ma soprattutto del non visibile. Le forme divengono così punteggiatura, imbevute, tra numerose correnti libere di possibilità, dando ritmo all’essenza così dannatamente sfuggevole e mutevole. E allora spazio all’ambiguità, che viene misurata e resa lirica, per compiersi e fondersi nello scambio osmotico tra arte e vita in luoghi pieni di umana significanza, come racconta lo stesso artista, dal forte impatto emotivo, che urlano di un silenzio profondo, e ci portano nell’abisso della dicotomia dell’essere.

RIVER-RUN è il flusso inarrestabile, il progredire ciclico della vita, l’essere e il cessare, una forza dicotomica indomabile che fluisce nell’incontro tra arte e vita. Dal riferimento colto, preso da un celebre testo di Joyce, RIVER-RUN diviene il senso più intimo e più intraducibile dell’esposizione e della poetica dell’artista, un divenire mutevole che ricorda il panta rei di Eraclito. Nonas differenzia il concetto di spazio da quello di luogo, se il primo viene inteso come proprietà fisica di pura misurazione, il secondo, pieno di significato umano, crea legami e situazioni, connette l’uno all’altro in un antico algoritmo, i places di Nonas sono infatti luoghi di forte impatto emotivo, dove la condivisione e la forza di evocazione sono all’origine del tutto.

RIVER-RUN interpreta la forza dei places, portando con sé molteplici visioni possibili di guardare e osservare il mondo, dove il dubbio e l’ambiguità trovano corpo in materiali crudi, grezzi, pesanti, industriali o naturali, mantenendo forme semplici, e ordinarie.

RIVER-RUN vuole essere un punto privilegiato d’osservazione, tramite il quale la scultura si fa mero strumento critico, dove l’interrogarsi diviene una corsa, un fluire inarrestabile.

La scultura, come ha scritto l’artista in uno dei suoi numerosi scritti, non è che il cuore dell’arte e queste sue affermazioni lo dimostrano: “Sculpture is the place where place is only barely possible. Is it the place where we begin to meet the meaning of culture. (…) Sculpture is that just unreacheable place. Sculpture is the object mark of paradox in our spatial – and special – being.
(…) Sculpture is absence acknowledged through placeness, then re-objectified. Sculpture is the solidified presence of absence, here and now. Sculpture is the hard heart of art. – And that’s quite enough for me.”

Nonas ci lascia attraverso le sue parole un erudito testamento della sua poetica, rientrando così in quella categoria di artisti dalla penna nobile, dal pensiero tagliente, agitatore del dubbio, sia nel silenzio della carta, che nell’immensità della forma, celebrata da un gesto aperto alla pluralità del tempo.

Federica Fiumelli 









 

giovedì 12 maggio 2016

Autoritratto con maschere Piero Manai e Luigi Presicce alla Galleria de' Foscherari di Bologna

http://wsimag.com/it/arte/20229-autoritratto-con-maschere



12 MAG 2016 di FEDERICA FIUMELLI

Tutto ciò che è profondo ama mascherarsi; le cose più profonde odiano l'immagine e la similitudine (Nietzsche)

Maschera come vuole l'etimologia della parola sta a significare persona. La maschera, nella mostra curata da Antonio Grulli alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, diventa luogo autentico di incontro tra tre persone di differenti generazioni.

Il celebre Autoritratto con maschere, 1899, del pittore belga James Ensor diviene l'innesco e il pretesto per un dialogo enigmatico tra Piero Manai e Luigi Presicce, entrambi gli artisti hanno infatti preso come punto di partenza la suddetta opera per alcuni lavori. Si crea così una voce triangolare che trova nell'assimetria geografica e temporale una corrispondenza colta, trasversale, e puntuale, rituale e preziosa.

