Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

venerdì 27 settembre 2013

Yue Minjun, l'homme qui rit. Sull'oscenità dei denti.

New day today. 
New article on Wall Street International Magazine.

Link:
http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/yue-minjun-l-homme-qui-rit_20130927102650.html#.UkWnItI9OSo



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REPORT -  Arte

Yue Minjun, l'homme qui rit

Sull'oscenità dei denti.

Yue Minjun, l'homme qui rit
Yue Minjun, The Sun, 2000

Il riso dei re somiglia al riso degli dèi: contiene sempre una punta di crudeltà.

Chi non ricorda nell’immaginario cinematografico l’irresistibile ghigno scolpito sulla pellicola in bianco e nero del 1928 di Conrad Veidt, nel film diretto dal regista espressionista Paul Leni? Veidt interpretò Gwynplaine, il protagonista del romanzo L’homme qui rit di Victor Hugo, romanzo pubblicato nel 1869, ambientato nell’Inghilterra del Settecento. Gwynplaine rappresenta la maschera comico-tragica dell’uomo intrappolato in se stesso, costretto a mostrarsi felice nonostante la disperazione interiore indotta da una società che deforma intelligenza e ragione. I personaggi di quadri e sculture dell’artista contemporaneo cinese Yue Mijun sono perfette trasposizioni plastiche e pittoriche dello stereotipo Gwynplaine.

Minjun vive e lavora a Pechino,, è nato sotto la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong. Lo scorso marzo è stato protagonista della prima ontologica europea, L’ombre du Fou Rire, alla Fondation Cartier di Parigi, il sorriso folle che imprime nelle sue tele sta ormai attraversando il globo, come un marchio di fabbrica riconoscibile di una follia degenerata e degenerante. Un sorriso osceno e grottesco, ostentato e ossessivo.

L’artista che spesso viene associato al movimento artistico cinese di fine anni '80, il realismo cinico, affermò di essersi ispirato ai contadini delle tele realiste, che nonostante e a dispetto di tutto sono sempre sorridenti. Allora ridere per non piangere, perché alla fine non ci resta che ridere?

Sistema troppo sistematico, censure, società plasmate, tutto scivola sotto l’ombra, sotto il ghigno gigante e riproducibile all’infinito di Yue. Una sorta di Andy made in China, partorisce pop smile come una catena di montaggio. Sorrisi come se piovesse, le lacrime retrocedono ai sorrisi impietosi. Un ghigno liberatorio contro ogni sorta di oppressione e repressione, una scarica emotiva plastica anche davanti a un possibile plotone di esecuzione.

Ed ecco anche qualche retaggio della storia dell’arte europea, il sol levante si ispira e si ripete differentemente come nella tela del 1995 The Execution. Una reinterpretazione del Tres de Mayo di Goya, reinterpretato anche da Manet e Picasso. Quattro uomini in mutande dalla fisicità plastica ridono tra loro, piegando i volti, le ombre come pozze di inchiostro giacciono sottostanti, davanti ai giustiziati altri quattro uomini, uno dei quali impugna un’arma invisibile. L’ironia sulla giustizia ha la meglio.

Il sorriso letale è lama tagliente, è insieme antibiotico e virus, risa allucinate e allucinanti, patologiche, in grado di moltiplicarsi all’infinito come i pois della Kusama. Great Joy del 1993, un esercito di uomini in tenuta grigia che ridono, ridono e ridono, sembra quasi di sentirli, al loro cospetto anche il celebre esercito di terracotta impallidirebbe. Sky del 1997 vede protagonisti sei uomini in mutande, muscolatura smaltata, incarnato color cipria, eccoli volare tra le nuvole cavalcando uccelli. Ridono a crepapelle nel blu dipinto di blu, ma felici di stare lassù? La risata diventa difesa, trascende ad armatura, paresi facciale di una disperazione profonda.

