Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

mercoledì 28 gennaio 2015

Grosse Fatigue, Camille Henrot al MUSEO GUCCI


link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12967-camille-henrot



So di non sapere. Socrate ci illuminò secoli orsono, con uno degli assunti filosofici più conosciuti di sempre. Dalla Grecia classica ancora questa presa di coscienza vive e interroga. Nel cuore della Firenze rinascimentale, il Museo Gucci che si affaccia invidiabilmente su Piazza della Signoria ospita negli spazi del suo contemporary art space l'opera video del 2013, Grosse Fatigue della giovane artista francese Camille Henrot a cura di Martin Bethenod. Meritatamente, dal mio personale punto di vista, premiato con il Leone d'Argento all'ultima Biennale d'arte di Venezia, la 55a, era stata fortemente voluta dal curatore Massimo Gioni e se ne desume anche il perché.

La Biennale Endiclopedica e Utopica gioniana trova una perfetta e corrispettiva, calzante anima gemella nel lavoro dell'artista francese. Grosse Fatigue è l'impossibile utopica presa di coscienza del saper di non sapere. E' l'infinito e bulimico succedersi di immagini. Un immenso e fagocitante lavoro di ricerca svolto non a caso al più grande complesso museale scientifico al mondo, lo Smithsonian Institute di Washington, che può vantare ben circa 142 milioni di pezzi nelle sue collezioni. Un film di 13 minuti che si muove a ritmo ancestrale di rap musicato dal compositore Joakim e dalla voce dello slammer Akwetey Orraca - Tetteh, che declama in "spoken word" una lunga poesia scritta in collaborazione con lo scrittore Jacob Bromberg. Dal sito dell'artista un breve ma significativo passo:

In the beginning there was no earth, no water – nothing. There was a single hill called Nunne Chaha.
In the beginning everything was dead.
In the beginning there was nothing; nothing at all. No light, no life, no movement no breath.
In the beginning there was an immense unit of energy.
In the beginning there was nothing but shadow and only darkness and water and the great god Bumba.
In the beginning were quantum fluctuations.

Genesi, evoluzione e probabilmente la fine del mondo. L'ambiziosa volontà di voler sovrapporre tutti i racconti scientifici, storici, mitologici, artistici, antropologici, la stessa artista racconta: "Nel mio video la volontà di universalizzare le conoscenze si accompagna alla coscienza che ho di questo atto. Vale a dire che nel momento stesso in cui aspiro a rendere il mondo abitabile mediante una totalizzazione soggettiva, sono anche consapevole della follia di questo tentativo è dei suoi limiti intrinseci".

Grosse Fatigue è sensorialmente affaticante. Davanti a noi si apre un desktop di computer e di pari passo alla declamazione vocale quasi sempre più pressante, in the beginning, in the beginning, in the beginning, si generano e si aprono molteplici finestre, quelle che il digitale ci insegna ad aprire con estrema velocità e facilita, che allo stesso tempo non permettono, diventano un limite fisico nell'assorbimento, nel porre attenzione a ciò che si sta manifestando.

E' allora che si viene travolti dal flusso inarrestabile, di suono, voce e immagine. Mani smaltate ad hoc, tartarughe, onde, biglie, pitture trecentesche, pagine di Wikipedia o libri illustrati scientifici, si mischiano a porzioni di corpi intenti a farsi una doccia, e ancora, animali imbalsamati, custoditi in maniera tassonomica, schedati, inquietanti, sinistri, vengono ripresi con ammirazione e sgomento al Museo di storia naturale parigino. In alcuni frame, soprattutto quelli dove le protagoniste sono mani femminili, talvolta con arance, uova o bulbi oculari, la regia visiva adottata mi ricorda come un flash l'immaginario pop surreale acido del duo Cattelan-Ferrari in Toilet Paper.

L'Henrot colleziona saperi, li sedimenta, li stratifica in maniera del tutto evanescente e digitale, è come se gli studioli, le wunderkammer cinquecentesche venissero proiettate fluidamente nello spazio immateriale della rete. E poi un click ed è un colpo di spugna, tutto quello assorbito fino a quel momento si dissolve e ricomincia l'aprirsi di nuove finestre. Un Mash Up visivo e sonoro stremante, faticoso, frenetico, estenuante. Un remix che diviene apologia dell'impotenza. Un'ossessione isterica. L'accumulo opulescente e virale. Non si può contenere il contenibile, la sensazione che si ha è quella di un eterno infrangersi, un irrompere più grande del grande, una diga spezzata, e il flusso non si può contenere, ci sovrasta folle. Non c'è fine, lo sguardo non può domare, e si china all'orizzonte dell'utopia.