L'esposizione può essere letta come una riflessione sul corpo, sulla trascendenza, la mancanza e l'enigma imprescindibile che risiede come edera nel profondo substrato dell'esistenza. Lo sguardo pittorico di Presicce e la pittura scultorea di Manai si infrangono l'uno nell'altra in una complessità stratificata che richiama l'essenza e l'arcaicità della materia. È una questione di gesti primordiali, importanti e intrisi di armata e mascherata coscienza.

Come ha affermato in un'intervista lo stesso Presicce "Compiere un gesto è tanto significativo quanto il non compierlo". E ancora: "La fissità è il punto esatto da dove parte o finisce il gesto, l’azione è fatta per chi si annoia, il movimento per chi non ha la pazienza di vedere". L'enigma di Presicce risiede nella bellezza della monumentalità che viene celebrata e ritualizzata con estrema cura nella fissità del tableau vivant. Il sapere dell'artista si denuda e si presenta davanti a noi nella complessità di storie e archetipi che si stratificano con una dignità eloquente.

Presicce performer ci conduce ogni volta in una riflessione sul significato del medium pittorico, e non solo. Enigma è, non a caso, il titolo di due oli su carta intelata di Piero Manai che ben mostrano/dimostrano una delle essenze dell'esposizione. Due corpi frammentati si ergono quasi specularmente per frammenti, e nella mancanza risiede il potere dell'evocazione e la forza del mistero.

Nelle parole di Tilman Osterwold in occasione della mostra monografica dedicata a Manai e tenutasi nel 2005 alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna "Nella gestualità e nella fisionomia degli individui tracciati dall'artista corporeità e sensibilità (percettiva) vivono nell'altalena di incertezza e autoconsapevolezza". E ancora: "I suoi colori monolitici, grigi e terrei riportano a quelli del tedesco Anselm Kiefer e la sua modalità compositiva, formalmente e tematicamente tarata sulla scultura all'italiano Enzo Cucchi; il suo nichilismo pittorico quasi monocromo all'austriaco Arnulf Rainer".

Piero Manai, oltre a interrogarsi sempre sulle logiche e sulle funzionalità della pittura ha indagato la storia dell'arte e i suoi maestri, non a caso "la sua autoconsapevolezza artistica trova un parallelo in Goya, Nolde, Brancusi o Bacon, in Géricault, Van Gogh, Schiele o Rainer, Beuys o Medardo Rosso, Cézanne". L'essere colti e consapevoli ha permesso sia a Manai che a Presicce di potere dialogare indagando la profondità dell'immagine, servendosi dei diversi mezzi artistici per riportarci lì da dove eravamo naufragati, dalla pittura, la più antica maschera artistica.

E se corpo e pittura sono due sottili echi che sembrano rincorrersi negli spazi della de’ Foscherari, nei monoliti di Manai la pittura si fa corpo autentico di una fisicità trascendentale, ha scritto sempre Osterwold "Monolitico è l'effetto della figura umana, ma anche l'immaginazione artistica di Piero Manai. La pittura, il processo pittorico, producono un effetto monolitico: la corrispondenza di colore, di forma, spazio nella struttura aperta dello sfondo, dove vibra la pienezza del vuoto". E ancora "La pittura si aggrappa alla sua forma compatta e monolitica, rinforzando, allo stesso tempo, i suoi labili contorni. Poi, quando le linee di colore sgorgano grondanti dalle pietre, pare disfarsi in una liquida melanconia".

E le pietre sono protagoniste di questo dialogo fatto di rimandi e suggestioni rimbalzanti, le pietre tornano bloccate nell'eternità di un attimo fissato per sempre nella fotografia della performance di Presicce Santo Stefano, i coriandoli, le pietre del 2015, sospese in un clima tra l'arcaico e il grottesco, nella trama fitta ma ben costruita dell'atemporalità liquida che costeggia gli interventi di Presicce.