The sun del 2000: questa volta la risata è di profilo, la maggioranza si schiera come in una propaganda per il sol levante, faccioni ipertrofici, corpi sregolati e sproporzionati sono mostriciattoli buffi, pupazzi generati, geneticamente modificati, pronti a divertire, sottoposti a raffinata arte chirurgico-plastica, sembrano creati dai comprachicos di Hugo. Water del 1998 e Memory del 2000, enormi volti spalancano la loro bocca in riso, come palchi di teatri anonimi le bocche mostrano le tenebre dello show. Come tazze, cervelli che si sostituiscono ad acque di mari tropicali dove un uomo nuota allegramente, oppure ecco che la memoria si scompone in palloncini o bolle colorate, i ricordi sono scansioni leggere che tendono a volare alto.

“Sorrisi telematici. Visi serrati in occhi strizzati, amplificati e nulli. Viso esposto ed oscenato in una D dentaria. D bocca che si mostra come soglia tra visibile e dietro le quinte della scena del corpo.” E ancora: “A partire dalla bocca, spazio architettonico originario per eccellenza, saletta corporea celata e lampeggiante, si pare una riflessione sull’osceno attraverso un sorriso che si mostra come identificazione.” Queste righe sono estratte dalla descrizione delle performance (scritture e monoscritture retiniche sull’oscenità dei denti :D) create dal Collettivo Cinetico, fondato nel 2007 da Francesca Pennini, che attraverso la danza e le performance intrecciano arte visiva e teatro, discutendo sui meccanismi dell’evento performativo stesso.

Nelle performance sull’oscenità dei denti si propone così il tema centrale dell’arte di Minjun, l’osceno che danza tra una risata e l’altra, ridicolizzato il malessere rimane solo il bianco sgargiante dei denti, ghigni forzati e ossei, tirati e distanti da una qualsiasi emotività. Espressioni meccanomorfe che si traducono in smorfie pop. Un sorriso che si mostra dunque come identificazione di un malessere condiviso,quello di Minjun. E se i ritmi che la società ci propina sono disumani e spersonalizzanti non ci resta che combattere quest’angoscia con un paralizzante sorriso-risata-smorfia, magari meno cinico di quello di Minjun ma ricordando quello più poetico e sognante dello “Smile” firmato Chaplin.


Pubblicato: Venerdì, 27 Settembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli















giovedì 12 settembre 2013

Valerie Hegarty. D come Distruzione. Quando la vita sprofonda nell'aldiquà.

Ecco il mio ultimo articolo sull'artista newyorkese 
Valerie Hegarty pubblicato sul Wall Street International Magazine.

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/valerie-hegarty-d-come-distruzione_20130912061238.html#.UjHLktI9OSo



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REPORT - United States, Arte

Valerie Hegarty. D come Distruzione

Quando la vita sprofonda nell'aldiquà.

Valerie Hegarty. D come Distruzione

“…et jette dans mes yeux pleins de confusion
des vêtements souillés, des blessures ouvertes,
et l’appareil sanglant de la Destruction!” (Baudelaire, “La Destruction”, Le Fleurs du Mal)

Valerie Hegarty è un’artista contemporanea che vive e lavora a New York, molti dei suoi lavori infatti si possono trovare alla Nicelle Beauchene Gallery. Lo scorso 17 maggio si è inaugurata al Brooklyn Museum con durata fino al 1 dicembre 2013 “Alternative Histories”, una mostra comprendente alcuni lavori dell’artista, in particolare opere site-specific con temi come la colonizzazione, e altre fasi storiche dove la repressione è stata dominante. La produzione artistica della Hegarty va dal 2002 a oggi e le sue opere colpiscono fin dal primo sguardo, non passano inosservate. La componente dominante della Hegarty è la D di Distruzione. Come Pete Townshend, leader degli Who che nel 1967 distrusse la sua chitarra sul palco, o come Paul Simonon nella famigerata copertina di London Calling del 1979 dei The Clash.

