Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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domenica 21 settembre 2014

Senza perdere tempo, per Ross

My last article on Wall Street International Magazine:

http://wsimag.com/it/arte/10851-senza-perdere-tempo-per-ross

Enjoy!

 :)


Come un pomeriggio d’autunno ma in piena estate, entrare delicatamente tra le increspature dell’atmosfera, bagnata, umida, soffice e particolarmente diversa. Una di quelle giornate guscio che si schiudono per l’alba raffinata che si portano appresso, come un’ombra preziosa e troppo fragile. Una giornata silenziosa ma bella da gridare e da stringersi ancora di più. La sensazione era quella di un cuscino di piume, vere, sottili, e così leggere da volare via con il più timido dei sospiri e così bianche che il latte più liquido sfiorirebbe. Ma queste piume erano libere, la fodera del cuscino non le conteneva più e si sparpagliavano tutte confuse, sempre con molta grazia. Poi un tonfo, attutito, di una chiave rugginosa, ambrata, metallica, ci cade sopra, e scompare tra gli ultimi rumori soffocati, tra il piumato pallido.
We might live like never before
When there's nothing to give
Well how can we ask for more
We might make love in some sacred place
The look on your face is delicate
Così canterebbe malinconico Damien Rice con la sua voce, sospirando lentamente. Adagio. Con un lento crescendo.
E poi il video di Javier Pérez che narra di una ballerina danzante. Una danza che diventa al tempo stesso sforzo e lotta, visto che alle classiche punte sono legati coltelli dalle affilate, spietate e crude lame. Ma lei continua a provare, prova a muoversi, sopra un pianoforte in un teatro semibuio, accoccolato da tiepide e fioche luci. La stessa complessa e difficile danza che ha portato Félix Gonzalez-Torres ad amare la vita, l’amore e il suo compagno Ross, sopra di tutto.
Un incipit, una serie di escursioni estetiche per introdurre “sensorialmente” ciò che il lavoro il Gonzalez-Torres mi ha fin dal primo sguardo regalato. Cresciuto a Porto-Rico, da 1979 si trasferì a New York dove continuò a studiare arte e fotografia. In un post-moderno che trova nella sfera quotidiano-intimistica la propria radice, Gonzalez-Torres ha puntato sempre all’essenza nelle sue installazioni dall’aspetto minimalista.
Pochi materiali, pressoché comuni, quali caramelle, lampadine, fogli di carta, gomme da masticare, predisposti in cumoli, ma anche coppie di orologi, fotografie, grandi cartelloni posizionati in aree urbane.
Come la ballerina del video “En puntas” di Pérez, l’artista portoricano grida ad alta intensità in un silenzio delicato, al dolore, alla malattia, a quella lama spietata che è l’AIDS. La malattia che si portò via Ross e poi lo stesso Félix.
Ma quella lama nel video, lascia segni e tracce incancellabili sul quel pianoforte muto. E l’arte di Gozalez-Torres ne sono la prova, sono il regalo inestimabile che un uomo dall’intensità e dal lirismo vibrante, colonne portanti della sua poetica, ci ha lasciato. Lui stesso affermava: “L’arte è soprattutto un modo per lasciare una traccia della mia esistenza: io ero qui. Ho avuto fame, sono stato tradito, ero felice, ero triste, mi sono innamorato, ho avuto paura, ho avuto tante speranze, ho avuto un’idea, avevo un buon fine, ecco perché faccio arte
E proprio perché lui era ed è vivo nelle sue opere, noi non dobbiamo essere da meno. E per questo tutti i suoi lavori prevedono uno spettatore attivo, che sia lì, che sia presente anch’esso, le sue opere sono destinate a consumarsi, scomparire, ad esaurirsi, proprio come la nostra esistenza.