Le immagini continuano sovrane aprendosi a enumerati saperi, e mi colpisce una che eleggerei quasi a emblema, un ranocchio è posto su un'iphone, ecco delicato irrompere il fragile e teso limen tra natura e cultura, la tecnologia ruba all'infazia l'antica fiaba naturale, se si bacia il ranocchio, c'è l'alto rischio che l'amore si proietti nel virtuale anziché nel reale. Quasi una burla, una beffa dei tempi post moderni. E poi l'atto masturbatorio, ma sempre delicato, l'Henrot ha una grande purezza e finezza formale in tutte le immagini che "spara" a ritmo di rap sono proiettili ad alta definizione. La storia a colpi di click. Una guerra all'ultimo sapere e il piacere sensuale dell'impossibilità di un godimento totalitario. Un piacere voyeuristico, che si declina in voyeur-ostico. Tra le infinite finestre compare l'inquadratura su un bacino femminile, e lentamente la mano candida scivola nelle mutandine.

Poi nuovamente un click e un colpo di spugna. Ecco altri interstizi di scibile che si aprono a noi. Alla fine tutte le finestre sono chiuse, e la cartella sul desktop troneggia minimale, una piccola voragine che prova a contenere l'incontenibile. Una matrioska virtuale che assume le sembianze di un archivio infinito, in continuo processo organico. Quello stesso infinito che si ritrova nell'unica scultura esposta, Tevau del 2009. Manichette antincendio arrotolate in un 8 rovesciato, appunto il simbolo del continuum. L'Henrot è poliedrica e ama sperimentare i più diversi materiali e tecniche. Tevau è il nome di un oggetto rituale melanesiano che simboleggia lo scambio in occasione di transazioni importanti come il matrimonio, destinato a ristabilire l'equilibrio. Nell'opera la natura diventa lo stesso flusso inarrestabile di Grosse Fatigue, in un continuo scorrere incessante di passato, presente e futuro. Mi viene alla mente il video La Pluie, project pour un texte del 1969 di Marcel Broodthaers.

Da capo, scrivere, sotto una pioggia incessante. Nuovamente, nell'impossibilità.
In the beginning.

Fino all’8 Febbraio 2015 al Museo Gucci di Firenze.

Federica Fiumelli













mercoledì 21 gennaio 2015

Alessandra Spranzi. Maraviglia @ P420 arte contemporanea, Bologna


Link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12831-alessandra-spranzi-maraviglia




"E' mattina. Dalla mia finestra vedo un'altra finestra. Ogni mattina una vecchia donna dai capelli bianchi si affaccia, aspetta che succeda qualcosa, qualcosa di bello, che io non so e non vedo, e dà degli abbracci e dei baci dalla sua finestra aperta. Poi la chiude e il giorno inizia. E il giorno inizia anche per me."

Queste sono le parole che utilizza l'artista Alessandra Spranzi per raccontare il suo lavoro Ogni mattina del 2006, unico video esposto alla galleria p420 di Bologna che le dedica la personale Maraviglia visitabile fino al 31 gennaio. E' proprio una signora dai capelli bianco neve che ci accoglie all'entrata dell'esposizione, questa immagine di questa anziana che potrebbe essere la vicina di casa di ciascuno di noi mi ha riportato alla mente la scena della busta di plastica che danzava nel vento nel film American Beauty, in entrambi i casi viene cioè celebrata l'epifania dell'ordinario, quello a cui non dedichiamo più tempo perché di tempo sembra non essercene più.

Uno dei protagonisti del film di Mendes esordiva così: "Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita, dietro a ogni cosa. E un'incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare. "

"C'era una vita intera dietro ogni cosa", con questo assunto come non ricordare il maestro bolognese Morandi? Chi meglio di lui ha saputo dare tempo e sguardo profondo alle cose, e voglio sottolineare il sostantivo "cose" alla Remo Bodei, cose sulle quali viene sedimentato del significato, non oggetti, meri oggetti privi di attribuzioni. Trovo quindi in perfetto dialogo la poetica della Spranzi con il grembo morandiano bolognese. Bologna è la città perfetta per comprendere il lavoro dell'artista.

Le opere che la Galleria P420 ospita appartengono a vari cicli: Io? (1992-93), Vendesi (dal 2007), Dizionario Moderno (2012-14), Sortilegio (dal 2012), Obsoleto (dal 2012). Alla Spranzi interessa una bellezza già esistente, non vista, per questo motivo è una grande collezionista e riciclatrice di immagini preesistenti che provengono da manuali pratici, libri scientifici, o riviste di annunci economici. Lei rifotografa, ritaglia, ingrandisce, stampa con tecniche diverse come in Sortilegio, dove illustrazioni di manuali pratici in cui si vedono mani al lavoro su materiali e oggetti sono rifotografate e stampate con la tecnica della fotoincisione. L'immagine esistente viene rimaneggiata per diventare altro. Perfino la propria.