Distruggere.
Nei suoi lavori l’arte esce nella vita, o la vita esce dall’arte, è tutto un uscire, un fuori-uscire dalla tela che non contiene più, la bidimensionalità viene lacerata, Fontana rules. La tela non contiene più i peccati della pittura, la cornice non ci sta più a fare da deittico, ma sembra urlarci sordamente: anche io vivo! Anche io sono qua! Tutto strabocca, irrompe, evade, esplode. Tutto è corroso, corrosivo, sciolto, disciolto, sotto l’acido della memoria, come nei ritratti splat-splash di Washington. Nulla si salva, tutto è naufragio, incendio, devastazione, degenerazione. Il confine tra bio e artificio si fa sottile e armonioso, come in Autumn on the Hudson Valley with Branches del 2009, ecco un quadro innevato, sommerso da un manto soffice e ghiacciato di neve pallida ma non esanime, raffigurante un paesaggio, i buchi sulla tela sono diventati spazi vuoti di infinito, di aria ineffabile, ed ecco, che dall’esoscheletro del quadro spuntano rami, la realtà è un proseguo della pittura e si fa carne, vita.

Questi rami che sono abbracci spezzati da una struggente malinconia invernale. I lavori della Hegarty sono estremamente tattili, ricordano tanto il polimaterismo futurista, e il connubio di primordio più oggetto di impronta new dada, con la scarica pittorica alla Rauschenberg, come non ricordare Bed del 1955? O Canyon del 1959? Anche alla Hegarty piacciono i volatili e se Rauschenberg usò un’aquila, Valerie riprende i corvi alla Hitchcock sempre in preda alle still life, a nature morte, a frutti abbandonati su tavole fantasmagoriche. Ci sono anche picchi molesti, che tarlano quadri e cornici per lasciare furiosi e detestabili tracce di sé come in First Harvest in the Wilderness with Woodpecker del 2011. Colla, sabbia, fili, piume, plexiglas, schiua, vernici, poster, acquerelli, acrilici, carta, gel, nastri, un’enumerazione materica inglobante ed esplosiva, iridescente e distruttiva.

Watermelon tongue del 2012 vede protagonista un’enorme, famelica, esorbitante, lingua prendere vita da una fetta di anguria, il trompe l’oeil, il cetriolo di crivelli è solo un lontano ricordo. La tela non assorbe più. La materia è un incidente con la vita. Il velo di maya si è rotto. Con questo lavoro la Hegarty critica e contestualizza il fenomeno delle colture truccate di angurie in Cina, dove sopra ai frutti vengono spruzzati certi tipi di ormoni per velocizzarne e aumentarne la crescita soprattutto all’interno. Di impatto visivo e tattile anche Exploding Peaches (Whit frame) del 2012, le famose nature morte seicentesche prendono forma nello spazio tridimensionale, le pesche sono vittime di esplosioni convulse, suadenti, incontenibili, ormonali, le varietà cromatiche dal giallo tenue al rosso sangue sono sfumature di una vita fucilata.

A proposito delle nature morte, viene in mente un capitolo di un saggio di semiotica curato da Lucia Corrain e Paolo Fabbri, citando Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore: “... Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle nature morte”.

E qui non solo la vita è profonda, ma sprofonda nell’aldiquà, invadendo la nostra dimensione. Il quadro respira, i soggetti anche, esso soffre, essi soffrono, sembra quasi ricordare il Ritratto di Dorian Gray, la tela mostra il marcio, ce lo riconsegna, siamo testimoni di uno sfiorire di eterna bellezza. Una pittura bruciata, disciolta, liquefatta, un incendio irrazionale e stravolgente, in Headless George Washington with table (Marlborough Installation) del 2012 la Hegarty propone un cambio di storia, una virata tra le pagine dell’American History. L’installazione raffigura il celebre ritratto di Washington, una versione che fu salvata da un incendio della Casa Bianca del 1812, ma qui si presenta la storia parallela, quella che alle fiamme non si salva.