L'enigma sussurrato da Manai viene ripreso e riflesso nelle sculture di Presicce, come un richiamo, come un appuntamento, o meglio come un accadimento dettato dal fato, Nel costato e Nel nome del padre , nelle quali la figura umana si mostra nel sacrificio del frammento, dell'incompiuto e dell'assenza, della ferita come margine dell'altrove. Nella prima la terracotta, nella seconda ottone, gesso, piume, fimo, acrilico e make up, i materiali non sono che veicoli per una sublimata stasi.

La fotografia è un'altra linea che scorge come guida al dialogo tra i due artisti, in Presicce il lavoro fotografico accompagna sempre la ricerca e lo svolgersi dell'atto performativo diventando a tutti gli effetti sia strumento di indagine che opera, in Manai è altrettanto imprescindibile l'atto fotografico, soprattutto tramite la polaroid che permette un'istantaneità, una fisicità, e un'intimità del tutto particolari. Note, infatti, sono le polaroid di Manai attraverso le quali, alla stregua di Arnulf Rainer o Egon Schiele, l'artista si è autoritratto indagando l'espressione psicofisica intervenendo poi a posteriori con gesti pittorici.

Il gesto si ritrova e si identifica come autoritratto nell'opera magna, e fondamentale per il percorso dell'artista, nelle cinquantasei opere, carboncini su carta intelaiata, Autoritratto con maschera, 1899 del 1980. Una moltitudine centrifuga di volti in nero sono stati concepiti come strumenti di indagine, come elementi monocellulari, i carboncini riconfermano l'interesse di Manai per l'analisi del linguaggio del corpo e della mimesi facciale già visibili nella serie delle polaroid.

Una mostra questa, cardiaca, al limite tra la vibrazione e la cessazione del battito, che indaga con estrema complessità e profondità l'identità della pittura, dell'opera d'arte in se stessa e della figura umana, come elementi di una costellazione ancora da monitorare, che scioglie e lega nell'enigma sia l'assenza che la cura.












mercoledì 5 novembre 2014

Le leggi dell'ospitalità

link: http://wsimag.com/it/arte/11900-le-leggi-dellospitalita

La questione del "fuori"