In Io? fotocopie di collage nei quali l'artista ha sostituito il proprio viso a quelli di diversi personaggi tratti da libri e riviste. Ecco allora la Spranzi astronauta. Metafora interessante, l'artista che esplora i crateri dell'invisibile. Non fare attenzione alle cose ci rende profondamente lacunosi nei confronti della scoperta dell'ordinario. Cosa c'è di più trascurato delle fotografie delle offerte? Quasi le bypassiamo irritati, con totale disinteresse e voluta cecità. In Vendesi le immagini di annunci economici di oggetti messi in vendita, originalmente poco più grandi di francobolli, sono rifotografati e ingranditi fino a svelare la loro grana tipografica, un autentico zoom sulla pelle delle cose. La Spranzi, con il proprio modo di lavorare apre a una questione ormai obsoleta, obso-lenta, ma in questo caso interessante, risalenti agli anni Settanta. L'artista non è una fotografa, ma un'artista che utilizza la fotografia. E' necessaria questa distinzione?

Come anche Claudio Marra in Fotografia e pittura nel Novecento sottolinea, "È proprio negli Settanta che si assiste al clamoroso ribaltamento della vecchia formula "fotografia come arte" in quella di "arte come fotografia", dal momento che non è più l'invenzione di Daguerre a chiedere accoglienza nella palazzo dell'arte, vestendo ossequiosamente i panni della pittoricità, ma è l'arte stessa a uscire dalle proprie stanze sostituendo la mono-identità pittorica con tutta una serie di identità decisamente prossime alle categorie messe in gioco dal medium fotografico." E ancora sento di citare una frase faro di Marra "Di fatto la fotografia funziona come un ready-made."

E la Spranzi ama partire proprio dal già fatto. Risposte dogmatiche quindi non ce ne servono, sicuramente la fotografia più che mai negli ultimi decenni ha dimostrato di uscire da se stessa. E anche l'artista lo fa, la Spranzi ama profondamente l'immagine fotografica soprattutto se abbandonata, solo una persona che nutre profondo amore e cura può farci godere così dell'ordinario. La fotografia diviene un corpo palpato, toccato, rimanipolato, mischiato, accarezzato e tagliato, ingrandito. La Spranzi sveste e riveste. Sgualcisce e rende presente ciò che era stato bandito all'angolo. Il banale smette di essere tale.

La capacità del conservare uno sguardo vergine sulle cose ordinarie rimane il punto saldo dell'arte della Spranzi che dimostra anche nelle proprie parole una poetica ricca e potente: "Da anni rifletto sul potenziale, spesso addormentato o consumato, presente nelle immagini, tornando a guardare e utilizzare materiale anacronistico o povero con progetti ogni volta diversi, che portano alla luce, o svelano, il lato nascosto e irrazionale delle cose e delle immagini. Raccogliere, avvicinare, mettere insieme, far incontrare è un modo per riorganizzare, o sorprendere, la visione e il pensiero, per rimettere in gioco la natura enigmatica dell'immagine fotografica che continuamente ci interroga."

Nella serie Obsoleto, più che mai, secondo me, l'artista attua questa modalità di "far incontrare per sorprendere". Numerosi fotomontaggi che mettono insieme pagine di vecchi libri o riviste di vari argomenti (scienze naturali, geografia, astronomia, arredamento, botanica) a delle polaroid scattate dall'artista. Il soggetto delle polaroid sono oggetti raccolti per strada, o ritagli di fotografie, messi in scena su un tavolo. Come non ripensare a Morandi? Il tavolo diviene un set per gli oggetti orfani che vengono adottati, scelti o trovati, e ai quali viene soprattutto riconsegnata fascinazione e maraviglia.

Maraviglia, la parola scelta dalla Spranzi per questa mostra: "Maraviglia, la ripetizione della a come uno stupore ripetuto, o uno stupore del secondo sguardo. Chiudo gli occhi, li riapro, riguardo o ritrovo qualcosa che appare inaspettatamente nuovo." Maraviglia, l'opera, che fa da arciere-guida di tutta l'esposizione, una fotografia di dettagli di una copia del Dizionario Moderno trovata dall'artista in un mercato dell'usato. L'ignoto proprietario aveva arricchito il libro con definizioni ritagliate da altri dizionari e incollate sulle pagine. Una delle definizioni aggiunte era appunto "maraviglia".

Ecco allora la Spranzi ricercatrice funambola, attenta, che con cura cerca, trova, sceglie i propri preziosi fossili, sedimentati, scava l'immagine fotografica, qualunque essa sia, ci va a fondo e le restituisce "maraviglia", dal latino mirabilia, appunto, significante "cose ammirevoli". 
E allora, ogni cosa è illuminata.

Federica Fiumelli














Zed1, Willow e Guaia, curated by Spazio San Giorgio Arte Contemporanea, Bologna

Ecco tre artisti ed eventi da non perdere, 
curati da Spazio San Giorgio Arte Contemporanea

http://www.spaziosangiorgio.it/






SECOND SKIN PROJECT
ZED1
Opening Sabato 24 Dicembre 2015 h. 20.00
Live Performance h. 21.30 
ART CITY White Night | Arte Fiera 2015


"Che la vita possa essere considerata una caduta è connaturato alla facoltà umana di immaginare. Immaginare significa concepire l'altezza da cui avviene la caduta."