Lo scontro è anche tra astrazione e raffigurazione, tra caos e compostezza logica, i flussi pittorici sono cordoni ombelicali solitari, viscere filacciose e pendolanti, virus a piede libero. Autumn on the Wissahickon with Tree del 2010, vede come soggetto un quadro di un paesaggio, distrutto, dilaniato, da crepe e colori furiosi, grondanti, straripanti, e attorno proprio come un’epidemia, un virus infernale, ammala il muro ospitante, crepandolo, contorcendolo, quasi abbattendolo come una foglia morta.

La Hegarty cristallizza l’attimo del terremoto, dell’inondazione, dell’incendio, della furia, del ciclone, della catastrofe. Ma la Hegarty è anche quella specie di miracolo, quel filo dell’erba che cresce attraverso la crepa del cemento, perché dalla ceneri si può sempre risorgere. E’ dal caos che nasce il nulla che è tutto. Una valchiria di materia, è l’eco, un ruggito di un Wagner trionfante, è la creazione della distruzione, o sarà la distruzione della creazione?
Pubblicato: Giovedì, 12 Settembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli














lunedì 9 settembre 2013

Un uomo, un artista, un amico...EMILIO VAVARELLA

Ecco l'ultimo articolo pubblicato per il nuovo numero di Frattura Scomposta.
(www.fratturascomposta.it)

Enjoy!

:)