L’opera che ha acceso letteralmente il mio cuore, attivandomi profondamente, facendomi cadere tra le piume bianche, sordidamente e delicatamente, lasciando un segno dentro di me, una di quelle opere che ti cambiano il modo di guardare, e ti fanno salire il nodo alla gola, sempre in punta di piedi, è sicuramente “Untitled” (portrait of Ross in L.A.) del 1991.
Apparentemente il gioco di un bambino, profondamente diversa. Un’opera che con il suo valore simbolico, si disvela lasciandoci stupiti.
Un cumulo di caramelle colorate, equivalenti al peso dell’amato Ross. Gli spettatori non devono e non possono restare indifferenti, ma devono interagire e far vivere l’opera come se fosse il corpo di Ross in carne ed ossa. Come? Prendendo semplicemente una caramella per farne quello che si vuole, scartarla, mangiarla, spostarla. Ogni cosa è Ross. E noi davanti a quella piccola montagna colorata di caramelle, sappiamo. O meglio riconosciamo, e sapere o riconoscere vuol dire ricordare, perché Félix ci parla dell’amore, dell’amore perso, e dal particolare vola all’universale, perché ognuno di noi ha un cumolo di caramelle lì sul cuore. E quando scartiamo quella caramella, spogliamo un’esperienza comune. L’esperienza dell’aver amato, dell’aver vissuto, dell’essere stato, e siamo lì senza copertura. Siamo nudi. Davanti a tanta semplicità. L’artista non prevede grandi esecuzioni manuali tecniche, prende delle caramelle e ci spoglia. Ma come lo stesso Jung affermava: “La vera difficoltà sta nell’essere semplici.” Semplicità che attenzione, non va assolutamente confusa con la facilità che ammette l’assenza di un processo creativo. Niente da aggiungere, niente orpelli, kitsch o superfluo. L’arte di Félix mira al cuore. Dritto, dritto. Fitto. L’essenza. Ecco. L’assenza vive tramite l’essenza, sempre in ogni lavoro. Mi viene in mente un passo che vede protagonisti Beckett e Giacometti che Paolo Rosa in L”arte fuori di sé” riprende per ricordare quanto sia importante levare per restituire l’invisibile, soprafatti come siamo oggi da una saturazione semiotica continua propinata soprattutto dai mass media e dalle tecnologie.
“Beckett aveva scelto l’albero come unica scenografia del suo primo allestimento parigino di “Aspettando Godot” e ne aveva affidato la realizzazione a Giacometti.“Ci doveva essere un albero. Un albero e la luna. Siamo stati lì tutta la notte, con quell’albero di gesso, a togliere, ad abbassare, a fare i rami più sottili. Non andava mai bene, per nessuno dei due. E uno diceva sempre all’altro:”Forse”. Passa il tempo. Nessuno in sala, o sul palcoscenico, osa fiatare. Quando Giacometti si alza deciso. Attraversa il teatro, sale su un praticabile e guardando da vicino il proprio albero comincia a togliere un rametto dopo l’altro. Ogni tanto si ferma e grida a Beckett seduto laggiù nel buio della platea:
Giacometti – Adesso va meglio no?
Beckett – E’ perfetto. Adesso va proprio bene.
Giacometti – Un momento ancora. Aspetta…e così?
Beckett – Bè, così è perfetto.
Giacometti – Aspetta, ecco.
Quando Giacometti fu soddisfatto, dell’albero era rimasto soltanto l’esile tronco. Dalla platea, dove i due si ritrovarono per fumare insieme, si vedeva un cosa striminzita e storta, una specie di niente della natura che a loro sembrò l’ideale.”
E come non ricordare l’eco cinquecentesco e rinascimentale michelangiolesco, del levare per giungere all’essenza che è già lì, spetta solo all’artista donare all’invisibile forma visibile.