John Berger

Uno splendido disincanto dal sapore felliniano. Una pellicola smaltata, un carillon circense stridente. L'odore di vecchi libri, pagine polverose, custodite nei segreti di una soffita si schiudono a noi come sogni alati. I personaggi dello streetartist Marco Burresi, in arte Zed1 popolano già da tempo molte zone italiane dal Nord a sud, interventi pubblici, su pareti di muri che ci appaiono come pagine di un libro illustrato. Disincantati. Si perché l'immaginario seppur fantastico rimane critico, vagheggia fluttuante con una cinica rilettura di temi che scuotono profondamente l'animo umano. Dal cambiamento, alla speculazione, alla solitudine, al tempo, alla monetizzazione di esso, al potere, al sesso, all'infazia.
Una metamorfosi delicata, i personaggi vivono nell'aria, in un mondo di carta e vetro raffinato. Anche se la distinzione tra fiaba e favola é ormai nota, il lavoro di Zed1 può affermarsi come uno scivolare tra i confini di questi due generi, la favola é quel racconto magico che ha solitamente come protagonisti animali come accade nelle favole di Fedro, di Esopo, di La Fontaine ed un preciso scopo di educazione morale, ovvero ci sono i buoni e ci sono i cattivi, a quelli scorretti é garantita solitamente una punizione finale. La fiaba al contrario non si dimostra da subito esplicita, ma lascia aperta una riflessione critica, lascia che sia l'ascoltatore a decidere da quale parte schierarsi.
Le opere di Zed1 nascono favole ma agiscono sicuramente come fiabe urbane.
Il mondo illustrato dell'artista attarverso la moltitudine di graffiti drawing mantiene un tratto raffinato, una linea elegante che si srotola come una narrazione magica, talvolta perturbante, tra animali, elfi, clown, burattini, al limite, folli, outsiders, freaks, eccentrici, equilibristi.
Instabili vaganti. Sinceramente precari. Teatranti.
Nonostante la tecnica spray, la bravura dell'artista porta le nuances utilizzate a campiture compatte quasi pastello sospese in un colore che può essere solo immaginato.
La serena gamma cromatica sembra collidere con la stridente anima sordida dei protagonisti, ed é questa la chiave di forza, che apra la soffitta dell'immaginario libresco di Zed1.
Rotondità volanti che riecheggiano in romanticismi melanconici della donna cannone sognata da DeGregori, burrositá in volti tondeggianti e cosmici, solitari e sensibili. Ricordi quasi boteriani.
Poi i corpi scivolano in curve, tra schiene e addomi, volumi di ovatta che si chiudono in piedi sopraffini, come antenne, in grado di vibrarsi lirici e affusolati. Sono vuoti pieni. Vuoti a perdere. Hanno inglobato il possibile, and finally full. Troppo vuoto. Che sia un allarme? L'eccesso deve essere scavato.
Ma i soggetti restano in punta di piedi sul nulla. In caduta libera.
Per concepire l'altezza di quelle cadute, non ci resta che immaginare.
E poi ci sono gli sguardi, asserrandati, consapevoli di non essere mai lì dove si posa l'occhio di chi osserva, ma altrove, lontano. Sparati in aria da chissàquale cannone.
Sguardi attoniti tra la presa di coscienza e l'abbandono. Ambigui e di minor ingombro rispetto ai volti che li contengono.
Piedi fasciati in calzature dalle snellezze medievali, gli esserini dell'artista sono raccontastorie perduti. Lussuriosi o opulescenti? Sono menestrelli attenti al dettaglio, quasi dal sapore lontano di un gotico internazionale, fiabesco non a caso. Minuzioso, puntiglioso.
Dalle miniature di un racconto silenzioso, i personaggi come bolle di sapone e ceramica si ingrandiscono e si impadroniscono di grandi dimensioni e spazi pubblici.
Zed1 gioca in una teatralità mascherata, un tableau vivant che sussurra: "datemi una maschera e sarò sincero." Ma ci sarà un tempo anche per spogliarsi delle foglie di un autunno di apparenze.
Zed1 pensa tramite il disegno che rende macro, in versione ambientale, dal taccuino al muro, la sua poliedricità é messa in evidenza come quando la dimostra passando dalla grafica, alla tela al Wall painting.
Il disegno come arma per agire sulla pelle del mondo, profondamente, in superificie.
Quella pelle che diventa un vero e proprio modus operandi.
Il progetto dell'artista "Second Skin" presenta infatti doppi strati di disegno, doppi strati di pittura, doppi strati di carta, solo l'interazione del fruitore, del passante, o lo scorrere del tempo potranno rivelarci questo profondo scavare in superficie. Un'erosione dell'immagine introspettiva.
Una mutazione che filtra attarverso la caducità della materia. Perché tutto può cambiare.
Strappi una pagine ed ecco un'altra vita, ecco un'altra illustrazione.
Depura, sbuccia, scarta, spoglia l'immagine per regalarcene le interiora, lo scheletro, la struttura portante, il tuorlo.
Una vita a brandelli, perché é negli interstizi che si trova una silenziosa verità distillata, e come anche Calvino scriveva nel "Visconte dimezzato": " bellezza, sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che é fatto a brani."