EMILIO VAVARELLA

Dicono che i giorni speciali nella vita di una persona sono pressoché pochi, qualche anno fa, durante le lezioni di Estetica al Dams di Bologna mi capitò un incontro molto speciale, tra le prime file dell’aula, a pochi posti dal mio, scorsi un essere silenzioso, dai lineamenti particolari, come i pupi siciliani..
Mi ricordo ancora i fitti capelli neri color inchiostro e i contrastanti occhi chiari, profondi, cristallini come il mare di Sicilia. Quella Sicilia che Emilio Vavarella pur essendo un artista, un uomo, un vero cittadino del mondo dall’anima cosmopolita e arcobaleno, porta sempre nel cuore. Un cuore esploratore, un nomadismo intellettuale.
Ed è Emilio Vavarella il nome che dovete segnarvi su qualche post-it che magari avete sottomano, perché è un nome che merita particolare attenzione per lo straordinario e interessante lavoro che svolge. Un artista che continua ad arricchirmi di opera in opera, che non smette di stupire, che pone accenti su situazioni contemporanee, che ama il proprio lavoro trasudante di passione, studio, fatica e curiosità. Quella curiosità che insieme al rifiuto e all’innovazione sono alla base di una resistenza intellettuale, tanto cara a Foucault come allo stesso Vavarella.
Conoscerlo è stato un vero dono ed è per questo che ritengo giusto scrivere sulla sua poetica, una poetica che ci introduce sui sistemi di potere e sulle potenzialità e non dei new media art.
Nato a Monfalcone nel 1989, il giovanissimo artista nello statement sul proprio sito Internet (che consiglio vivamente di guardare) www.emiliovavarella.com, spiega come per il suo lavoro siano stati fondamentali gli studi sull’arte concettuale, digitale, sulla network culture e le pratiche riguardanti i new media.
Laureato con il massimo dei voti al Dams Arti Visive di Bologna, sta conseguendo la specialistica allo IUAV di Venezia con una tesi magistrale su “Errore e Metamorfosi nella New Media Art”.
“La mia filosofia si basa particolarmente su una sorta di equilibrio tra resistenza al Potere, attività online ed offline, finalizzata ad una produzione artistica capace di generare strategie di resistenza intellettuale.” Afferma l’artista.
Le costruzioni di resistenza intellettuale non sono che mediazioni di relazioni, e senza relazione non vi può essere alcuna forma di Potere. E’ quindi questo di cui si occupa l’artista Vavarella.
Ma in che modo? In cosa consistono i suoi lavori?
Con un particolare interesse all’estetica derivante dell’errore dei new media e con particolare attenzione a un’arte di tipo relazionale, interattiva per il fruitore, l’artista ci ha regalato opere come Ritratto condiviso, The Shape of informations when nobody’s lookig, Concert for strings, The Google Trilogy, The Sicilian Family, Digital Pareidolia, The Money Complex, e l’installazione di Ponte Pirata.
Un bravo semiotico, semantico camaleontico, attento agli aspetti, all’estetica, al funzionamento del virtuale-digitale, tra strutture e significati, Emilio ci introduce nel mondo che annusiamo tutti i giorni ma che non guardiamo con le dovute misure e curiosità.
Vavarella, una saggia guida del contemporaneo. Quindi lasciamoci prendere per mano per questi paesaggi virtuali, ed ecco come l’artista presenta i lavori prima menzionati su www.emiliovavarella.com.
“Ritratto Codiviso” del 2010-2011 prende avvio da un mio ritratto fotografico realizzato dall’artista statunitense Barbara Ganley, e si sviluppa seguendo una serie di domande sulle strategie di visibilità ricercate dagli artisti e sulle possibilità di relazione ed aggregazione offerte dalla rete. Ho chiesto a sessantaquattro persone di realizzare qualcosa di creativo sopra un enigmatico tassello fotografico di 10×10 cm che avevo ritagliato dalla foto. Nessuno di loro conosceva il soggetto da cui il tassello era stato ritagliato. Sessantaquattro microstorie alla ricerca di visibilità si sono avvicinate fino a ricomporre il ritratto.
“The Shape of informations when nobody’s looking” La forma delle informazioni quando nessuno le guarda è il titolo di una ricerca iniziata nel 2010 sulle possibili modalità di visualizzazione alternativa di informazioni astratte (stringhe numeriche, racconti, brani musicali, ecc…). Questo studio ha portato alla realizzazione di 50 dittici fotografici, alcuni sondaggi e due software: Color Count e Guardaflussi.
Color Count è basato sul sistema multipiattaforma Adobe Air e permette di visualizzare stringhe di numeri crescenti o casuali sotto forma di caselle colorate. L’elemento di partenza è una griglia numerica in cui ogni casella contiene solo una cifra. Attraverso l’interfaccia del software è possibile scegliere quale colore verrà associato a ciascuna cifra; quindi ogni cifra verrà sistematicamente sostituita da una casella del colore indicato.


Guardaflussi fotografa un processo informatico in atto, fornendo un’immagine dei dati prima che essi acquisiscano sul monitor la loro forma finale. Ho processato la mia collezione di mp3 ed eBook ottenendo immagini particolari: in questo teletrasporto cangiante mi resta solo l’illusione del controllo. Non ho possibilità di verifica sul processo.


Concert for strings, installazione e performance di massa del 2012, rimane uno dei lavori dell’artista che più mi hanno colpita. Parte dei progetti relazionali di Emilio, Concert for strings indaga la manipolazione del comportamento tramite l’architettura.
L’artista infatti scrive:
Chi stabilisce le grandi architetture è spesso ben consapevole dell’effetto che avranno su chi le vivrà, ma al contrario chi le vive è spesso ignaro di una influenza sul proprio comportamento. Ho realizzato una tenda che segna l’ingresso dell’Università Iuav di Venezia, un luogo che ha ospitato dal 1602 ad oggi anche il potere ecclesiastico e militare. I fili della tenda si agganciano a chiunque passi attraverso di essa, segnando in una performance di massa la traccia del movimento di ciascuno all’interno dello spazio, mappandone il comportamento, contrapponendo al tempo stesso la caoticità del movimento umano alla staticità architettonica.