Pierre Klossowsky ci ha reso eredi di importati insegnamenti culturologici. Inevitabile non ricordare uno dei più importanti anelli filosofici del maître à penser, e cioè il passaggio dallo speculativo allo speculare ovvero la tipica falsificazione che si cela alla base della riproduzione delle immagini nella cultura occidentale. Nel mondo contemporaneo il simulacro sostituisce il principio di realtà, l'individuo non incontra mai un'esperienza autentica, ma riproduzioni di una realtà assente. Vi sono tante copie senza un originale.
Simulacro inteso quindi come trasposizione ed elemento fantasmagorico. Ed è proprio oggetto di simulacro il corpo di Roberta, protestante, atea, attivista radical-socialista e moglie di Ottavio, prete fallito, teologo vizioso, specialista in perversioni, personaggi protagonisti del romanzo triologia klossowskiano, Le leggi dell'ospitalità. Ottavio tenta di gettare ogni uomo che entra in casa tra le braccia della moglie, moltiplicando così per lei le occasioni di "peccato" in maniera di farle riconoscere la legge divina, sfidando il suo pudore e portandola al cedere. Offrendo il corpo della moglie ecco le leggi dell'ospitalità.
Un'ospitalità perversa quella di Klossowsky, che tira in ballo altre speculazioni filosofiche, da Benveniste a Derrida. Se per il primo la pratica dell'ospitalità rientra in parametri economici del dare e avere, è hostis colui che a un dono fa seguire un contro-dono. L'hostis per gli antichi romani non era uno straniero perché gli venivano riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini. Derrida invece rifiuta questa parità reciproca ritenendo che affrontare il tema dell'ospitalità significhi porre una "questione del fuori". In quel fuori assoluto vi è una presenza giuridicamente innominabile. Non ci sono nomi e cognomi, tale ospitalità è assoluta e rompe con l'ospitalità di diritto. Riferendosi a Klossowski, Derrida nota che lo straniero diviene un liberatore, il padrone di casa ostaggio della propria soggettività, solo tramite una presenza estranea può porsi in una condizione di ospite. Il corpo di Roberta viene donato agli ospiti per essere meglio posseduta dal marito, il quale si logora per possederne appunto l'interezza. Gli oltraggi subiti alimentano sdoppiamenti e rovesciamenti, simulacri di una natura che si nasconde. Ottavio incita la sposa a commettere adulterio perché vuole scoprire le vere identità della sposa, pensando di conoscerne solo un'identità apparente, le pluralità di nature si manifestano solo tramite il contatto con lo straniero.
Le leggi dell'ospitalità è il titolo della mostra che ha luogo alla galleria bolognese P420 fino al 15 novembre a cura di Antonio Grulli. Il titolo della mostra ben eredita tutta la complessità che di fatto appartiene alle opere esposte. Sei artisti, una collettiva che giovani e mid career legati per nascita o formazione alla città di Bologna. Una scelta quindi che diventa cerniera e dialogo fra varie generazioni. Eva Marisaldi (1966) e Italo Zuffi (1969) fanno parte delle generazione degli artisti emersi negli anni Novanta, una scena così influente da far parlare Obrist di "miracolo Bologna". La mostra quindi tiene conto di un certo background artistico culturale bolognese che ha visto intellettuali importanti come Daolio, Pozzati, Gianuizzi e l'Alinovi; proprio il pensiero di Francesca, basato sugli studi dell'avanguardia dada, surrealista e situazionista, saranno fondamentali per tutta l'arte e la cultura realizzata a Bologna. Ma anche alcuni luoghi furono determinanti, come la Galleria Neon, l'Accademia, e negli anni novanta il Link, poi lo spazio Raum e l'associazione Xing, all'interno del quale si sono esibiti Riccardo Baruzzi (1976) e Cristian Chironi (1974). La mostra include infine due giovani artiste legate ancora al mondo accademico, come Costanza Candeloro (1990) e Giulia Cenci (1988).
L'esposizione si apre proprio con Alice's Adventures Undreground, del 2014, una serie di nove disegni a matita su carta della Candeloro. Dopo aver studiato all'Accademia di Belle Arti di Bologna sta terminando i suoi studi presso l'Head di Ginevra. Acuta osservatrice dell'immaginario, lo puntella di lucide e interessanti riflessioni. Il lavoro dell'artista si concentra sulla frammentazione e destrutturazione delle forme narrative, dei libri, dei sistemi educativi. Alice's Adventures underground era il titolo originale del manoscritto di Alice's Adventures in Wonderland. Alice da tramite per un fuori, Alice come frammento, come passaggio e come variazione. Poiché le cose in realtà non sono mai come si presentano. Come non ricordare l'esperienza radiofonica di Radio Alice nata sul finire degli anni Settanta. Un fuori che si concretizzò on air. Decisamente poco elementare tra le righe di una pagina di quaderno riecheggia "cattiva maestra televisione". Se l'artista mantiene un segno leggero a matita, sicuramente la forza contenutistica ne fa da contrappunto e rende estremamente speciale e pungente il lavoro della Candeloro. Un contrappeso di elementi espressivi, tra forma e contenuto.