Zed1 archeologo di essenze, scavando a sud del cuore, nel profondo tempo dello sguardo.

Federica Fiumelli  




Orari di apertura / Opening Times :

Martedì - Venerdì  10.00 - 13.00 /  16.00 - 19.00
Tuesday - Friday   10am - 1pm / 4pm - 7pm

Sabato 16.00 - 19.00
Saturday 4pm - 7pm



In altri orari su appuntamento.
Any other time on appointment.




SEDICI MODI DI DIRE VERDE

Poliambulatorio Giardini Margherita, struttura sanitaria privata di alto livello e con una particolare attenzione al benessere psicofisico dei propri pazienti, proporrà in occasione di ArteFiera 2015, in collaborazione con Spazio San Giorgio arte contemporanea "Sedici Modi di Dire Verde" mostra dell’artista neo-pop Willow.

"...e tutti camminano sempre ma poi per dove 
tanto un albero è come un ombrello se piove."
Da "16 modi di dire verde" di Niccolò Fabi

Leitmotiv di questa esposizione firmata Willow è sicuramente il verde. Un verde che accoglie, protegge e si disperde come liquido sulle tele. Un verde che invoglia, abbaglia e risuona, glorioso e ottimista. Un verde più verde del vero. Un verde jazz. 
Un Willow che trama colore per appunti di un viaggio nei ricordi di una natura naturans.
Come edera il suo colore cresce e nasce sugli spazi di una tela. 
Dapprima bianca poi vinta da queste energiche tempeste verdi.
I mondi di Willow eterei, fluttuanti, atemporali sono tutt'un caos di colore. Non hanno peso specifico, data od ora. 
Solo flusso e passaggio, solo ritmo, dal momento in cui ci capiti davanti.
Tra il fumetto e l'illustrazione i personaggi si disperdono in un non-sense di gettate di colore. 
Gli smalti su tela sono storie che finiscono nella curva di un sorriso. 
Sicuramente erede di un neopop giapponese alla Takashi Murakami, le invasioni di esserini ci comunicano attraverso onomatopee da fumetto, per un fraseggio muto, che nutre di visioni e colore i suoni. 
Smile, :D, dz, wuuup. Punti esclamativi. A! E!
"Verde te quiero verde", un romanticismo nostalgico e agrodolce, frizzante alla García Lorca, tutto verte in un amabile cocktail all'à plat. Come girovaghi gitani, i "polipetti" dell'artista fluttuano in oceani di informe, nell'incertezza liquida di un sogno distratto, in assenzi assenti.
Si aggrappano alla tela per non gocciolare in una realtà troppo monotono.
Willow da botanico atelierista ci crea con le sue opere varchi - finestre, organiche, bios in punta di pennello, tutto esplode a ritmo di verde, polifonicamente.
Come suggerirebbe Baricco:
"A volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni."
Testo : Federica Fiumelli


Brevi cenni biografici: Nato nel 1978 a Milano si diploma presso la Scuola del Fumetto e Illustrazione di Milano nel 2000. Collabora da 12 anni con case editrici, agenzie pubblicitarie e aziende produttrici di gadgets e articoli da collezione e design. Con lo pseudonimo W i l l o w realizza tele, grafiche, murales e vinyl toys vicine allo stile POP, collaborando con gallerie, aziende e designers in Italia e all’estero. Tra le principali collaborazioni:Comix, Motta, Borsalino. Weissestal, Ariete, Boffi.



don'tnedd(ART)

Incucina bistrot, in collaborazione con Spazio San Giorgio arte contemporanea, nel periodo di Artefiera 2015, ospiterà la mostra “don’tneed(ART)." dell’artista Lorenzo Guaia. 
In occasione di Art City White Night sabato 24 gennaio, per l’inaugurazione dell’esposizione, Lorenzo Guaia vestirà i panni di CIBARTISTA e a fianco del padrone di casa, lo chef Giorgio Salterini, cucinerà per gli ospiti un menù degustazione.