Perché l’artista deve creare forme di resistenza intellettuali accessibili a tutti e non elitarie.
The Google Trilogy comprende i seguenti lavori: Report a Problem, Michele’s story e The Driver and the Cameras.
L’artista li descrive:
La serie di 100 immagini digitali Report a problem è la prima parte del progetto The Google Trilogy, che si focalizza sulla relazione tra umani, potere ed errore tecologico. “Report a Problem” è il messaggio che compare in basso nella schermata di Google Street View, e che permette di segnalare all’azienda un problema di qualche tipo nella visualizzazione del luogo che si sta virtualmente visitando: censure mancate, colori sbagliati, incongruenze, apparizioni casuali. Ho viaggiato su Google Street View fotografando sul monitor tutti i “paesaggi sbagliati” che ho incontrato, prima che altri utenti riportassero il problema inducendo l’azienda ad aggiustare il paesaggio sostituendo le foto errate. Paesaggi comuni vengono trasformati dagli inaspettati errori tecnici di Google in qualcos’altro.


Per quanto riguarda Michele’s story, Google Street View offre un immenso archivio pubblico di immagini panoptiche, frutto di un’attività sistematica che ha meccanicamente registrato stralci di vita evitando qualsiasi contatto umano con i soggetti fotografati. Ho iniziato a lavorare su alcune di queste foto insieme a Michele, un uomo che nel 2007 è rimasto quasi completamente paralizzato in seguito ad un incidente automobilistico ed ha conseguito danni alla propria memoria. La collezione di cento fotografie che ne è risultata è composta da particolari presi da Google Street View e tenta di ricostruire un singolo percorso umano recuperando stralci di vita collettiva, rubata e disumanizzata.


E infine The Driver and the cameras, Ogni auto di Google Street View è equipaggiata con una fotocamera Dodeca 2360 dotata di undici obiettivi, capace di fotografare a trecentosessanta gradi. Successivamente le foto vengono assemblate creando una visione stereoscopica, ed un algoritmo elaborato da Google offusca automaticamente i visi delle persone che vi compaiono, per tutelarne la privacy. A volte però qualcosa non funziona, e alcuni volti sfuggono all’algoritmo offuscatore. Per realizzare questa serie di undici ritratti fotografici sono andato alla ricerca dei volti degli autisti delle Google Cars. L’autista è una sorta di fantasma del potere, compare dove non dovrebbe essere e la sua presenza è sfuggita alla censura. Il suo viso è l’apparizione di uno sbaglio ed allo stesso tempo mostra il lato umano, e forse i limiti, del potere tecnologico.
Abbiamo quindi con questo lavoro la trasformazione in immagine dell’errore tecnologico, sottolineando il rapporto tra l’uomo e la manipolazione invisibile del potere.


“The Sicilian Family” è l’opera che preferisco, qui l’artista ha saputo mescolare passato, tradizione, memoria, con la tecnologia, il virtuale, il digitale, coniugando anime diverse, inventando un modo per innestare, trapiantare la propria memoria dentro il codice della fotografia, modificandone l’essenza in maniera casuale.
Un’epifanizzazione del virtuale tra ricordi e un’estetica tecno.
Questa installazione è composta da 44 elaborazioni digitali di vecchie foto analogiche appartenenti alla mia famiglia, molte delle quali ritraggono dei miei parenti che sono morti prima della mia nascita. Inizialmente ho deciso di scansionare ciascuna immagine per preservarne la memoria dal deterioramento. Ho poi deciso di aprire ogni fotografia con il Notepad, provando a visualizzarla come testo. I pixel di cui era composta venivano così trasformati in codice alfanumerico ASCII. Tale codice è una sequenza non intelligibile di caratteri che contiene tutte le informazioni necessarie a ricreare l’immagine attraverso un software di visualizzazione. Utilizzando Notepad ho scritto un mio racconto all’interno della sequenza ASCII; basato su ciò che sono venuto a sapere della persona ritratta. Il testo è in parte la memoria che mi è stata tramandata e in parte ne è la mia interpretazione. Ho nuova-mente salvato il testo modificato in formato JPG, forzandolo a ridivenire una immagine. Questo impone alle mie memorie di convivere con l’immagine in modo imprevedibile, creando qualcosa di diverso.