“Neve che conserva l’impronta di un uccello”, con queste parole Jean Cocteau deiniva le sculture di Giacometti. Lo stesso effetto lo lasciano le opere di Félix. Opere che sono esse stesse concetto e simbolo di un durata temporale effimera. Tutte sembra decisamente volto a perire. Ma è proprio questa caducità che freudianamente parlando conduce alla bellezza.
Bellezza che è quindi imperfezione come in “Untitled (perfect lovers)” 1991, due orologi pressoché identici, sono fissati alla parate, sincronizzati e vicini, come una coppia. Improvvisamente uno si fermerà, uno andrà avanti. La solitudine è una condizione imprescindibile. Inevitabilmente qualcosa finirà.
Ogni anno nella giornata mondiale contro l’AIDS viene ripetuta un’installazione, per la prima volta esposta il primo Dicembre 1991 al Williams College Museum of Art, “Untitled” (Placebo), un tappeto argenteo di caramelle disposte in un rettangolo, che piano piano tenderà a dissolversi, perché i passanti potranno portare con sé parte dell’opera, scegliendo di prendere una caramella. Un deposito di lacrime amare, Félix incarta il suo dolore per non dimenticare, e noi diventiamo custodi di un pianto e di uno straziante sofferenza che in questo modo però trova vita e evita l’inerme. Mangiamo una caramella, mastichiamo il dolore. Se non se ne parla, lo si deve almeno manipolare in qualche modo. Una distesa metafisica, una paesaggio della memoria, che acquista valore solo se “calpestata” dallo spettatore, ecco come si presenta l’opera.
L’arte si confonde con la vita, e Gonzàlez-Torres lo fa tramite l’utilizzo di materiali anonimi, ha reso pubblico le proprie battaglie personali, come l’essere immigrato cubano negli USA, l’omosessualità, l’AIDS, ha dimostrato quanto l’amore può generare.
E l’elettricità generata dalle due lampadine usate per l’installazione “Untitled” (March 5th) #2 non è solo fisica ma simbolica. L’immaterialità della luce diventa simbologia della coppia, un elàn vitale dal flusso irregolare e fragile. Il flusso di luce da stabile si protrarrà all’intermittenza e ad un fioco perire. Vi è sempre quindi un attivo dinamismo lirico, sottile, leggero, so delicate..
Un altro lavoro, sempre del 1991 che non può non essere ricordato, è la decisione di far diventare cartellone pubblicitario, una foto intima, preziosa, l’immagine di un letto disfatto, quel letto dove probabilmente si era consumato l’amore con Ross.
Ross che è l’elettricità dei lavori di Félix.
Guardando quella foto ognuno di noi si può riflettere, navigando così a fior di pelle in un torrente di ricordi, che ci riporta alla mente i momenti nei quali esser spettinati, tra quelle lenzuola stropicciate, ci faceva sentire vivi. Si perché quel letto vissuto è l’impronta sulla neve, passeggera ma con un peso specifico sul corpo della memoria di tutti quanti noi.
Ma se non ricorderemo, sicuramente l’arte di Félix fa riflettere sul sottile confine così scivoloso tra arte e vita, tra pubblico e privato.
Félix è un po’ di ognuno di noi. Ross è un po’ di ognuno di noi. Entrambi sono parti di un sentire comune, potente ed intenso. Amplificato. So delicate. So strong.
Rileggo spesso l’intervista che Cattelan fece a Félix per Mousse Magazine, e che concludeva così:
Cattelan: Credi che questa mostra scatenerà molti ricordi nella mente delle persone?
Gonzàlez-Torres: No. La gente semplicemente non ricorda. È come in Casablanca, quando Humphrey Bogart dice: “Molto tempo fa, la notte scorsa.” Le persone non ricordano la notte scorsa.
Cattelan: Allora perché farlo? Per cosa?
Gonzàlez-Torres: (pausa) Onestamente, senza perdere tempo: per Ross.
Così tra le note di “Olsen, Olsen” dei Sigur Rós, scivoliamo via, tra le piume bianche, in un pomeriggio autunnale in piena estate. So delicate.
Federica Fiumelli