Il tratto distintivo dell'artista Bolognese Lorenzo Guaia é sicuramente quello di un grafismo lineare e preciso, un segno deciso e pulito, che si impone leggero, senza alcuna pesantezza al di là del concetto. Tagliente e ordinato. L'essere umano nelle sua figurativitá é totalmente assente, solo oggetti del quotidiano, da tazze a strumenti musicali o seggiovie, manifestano la loro presenza tramite silhouette che si impongono ben definite su sfondi decisamente contrapposti. Pochi protagonisti per supporti variegati. La dicotomia in Guaia si fa sempre ascoltare.
I soggetti tracciati dall'artista si vestono di contorni puntuali, zen, senza alcuna ombra o profondità fluttuano su supporti estremi. Un'estremità declinata ad una bizzarria visiva.
Estremi nella loro composizione, il Guaia collezionista si schiude ai suoi osservatori, é così che ad esempio dopo la fortunata serie delle bustine da té, uno ski-lift dai contorni netti e total white si staglia in una prospettiva fotografica su una campitura patchwork di santini e madonne.
Una moltitudine sacrale si offre come sfondo ad un soggetto distante.
Al limite dell'assurdità metafisica le opzioni di interpretazione sono vaste tante quanti i santini utilizzati per il collage.Sacro e profano. All'artista interessa accorpare icone, simboli sedimentati nell'immaginario comune, apparentemente disconnessi fra loro. In realtà oggi più che mai, il flusso non stop di immagini bulimiche soprattutto nelle pubblicità ci propone accostamenti più che improbabili, il vero problema é che l'occhio abituato a ciò non ne é più consapevole.
É allora che Guaia ripara al guaio, con la sua solita linearità evanescente scava a fondo di questioni antitetiche e dicotomiche, mescolando con grande sobrietà religione, musica rock, paesaggio, medicina.
Più che di un gesto iconoclasta, Guaia si diverte a produrre altre nuove immagini che interrogano il fruitore sulle possibili conciliazioni proposte. Annunciazioni che si fanno carico di rileggere il senso delle icone nel rockeggiante panorama ibrido contemporaneo.

Federica Fiumelli



mercoledì 14 gennaio 2015

Paul Jenkins. The spectrum of light




WSI mag link: http://wsimag.com/it/arte/12726-paul-jenkins

Tra il turbinio delle lenzuola, scivolando i corpi danzano nel crepitio di un temporale, diluiti nell'atemporalitá i colori si infiammano, irraggiano e accadono nel perimetro di una canvas-body. Peripezie prismatiche nell'accadimento dell'azione e nell'accadere dello sguardo, sono le opere di Paul Jenkins.

Qualcuno diceva, probabilmente Magritte: "se si è sensibili, bisogna provare vertigini e angoscia". Avvicinandosi all'impero imponente e visivo di Jenkins, posso garantire che se intendiamo la sensibilità come una rilevazione di una percezione, esteticamente e filosoficamente parlando, allora sì, la fantasmagorica vertiginosa angoscia del colore si accanisce nella sospensione retinica.

The spectrum of light è il titolo della retrospettiva di lavori su tela e carta che la città di Prato ha dedicato al grande artista, svoltasi tra due sedi, la Galleria Open Art e il Museo di Pittura Murale in San Domenico dagli spazi suggestivi come il Salone delle Capriate mai presentato dopo il recente restauro. Se gli spazi della galleria hanno accolto le opere di più recente produzione, il Museo di San Domenico ha offerto dal punto di vista dell'allestimento un interessante e proficuo dialogo tra i lavori degli anni '60, '70, '80 dell'artista americano, con ad esempio le sinopie di Paolo Uccello.

Emerge l'eleganza della linea, che diviene "un sempre nel mai". Una linea che da contorno, si slega e si crepa attraverso i secoli per ristabilire i propri confini dell'essere. Una linea che non vuole più marcare, delimitare o contenere, ma al contrario una linea soggetto che diviene puro colore, una protagonista che esplode a ogni gesto. Una linea che si denuda per divenire altro.

Quella linea orientale che Jenkins tanto ammirava come nel caso dell'artista giapponese Hokusai, a tal proposito lo stesso affermava: "Essa aveva un significato autonomo e ha creato una sua forma significativa." e ancora a proposito delle ébauches di Gustave Moreau: "esperienze soggettive in pittura con enfasi sulla pittura." Se ci si vuole immergere, calare, nei mondi immaginari di Jenkins occorre dare corpo a quell'enfasi, occorre essere pronti a respirare, ( a pieni occhi) la pittura come Eros disciolto, freudianamente fantasticando.

E' necessario sottolineare anche l'influsso di un certo contesto culturale e la conoscenza e il legame con artisti quali, Mark Rothko, Jackson Pollock e Barnett Newman. Citando Renato Barilli, nell'introduzione all'informale, si può parlare di "arte concreta", "volta cioè a proporre elementi plastici e cromatici autonomi, che però sono figure anch'essi, anche se prive di un riferimento più o meno fedele al mondo esterno."

La stagione dell'informale o espressionismo astratto (se vogliamo usare la terminologia per gli accadimenti americani) è da sempre stata affiancata inevitabilmente alla seconda guerra mondiale che significò il crollo generale di fiducia verso il progresso tecnologico. Nell'ambito del pensiero Sartre rilesse Husserl padre della fenomenologia, e assieme al "fratello minore" Merleau-Ponty posero l'accento sulla presenza di una sfera primaria, fluida, dominata dalla logica del campo percettivo, sessuale, affettivo, uno spazio organico, uno spazio vissuto. Non è un caso se dal '59 fino alla fine della sua attività artistica, Jenkins inserì in tutti i titoli delle sue opere la parola "Phenomena".