Sempre nella prima sala troviamo anche un lavoro introduttivo ad altri pezzi che troviamo esposti nella seconda sala, un acquerello e succo di mirtillo di Riccardo Baruzzi. Ordine 1, 2, 3 e 4 infatti sono delicati segni e tracce, leggiadri matita e pennarello e gouache su calicot e acrilico su carta. Toccate e fuga nell'istante di una memoria. Lavori a più piani e strati di visione. Le tracce di figure o oggetti si perdono tra semitrasperenze, una prospettiva illusoria e velata. Lo spazio di fondo, sempre che un fondo ci sia, è un salto nel vuoto. E i segni da questo vuoto emergono sul filo, a galla, dal profondo della superficie. Una pittura destrutturata, smontata e scomposta, come una frattura o un gioco di un bambino. C'è in Baruzzi un'analisi delicata ed elegante dell'immagine, quasi evanescente. Nella stessa sala, Eva Marisaldi con Livingrooms, sceglie di esporre un telo dipinto a spray con l'immagine di una sedia da studio psicanalitico, un grande bicchiere, delle statuette, delle piantine in plastica, uno specchio e una foto in cornice. Tutto sospeso in un'atmosfera perturbante. Ci sentiamo come Alice sospesa tra frammenti in procinto di attraversare lo specchio. Folle.
Accanto al lavoro della Marisaldi, Chironi con Broken English: step 3 Connections or set, del 2013. Differenti tappeti poggiati al muro in moto ascensionale, differenti tessuti, saranno distesi uno sopra l'altro invece quelli nell'ultima sala. Il primo tappeto "recita" la scritta WelcomeBroken English: step 3 fa parte di una mostra tenuta al museo MAN, una rizomatica performance in più step. Il termine indica le varianti incerte della lingua inglese, terminologie perlopiú coniate da soggetti non di madrelingua. E' più forte una società che possiede una sola o più lingue? Da questa riflessione è scaturita la mostra Broken English, dove elementi del linguaggio diventano immagini, oggetti, suoni e cose. L'idea portante è sicuramente che non nella purezza bensì nell'intreccio, che sia di lingue, tecniche, mestieri o usanze, si cela la vita. La vera vita. Commistione e contaminazione le "c" di Chironi.
L'ultima sala accoglie altri due lavori della Marisaldi, il video Steadygirl del 1996 ci accoglie con suoni zen, girato all'interno di Palazzo Albergati a Zola Predosa, l'artista visita e penetra il luogo con il proprio corpo-occhio divenuto videocamera. Tra il mistico e il surreale ancora per una volta ci sentiamo Alice. Lo sguardo si perde così tra scalinate, affreschi, sedie, un non-luogo autentico. Fantasmagorico e simulacro mimetico. Coverage del 2014 sono invece progetti per tappeti, stampe su alluminio di immagini prelevate da Google Earth; la Marisaldi dunque adotta una trasposizione flat per tutti quei profili di luoghi. Operazione inversa e opposta invece fa Italo Zuffi con Profilato Villa, se quello che ci appare dinanzi può sembrarci un oggetto di design, non ci fermiamo allo specchio ma lo attraversiamo e troviamo così un rovescio dell'ordinario. Profilato villa non è che la resa tridimensionale di una pianta di un edificio palladiano. Un perfetto estraneamento Carrolliano.
In risposta ai suoni zen di Steadygirl ecco provenire da sette baccelli in ceramica dei fischi. Gli ignari di Zuffi non sanno o meglio non vogliono fischiare in maniera corretta. Straniamento e perturbamento. C'è sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che fugge alla percezione, alla possessione di una totalità, proprio come ci ricordava Klossowsky. "Chiudono" questa visita ermetica e complessa che richiede sicuramente tempo e attenzione, i lavori della giovane Giulia Cenci che ha il merito di aver creato negli ultimi anni uno dei progetti più stimolanti (attualmente in giro) insieme ad altri colleghi dell'Accademia "Interno 4" in cui vengono coinvolti artisti italiani e stranieri nella realizzazione di mostre all'interno della loro abitazione, ma non solo. Un progetto sicuramente in linea con la filosofia del'"ospitalità".
La ricerca della Cenci è prevalentemente scultorea, difatti nei due lavori esposti utilizza materiale che richiede di essere lavorato e maneggiato come poliestere, polvere di marmo e argilla, plastica. In Almost Invisible una sagoma di sedia, che fa da eco anche se in maniera totalmente differente a quella della Marisaldi, è poggiata al muro anch'esso bianco. Un'assenza presente. So untouchable. La Cenci sceglie due interventi estremamente ruvidi, vibranti e leggeri, dei bianchi ombrati dall'invisibilità indivisibile dell'essere. Bombardati come d'uso dalle vorticose e fameliche successioni di immagini senza respiro Le leggi dell'ospitalità ci rende ospiti di un tempo che da troppo tempo non ci concediamo.
Federica Fiumelli