“Digital Pareidolia – A personal index of Facebook’s erroneous portraits”
Durante l’operazione di photo-upload Facebook utilizza la propria tecnologia di riconoscimento facciale per suggerire all’utente il nome delle persone presenti nelle foto, creando un database che associa immagini e dati personali. La stessa tecnologia viene usata nella videosorveglianza allo scopo di collegare automaticamente l’immagine di un volto all’identità di un soggetto (attraverso l’uso dei dati biometrici). L’insieme di tecnologie di riconoscimento facciale, social-networks e database informatici conduce alla figura della digital persona, la quale sfugge spesso al controllo e alla conoscenza della persona fisica e la cui influenza non è limitata ad una esistenza elettronica. Nell’arco di quattro mesi ho caricato sul mio profilo Facebook tutte le foto del mio archivio personale, 30.000 files acquisiti dal 2005 ad oggi. Questo è l’equivalente delle foto che mediamente nel mondo vengono caricate su Facebook ogni dieci secondi. Ho poi passato in rassegna ciascun suggerimento di riconoscimento facciale elaborato da Facebook, andando in cerca di possibili errori nel funzionamento della tecnologia usata dal social-network. Per 193 volte Facebook ha riconosciuto il volto di una persona lì dove non ve n’era uno (quindi globalmente in media ad ogni secondo il riconoscimento facciale non funziona 19 volte). Come se Facebook non fosse immune al fenomeno psicologico della pareidolia: l’ossessivo riconoscimento di facce umane in oggetti comuni che pare sia geneticamente legato alla sopravvivenza della specie in situazioni di minaccia. Al posto di un viso veniva evidenziato qualcosa di apparentemente casuale e banale: come una stoffa, una mano, una roccia o una pianta. Ho infine realizzato un grande grafico ed un indice che analizza e organizza tutti gli errori in un sistema coerente.

Ecco anche in questo lavoro tornare la questione dell’errore nel tecnologico.
“The money complex”, Quest’opera esplora la relazione tra potere e denaro in un contesto virtuale. Ho realizzato un complesso sistema che evidenzia i processi nascosti tramite cui il Potere crea valore e denaro tramite l’uso di immagini e simboli. Quante opere d’arte – dai dipinti all’architettura – sono usate per associare al denaro parte del sistema di valori proprio dell’arte? Quanti Paesi hanno bisogno di appropriarsi di immagini artistiche per formulare la propria identità nazionale? E qual’è la risposta dell’arte a tutto questo? Nella realizzazione dell’opera mi sono focalizzato su connessioni casuali e irrazionali, usando analisi economiche tanto quanto interpretazione personali. Il risultato è un’immagine del mondo che si sovrappone ad un intricato sistema di connessioni e permette di formulare nuove idee tramite libere associazioni.
Recentissima installazione site specific, quella di “Ponte Pirata”, altra importante opera di arte relazionale.


Ponte Pirata è un’installazione site specific composta da un assemblaggio di migliaia di fotografie di opere d’arte realizzate dagli artisti che si trovano in cima al sistema dell’arte contemporanea. Chiunque poteva appropriarsi di una o più foto durante la Festa, trasformando l’installazione fino alla sua scomparsa.Ogni foto di cui ci si è appropriati è divenuta parte di un regalo collettivo e diffuso. L’opera intende coniugare idee di relazionalità “classica” con modalità del fare derivate dalle pratiche virtuali contemporanee, come pirateria informatica e free sharing.


Un uomo, un artista attento al proprio tempo, ai meccanismi che ne scaturano il fascino, una persona di cui ho profonda stima e da cui spero di imparare ancora tanto.
Grazie Emilio.


Federica Fiumelli