Non esiste più un centro unico, il centro è dappertutto. Come sottolinea Barilli, "siamo molto vicini a una forma omologa dello spazio per scorso dalle onde elettromagnetiche; queste di regola hanno una sorgente, ma una volta ripartite, si diffondono ovunque, rimbalzano, si infrangono, si compenetrano."

E cosa sono i colori se non questo, onde elettromagnetiche, nei lavori di Jenkins? Bios fluido mai uguale a se stesso, concreto e autonomo nel suo esistere. Quei colori che sono "patimenti di luce" come afferma l'artista. Goethe e Kant mentori del creatore americano, guardano attraverso il prisma di Newton. La rifrazione, l'incertezza, la moltitudine, "lo spettro è visibile sono lì" come afferma nel catalogo Beatrice Buscaroli. E ancora "Fenomeni, manifestazioni, non delle cose o della luce che le investe come richiederebbe il programma dell'Impressionismo che l'artista vede come una illustrazione di un evento nella natura, ma piuttosto emergono dall'atto della loro creazione ad opera dell'artista stesso."

Di fondamentale importanza per comprendere la poetica Jenkinsiana è il modus operandi con il quale l'artista produceva i propri lavori. Una vera danza. Una coreografia come descritto da Bosquet: "l'intervento esterno era di due tipi: l'uno il più originale, consisteva nel versare i colori nel cavo del foglio o della tela preparata dopo averla curvata. Poi, dondolata, spostata, ripiegata leggermente o spiegata, essa stessa obbligava i colori a concentrarsi, a stendersi, a trovare il loro letto e perciò la loro forma. L'altro intervento è meno rivoluzionario, benché indispensabile alla comprensione dell'opera di Jenkins. Si riferisce alla direzione che egli dà ai suoi colori e alle sue masse, attraverso uno strumento, una bacchetta che fa le veci di un pennello, o un coltello d'Avorio, il cui ruolo è quello di correggere la parte - certo considerevole - del caso in questa danza."

Mi è impossibile non pensare a Loie Fuller, danzatrice e attrice americana, che pur non avendo mai studiato danza, insieme alla Duncan e St. Denis fu una delle pioniere del balletto moderno statunitense. La Fuller attraverso il movimento di lunghi drappi che altro non erano che estensioni corporali e l'uso performativo di luci, creava danze vorticose, risucchiando lo sguardo in un inafferrabile accadere. Quell'accadere inafferabile che attraverso gli smalti e acrilici su tela trova percorso sulle superfici eteree e fluttuanti di Jenkins.

Si tratta per me di un essere "profondamente superficiale". Un binomio contrastante che diventa emblema di una poetica sublimata nel puro esistere. Una poetica che si snocciola su tele di grandi dimensioni per la maggior parte, la retrospettiva ci conduce ad ammirare il colore come un organismo a sé stante, che si sviluppa e si avviluppa dinanzi a noi, attraverso il tempo. Il tempo diviene coscienza attraverso la metamorfosi del colore. E' palpabile notare come siano diversi i primi lavori dagli ultimi. Jenkins sembra con lo scorrere degli anni trovare una razionalizzazione della pennellata, che si fa più quadrata o dalla larga e invasiva campitura. Abbandona, o meglio matura, le filamenta intrepide e caotiche, a schizzo esuberanti degli anni cinquanta e sessanta.

Quindi, filamenti organici, polifonici e talvolta fragili, talvolta più ingombranti e ampi, altisonanti e lunatici, porzioni di colore o compatte o trasparenti come velari. Colate, compenetrazioni che divengono metafore, quasi radiografie dell'atto sessuale che corona la fusione di due corpi. In ogni caso è un'esplosione all'origine, poi calibrata e direzionata da un corpo mosso da profonda cura. Una cura che diviene attenzione mentale, il caso viene accompagnato da una volontà.

Come in Zabriskie Point, capolavoro Antonioniano, durante la scena finale, i Pink Floyd musicano il big ben tra le cose, Jenkins segna e orchestra l'inizio del caos tra i pensieri. Noumeni cromatici. Prendo in prestito con la stessa cura Jenkinsiana le parole di Alda Merini per concludere così: "Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irrisolvibile, vitale spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici 'perché' del mio respiro."

Federica Fiumelli











venerdì 9 gennaio 2015

Morandi e Spalletti. Un dialogo di luce



link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12711-morandi-e-spalletti-un-dialogo-di-luce






Appena si entra negli spazi della galleria tutto cessa. Da un preciso momento ho smesso tutto. Mi sono spogliata del tempo ordinario, quello che scorre dai palmi delle mani, inafferrabile. Ne ho guadagnato un altro, un tempo spoglio, circolare, sospeso. Grande silenzio, grande rispetto, tutto il tempo di questo tempo.