venerdì 14 febbraio 2014

David Casini. Un pensiero in altezza

Ultimo articolo uscito sul Wall Street International Magazine.
Enjoy!
:)

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/le-opere-di-david-casini_20140212110212.html#.Uv5yhWJ5M_c

REPORT - Italy, Arte

Le opere di David Casini

Un pensiero in altezza

Le opere di David Casini

Agrodolce. Un pensiero in altezza, al marmo e miele, frutta candita e ottone, un violino e grandine. Si tratta di soffici ed eleganti dicotomie, ma anche di composizioni alchemiche. Le opere dell’artista David Casini si adagiano su bianchi, cristalli e accostamenti delicati, segreti da schiudere a ogni sguardo per la bellezza complessa alla quale sono legate. Casini, nativo di Montevarchi, può vantare nel frastagliato panorama contemporaneo di una sostanziale artigianalità e manualità, qualità che si sono un po’ perdute a discapito dell’emergere di altre idee e movimenti artistici nel XXI secolo, tecniche e materiali originari di quel cuore aspro e dolce della Toscana custoditi e trattati dall’artista anche a distanza.
Di fondamentale importanza è infatti il periodo trascorso nella sobria Ginevra che determinerà la nascita di nuove idee estetiche portando l’artista a diverse espressioni: da questa terra erediterà le tradizioni rielaborandole e ispirandosi ai paesaggi svizzeri, e riverserà nelle sue opere un maggior impiego di freddezza e luce. Attention del 2003 è un esempio di lavoro nel quale l’artista ha rielaborato una leggenda, il mito dell’eroe svizzero Guglielmo Tell, e lo fa in maniera decisamente personale e interattiva, facendo dialogare due parti di un’unica scena disegnandone una parte sul muro e l’altra (riprendendo una tradizionale tecnica toscana) cucendola su una poltrona di design.

Il periodo che va dal 2003 al 2013 è costellato da varie opere, diverse tra loro con il comune denominatore di un amore crudele, ma romantico come la volontà di ricreare la realtà pur rimanendone legato. Casini osserva e si ispira a un qualcosa che appartiene a tutti ma che puntualmente viene visto e non guardato, lo spazio. Trasfigurare l’ambiente assorbendone, come una carta non sazia di inchiostro, le forme e le peculiarità. Espax, installazione ambientale presentata a Napoli nel 2006, prevede una grossa apertura nel soffitto da cui esce maestosa una forte, azzerante luce bianca rinforzata dall’utilizzo di neon: l’opera in questo caso assume l’aspetto di una soglia, di un passaggio a un altro ambiente, a un altro spazio, a un altro tempo. Questo concetto, di trasformazione e di passaggio, di sospensione, ritornerà sovente nella poetica dell’artista. L’esplorazione di spazi anacronistici e astratti continua in Corruptible matter, un titolo già esplicativo, che volge a sottolineare la materia, la carne e il verbo attraverso cui si esprime quello che ci circonda.

Casini si serve della prospettiva come di una amante, rivolgendosi ai vate del rinascimento italiano, quali Piero della Francesca, l’Alberti e Mantegna; pesca dal passato, dalle radici di una terra e di una cultura e li riinnesta come un regista in ambientazioni cinematografiche futuristiche, in un continuo dialogo tra passato e futuro. Casini è il caos del presente, è quello che accade, che si mischia però in un silenzioso ordine trascendentale che acceca come le nervature di marmo bianche, il tromp l’oeil sulla pavimentazione della galleria ginevrina faro dell’artista, l’Analix Forever. Questa illusione prospettica ci inganna e ci fa cadere nel sorriso beffardo di chi vuole aprire allo sguardo possibilità. Un fuori tempo che ha i suoi battiti, anche se sono caldi come il rumore dei passi nella neve. Ecco ancora dicotomie e ossimori. Casini è anche abile scultore, con propulsione tattile e tridimensionale (anche nella scelta di fili metallici per la cucitura rafforzando il valore di matericità) crea architetture in ceramica riguardando l’architettura anni Venti del futurista italiano Antonio Sant’Elia, e come tacchi, quelle altezze gotiche sono altezze di idee che si gettano in un altrove immaginato, sono slanci che mirano a un ascetismo in continua ascensione.