venerdì 14 febbraio 2014

David Casini. Un pensiero in altezza

Ultimo articolo uscito sul Wall Street International Magazine.
Enjoy!
:)

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/le-opere-di-david-casini_20140212110212.html#.Uv5yhWJ5M_c

REPORT - Italy, Arte

Le opere di David Casini

Un pensiero in altezza

Le opere di David Casini

Agrodolce. Un pensiero in altezza, al marmo e miele, frutta candita e ottone, un violino e grandine. Si tratta di soffici ed eleganti dicotomie, ma anche di composizioni alchemiche. Le opere dell’artista David Casini si adagiano su bianchi, cristalli e accostamenti delicati, segreti da schiudere a ogni sguardo per la bellezza complessa alla quale sono legate. Casini, nativo di Montevarchi, può vantare nel frastagliato panorama contemporaneo di una sostanziale artigianalità e manualità, qualità che si sono un po’ perdute a discapito dell’emergere di altre idee e movimenti artistici nel XXI secolo, tecniche e materiali originari di quel cuore aspro e dolce della Toscana custoditi e trattati dall’artista anche a distanza.
Di fondamentale importanza è infatti il periodo trascorso nella sobria Ginevra che determinerà la nascita di nuove idee estetiche portando l’artista a diverse espressioni: da questa terra erediterà le tradizioni rielaborandole e ispirandosi ai paesaggi svizzeri, e riverserà nelle sue opere un maggior impiego di freddezza e luce. Attention del 2003 è un esempio di lavoro nel quale l’artista ha rielaborato una leggenda, il mito dell’eroe svizzero Guglielmo Tell, e lo fa in maniera decisamente personale e interattiva, facendo dialogare due parti di un’unica scena disegnandone una parte sul muro e l’altra (riprendendo una tradizionale tecnica toscana) cucendola su una poltrona di design.

Il periodo che va dal 2003 al 2013 è costellato da varie opere, diverse tra loro con il comune denominatore di un amore crudele, ma romantico come la volontà di ricreare la realtà pur rimanendone legato. Casini osserva e si ispira a un qualcosa che appartiene a tutti ma che puntualmente viene visto e non guardato, lo spazio. Trasfigurare l’ambiente assorbendone, come una carta non sazia di inchiostro, le forme e le peculiarità. Espax, installazione ambientale presentata a Napoli nel 2006, prevede una grossa apertura nel soffitto da cui esce maestosa una forte, azzerante luce bianca rinforzata dall’utilizzo di neon: l’opera in questo caso assume l’aspetto di una soglia, di un passaggio a un altro ambiente, a un altro spazio, a un altro tempo. Questo concetto, di trasformazione e di passaggio, di sospensione, ritornerà sovente nella poetica dell’artista. L’esplorazione di spazi anacronistici e astratti continua in Corruptible matter, un titolo già esplicativo, che volge a sottolineare la materia, la carne e il verbo attraverso cui si esprime quello che ci circonda.

Casini si serve della prospettiva come di una amante, rivolgendosi ai vate del rinascimento italiano, quali Piero della Francesca, l’Alberti e Mantegna; pesca dal passato, dalle radici di una terra e di una cultura e li riinnesta come un regista in ambientazioni cinematografiche futuristiche, in un continuo dialogo tra passato e futuro. Casini è il caos del presente, è quello che accade, che si mischia però in un silenzioso ordine trascendentale che acceca come le nervature di marmo bianche, il tromp l’oeil sulla pavimentazione della galleria ginevrina faro dell’artista, l’Analix Forever. Questa illusione prospettica ci inganna e ci fa cadere nel sorriso beffardo di chi vuole aprire allo sguardo possibilità. Un fuori tempo che ha i suoi battiti, anche se sono caldi come il rumore dei passi nella neve. Ecco ancora dicotomie e ossimori. Casini è anche abile scultore, con propulsione tattile e tridimensionale (anche nella scelta di fili metallici per la cucitura rafforzando il valore di matericità) crea architetture in ceramica riguardando l’architettura anni Venti del futurista italiano Antonio Sant’Elia, e come tacchi, quelle altezze gotiche sono altezze di idee che si gettano in un altrove immaginato, sono slanci che mirano a un ascetismo in continua ascensione.