Ma questa elevazione è pur sempre ancorata a qualcosa, a nuvole di corallo, ed ecco nuovamente il contrasto e la differenza che si fanno presente; il basamento delle sculture in ceramica è infatti di puro corallo. E cosa sono i coralli se non le briciole del cuore della terra? Altra parola chiave nel lavoro di Casini è Krystallos, nonché titolo di una mostra del 2008. Dal greco antico (nuovamente un sguardo alla storia) la parola cristallo rimanda all’acqua ghiacciata per l’eternità dagli dei e conserva in sé quindi un concetto di infinito fermo e deciso, un legame con l’universo. Marmo, cristallo, ceramica, sculture di ghiaccio, quarzi, verticalismi, un’enumerazione materica sofisticata, da leggere per la complessità di stratificazioni alle quali appartengono, quella di Casini è una wunderkammer di ricordi profumati liberati da qualche armadio vintage ma proiettati in visioni che devono ancora accadere, in momenti che non sono stati ancora inventati.

Nel 2009 con l’opera Genera l’artista vince il Talent Prize, un riccio di mare, vetro, quarzo, il titolo del lavoro semanticamente valido, accentua sull’importanza del generare. Quello di Casini, è un simbolismo composto da costruzioni a più livelli, perché l’antico, la biologia, gli oggetti preziosi si mischiano sotto l’immaginazione dell’artista che crea e detta mondi rispettandone le radici e le profondità, generando frozen theatre di antica e futura memoria. Da stilista ridefinisce le fisionomie non trascurandone le essenze.E viene alla mente un passaggio di Calvino, da Le città invisibili:
Guardato il fiume, valicato il passo, l'uomo si trova di fronte tutt'a un tratto la città di Moriana, con le porte d'alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l'uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un diritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.
Un rovescio, e si avrà la faccia nascosta di un qualcosa di altro, perché l’immaginazione ridisegna la realtà. Le opere di Casini sono nascite e morti, racchiuse in container trasparenti, rendono visibile la loro invisibilità perdendosi in uno spazio-tempo congelati. Ma se l’opera d’arte è sempre una ferita e apertura, quelle dell’artista si presentano appunto come riti e porte di passaggio per l’altrove tanto agognato. Rito di passaggio, un caminetto che diviene appunto metafora di un viaggio immaginato per chissà dove, Casini non ha valigie ha solo percorsi sognati.
E sopra al camino, ecco souvenir onirici e surreali che si mischiano tra loro in un cocktail di organico e inorganico, i cubetti di ghiaccio non sono che dicotomie. Altro lavoro interessante, è L’illogica abitudine del 2011 che riflette sulle costruzioni abusive sul Mediterraneo: ed ecco ancora una sfilata di microsistemi, coralli, resina, ferro e vetro, uno skyline di architetture nascenti da coralli, che puntualmente generano, e generano, immaginando, pensieri che plasticamente si traducono in altezze ed esoscheletri architettonici.