Ma questa elevazione è pur sempre ancorata a qualcosa, a nuvole di corallo, ed ecco nuovamente il contrasto e la differenza che si fanno presente; il basamento delle sculture in ceramica è infatti di puro corallo. E cosa sono i coralli se non le briciole del cuore della terra? Altra parola chiave nel lavoro di Casini è Krystallos, nonché titolo di una mostra del 2008. Dal greco antico (nuovamente un sguardo alla storia) la parola cristallo rimanda all’acqua ghiacciata per l’eternità dagli dei e conserva in sé quindi un concetto di infinito fermo e deciso, un legame con l’universo. Marmo, cristallo, ceramica, sculture di ghiaccio, quarzi, verticalismi, un’enumerazione materica sofisticata, da leggere per la complessità di stratificazioni alle quali appartengono, quella di Casini è una wunderkammer di ricordi profumati liberati da qualche armadio vintage ma proiettati in visioni che devono ancora accadere, in momenti che non sono stati ancora inventati.

Nel 2009 con l’opera Genera l’artista vince il Talent Prize, un riccio di mare, vetro, quarzo, il titolo del lavoro semanticamente valido, accentua sull’importanza del generare. Quello di Casini, è un simbolismo composto da costruzioni a più livelli, perché l’antico, la biologia, gli oggetti preziosi si mischiano sotto l’immaginazione dell’artista che crea e detta mondi rispettandone le radici e le profondità, generando frozen theatre di antica e futura memoria. Da stilista ridefinisce le fisionomie non trascurandone le essenze.E viene alla mente un passaggio di Calvino, da Le città invisibili:
Guardato il fiume, valicato il passo, l'uomo si trova di fronte tutt'a un tratto la città di Moriana, con le porte d'alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l'uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un diritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.
Un rovescio, e si avrà la faccia nascosta di un qualcosa di altro, perché l’immaginazione ridisegna la realtà. Le opere di Casini sono nascite e morti, racchiuse in container trasparenti, rendono visibile la loro invisibilità perdendosi in uno spazio-tempo congelati. Ma se l’opera d’arte è sempre una ferita e apertura, quelle dell’artista si presentano appunto come riti e porte di passaggio per l’altrove tanto agognato. Rito di passaggio, un caminetto che diviene appunto metafora di un viaggio immaginato per chissà dove, Casini non ha valigie ha solo percorsi sognati.
E sopra al camino, ecco souvenir onirici e surreali che si mischiano tra loro in un cocktail di organico e inorganico, i cubetti di ghiaccio non sono che dicotomie. Altro lavoro interessante, è L’illogica abitudine del 2011 che riflette sulle costruzioni abusive sul Mediterraneo: ed ecco ancora una sfilata di microsistemi, coralli, resina, ferro e vetro, uno skyline di architetture nascenti da coralli, che puntualmente generano, e generano, immaginando, pensieri che plasticamente si traducono in altezze ed esoscheletri architettonici.

Con Back Home del 2012 allo Spazio Morris di Milano, l’artista ha affrontato da vero amante il rapporto tra lo spazio e la vita, e nel mezzo l’arte. Casini infatti ha vissuto fisicamente per alcuni mesi lo spazio della galleria, accarezzandolo, a volte ferendolo, amandolo o prendendosene gioco, ha dialogato e sedotto quell’ambiente. La galleria divenendo lenzuola di un letto disfatto è diventata vita vissuta, vita vera, un laboratorio di creazione e archivio di memoria, stratificazione di odori e pensieri, uno spazio vivo a immaginazione sciolta, disciolta e aperta. Casini torna a casa, riutilizza tutto ciò che è fisicamente suo, nella mente e sulle mani, coniugando il suo gusto tra passato e un futuro da inventare, così specchiere vintage, vernici sintetiche, ottone, spugne marine, coralli si incontrano per dare vita a riflessi di vibranti forme neonate, partorite da visioni immaginate, ma legate all’idea di riflesso, di una riflessione attraverso lo specchio, una ricerca profonda su un’identità reale e antica. Un dejà vu, perché di sicuro da qualche parte si sono già viste, quelle forme si sono già incontrate, e allora sono impronte di attimi vissuti, sono orme e tracce.

Tu non mi conosci sdogana dai cliché delle convinzioni, perché se di primo impatto crediamo di trovarci di fronte a una testa di cinghiale tassedermizzata, beh, ci sbagliamo. Basta ruotargli attorno per rimanere estraniati. La cavità della testa è infatti divenuta una grotta piena di cristalli di quarzo, inganno e preziosità; l’animale e il minerale che innestandosi secondo energiche fantasie diventano qualcosa di altro, mischiandosi non si definiscono, e quella diventa una cavità profonda di pensieri affilati. Come quando fuori piove invece è una poesia plastica, un mash-up visivo, un dj set di oggetti, un’installazione che fa incontrare pietra minerale, un trasformatore, una pompa elettrica, un nebulizzatore, vetro, ferro, plastica, ottone, silicone, legno e acqua. Gli oggetti di Casini si incontrano sempre, non per vanità, ma per coincidenze fortuite, generando sempre qualcosa di altro. Si tratta di microcosmi, e vengono alla mente le poesie di Sanguineti, non a caso la raccolta delle poesie che vanno dal 1951 al 2004 si intitola appunto Mikrokosmos, densa di frammenti e montaggio, ritrovano affinità nei lavori di Casini per le ascendenze matematico-scientifico, sovrapposizioni, universi autonomi, e per l’uso di un linguaggio ben radicato nella realtà materiale.

Tutto sembra funzionare del 2012 ribadisce l’idea di macchine celibi, installazioni da piccolo alchimista, si passa anche dal pensare a un’opera come prodotto di una macchina (da un’artigianalità da cui l’artista era partito) a una concezione di macchina come opera. L’aspetto erotico della macchina inoltre viene correlato ai meccanismi del sesso libero, rappresentato visivamente dai fumi e dai fluidi, immateriali ed evanescenti come il godimento. Casini è un trasformatore, un catalizzatore di energie, un traduttore di fantasie erotiche e non, creando così mondi celibi ma esteticamente fruibili. La questione temporale e quella spaziale emerse si affermano ulteriormente con il titolo dell’opera Momento in cui tutto questo ha uno spazio esposta alla quarta Biennale D’arte Contemporanea a Salonicco.

Le opere di Casini accadono qui e ora, nel caos del presente che si fa spazio, legandosi a un filo di raso al passato e al futuro. Un lavoro estremamente dialogante ed elegante che vede appunto la dicotomia tra artificiale e organico, connettendo il museo archeologico, luogo d’esposizione, alle spugne di mare e ai minerali che leggiadre vibrano esili, ricordando vagamente l’evanescenza appesa e sospesa di Calder oltre alla concezione di aleatorietà. Casini ci riporta a una frase significativa: “Arte torna Arte”, espressione coniata dall’artista Luciano Fabro, un pensiero rivolto all’arte come un continuum che si rinnova e si rigenera traendo forza da se stessa e dalla propria storia, mantenendo come Sanguineti scriveva “Uno sguardo vergine sulla realtà: ecco ciò ch'io chiamo poesia.”

Pubblicato: Mercoledì, 12 Febbraio 2014
Articolo di:  Federica Fiumelli