Con Back Home del 2012 allo Spazio Morris di Milano, l’artista ha affrontato da vero amante il rapporto tra lo spazio e la vita, e nel mezzo l’arte. Casini infatti ha vissuto fisicamente per alcuni mesi lo spazio della galleria, accarezzandolo, a volte ferendolo, amandolo o prendendosene gioco, ha dialogato e sedotto quell’ambiente. La galleria divenendo lenzuola di un letto disfatto è diventata vita vissuta, vita vera, un laboratorio di creazione e archivio di memoria, stratificazione di odori e pensieri, uno spazio vivo a immaginazione sciolta, disciolta e aperta. Casini torna a casa, riutilizza tutto ciò che è fisicamente suo, nella mente e sulle mani, coniugando il suo gusto tra passato e un futuro da inventare, così specchiere vintage, vernici sintetiche, ottone, spugne marine, coralli si incontrano per dare vita a riflessi di vibranti forme neonate, partorite da visioni immaginate, ma legate all’idea di riflesso, di una riflessione attraverso lo specchio, una ricerca profonda su un’identità reale e antica. Un dejà vu, perché di sicuro da qualche parte si sono già viste, quelle forme si sono già incontrate, e allora sono impronte di attimi vissuti, sono orme e tracce.

Tu non mi conosci sdogana dai cliché delle convinzioni, perché se di primo impatto crediamo di trovarci di fronte a una testa di cinghiale tassedermizzata, beh, ci sbagliamo. Basta ruotargli attorno per rimanere estraniati. La cavità della testa è infatti divenuta una grotta piena di cristalli di quarzo, inganno e preziosità; l’animale e il minerale che innestandosi secondo energiche fantasie diventano qualcosa di altro, mischiandosi non si definiscono, e quella diventa una cavità profonda di pensieri affilati. Come quando fuori piove invece è una poesia plastica, un mash-up visivo, un dj set di oggetti, un’installazione che fa incontrare pietra minerale, un trasformatore, una pompa elettrica, un nebulizzatore, vetro, ferro, plastica, ottone, silicone, legno e acqua. Gli oggetti di Casini si incontrano sempre, non per vanità, ma per coincidenze fortuite, generando sempre qualcosa di altro. Si tratta di microcosmi, e vengono alla mente le poesie di Sanguineti, non a caso la raccolta delle poesie che vanno dal 1951 al 2004 si intitola appunto Mikrokosmos, densa di frammenti e montaggio, ritrovano affinità nei lavori di Casini per le ascendenze matematico-scientifico, sovrapposizioni, universi autonomi, e per l’uso di un linguaggio ben radicato nella realtà materiale.

Tutto sembra funzionare del 2012 ribadisce l’idea di macchine celibi, installazioni da piccolo alchimista, si passa anche dal pensare a un’opera come prodotto di una macchina (da un’artigianalità da cui l’artista era partito) a una concezione di macchina come opera. L’aspetto erotico della macchina inoltre viene correlato ai meccanismi del sesso libero, rappresentato visivamente dai fumi e dai fluidi, immateriali ed evanescenti come il godimento. Casini è un trasformatore, un catalizzatore di energie, un traduttore di fantasie erotiche e non, creando così mondi celibi ma esteticamente fruibili. La questione temporale e quella spaziale emerse si affermano ulteriormente con il titolo dell’opera Momento in cui tutto questo ha uno spazio esposta alla quarta Biennale D’arte Contemporanea a Salonicco.

Le opere di Casini accadono qui e ora, nel caos del presente che si fa spazio, legandosi a un filo di raso al passato e al futuro. Un lavoro estremamente dialogante ed elegante che vede appunto la dicotomia tra artificiale e organico, connettendo il museo archeologico, luogo d’esposizione, alle spugne di mare e ai minerali che leggiadre vibrano esili, ricordando vagamente l’evanescenza appesa e sospesa di Calder oltre alla concezione di aleatorietà. Casini ci riporta a una frase significativa: “Arte torna Arte”, espressione coniata dall’artista Luciano Fabro, un pensiero rivolto all’arte come un continuum che si rinnova e si rigenera traendo forza da se stessa e dalla propria storia, mantenendo come Sanguineti scriveva “Uno sguardo vergine sulla realtà: ecco ciò ch'io chiamo poesia.”

Pubblicato: Mercoledì, 12 Febbraio 2014
Articolo di:  Federica Fiumelli