Due artisti, due differenti generazioni, due modi di vestire i lavori apparentemente diversi, ma i corpi poetici sono lì che dialogano passeggiando nell'atmosfera. Vengo quasi presa per mano, sì, sono accolta da cotanto colore volumetrico. A ogni passo è come sfiorare la pelle sull'ovatta. Il mio sguardo oramai è accolto, avvolto, sono raccolta in un silenzio di luce. Quindi mutabile e vulnerabile, in preda alle oscillazioni dello sguardo. Come una ballerina in punta sulla neve fresca sfalda un bianco puro, crepando il bugiardo silenzio.

Morandi e Spalletti non hanno certo bisogno di futili presentazioni, le loro opere hanno viaggiato, viaggiano e continueranno a farlo in tutto il mondo. Due uomini, due artisti che hanno saputo parlare in maniera personale dell'ambiente e delle cose, tenendo sempre presente l'esempio dei grandi maestri italiani, da Giotto a Raffaello. Uno natio di terra emiliana, l'altro di terra abruzzese, entrambi accompagnati dalla natura soave e profonda di confini e orizzonti modellati dal tempo e dalla luce atmosferica. Appennini dalle curvature muliebri e misteriose.

La mostra alla Galleria d'Arte Maggiore di Bologna prorogata fino al 25 Gennaio, è stata pensata e proposta da Franco e Roberta Calarota con il contributo di Hélène de Franchis volendo dimostrare come l'arte di Morandi sia di grande attualità e sia stata fonte di riflessione e confronto per uno dei massimi esponenti viventi dell'arte contemporanea italiana, Spalletti, che non a caso è stato il recente protagonista di importanti mostre a lui interamente dedicate, come quelle ospitate al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al MADRE di Napoli.

Morandi, nato nel 1890, ha sempre fatto dei suoi oggetti i protagonisti di un tempo astorico, la vita, la polvere di quelle tazzine e bottiglie è diventata pura materia, puro colore corpuscolare. Interstizi cromatici di vita. Lo stesso Morandi in un'intervista del 1957 affermava: "Per me non vi è nulla di astratto, peraltro ritengo che non vi sia nulla di più surreale, e nulla di più astratto del reale."

E difatti la sua pittura è in grado di andare oltre, di astrarre, di trarre fuori, oltre il tempo e oltre l'oggetto: avvicinandosi a una tela dell'artista bolognese, si viene travolti da una pennellata atmosferica, in grado di aprirci a un altro sguardo, a un'altra dimensione, di immergerci in un'autentica essenza, una presenza. Macchie di colore, niente più forme, tutto è indistinto. E gli oggetti smettono anche di essere tali.

Mi è impossibile non citare Remo Bodei per sottolineare l'urgente differenza che vi è tra cose e oggetti.Qual è la differenza tra una cosa e un oggetto? Un "oggetto" lo si considera con indifferenza, ad esempio per usarlo, comprarlo o venderlo. Una "cosa", invece, è un oggetto sul quale si sono depositati dei significati, che siano affettivi, intellettuali o altro. In genere dovremmo trasformare gli oggetti in cose per rendere sensata la nostra esistenza. Ma per depositare si ha bisogno di tempo, di tempo lungo, di quel tempo che oggi ci è negato. E quanto significato allora può la polvere avere? Una straordinaria creatura che giorno dopo giorno si andava a depositare come una sirenetta su quegli scogli di cose. Ecco le cose di Morandi sono precisi scogli attraverso i quali l'atmosfera e il colore si sono infranti per sempre, in un eterno presente.

A tal proposito mi sento di citare Stefano Benni: "Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra, talvolta vediamo la vita nell'aria. E la chiamiamo polvere." I colori terrosi e tenui di Morandi mi hanno sempre ricordato I mangiatori di patate di Van Gogh. Uno dei quadri più terrosi e umili atmosfericamente parlando. In silenzio, solo una lampada a olio illumina un'economia di cose e soggetti. Un momento di ristoro serale, e le patate, verdure semplici ma nutrienti dai colori pacati, morandiani, originarie, dalla terra, la prima polvere del mondo.

E' come se Morandi avesse esplorato i suoi oggetti sempre con una fioca luce, quasi a lume di candela o con una lampada a olio, come se illuminasse gli oggetti, con una pazienza religiosa, come se lasciasse alle tenebre ogni volta il compito di nascondere qualcosa da scoprire il giorno dopo. Nuova luce, nuovo sguardo, Spalletti tramite le sue tele monocromatiche ricrea nello spazio quello che Morandi faceva nella tela; l'artista stesso sostiene: "L'arte contemporanea si assume la responsabilità dello spazio, a differenza di quella antica in cui viene delimitato dalla cornice."

Le cornici delle opere di Spalletti vertono, si proiettano verso lo spazio, dorate si assottigliano, si allungano, non delimitano, ma proseguono. Il colore corre lontano, si dipana come un profumo infinito, oltre l'orizzonte. Lo stesso artista dice: " Il colore, come si sposta, occupa lo spazio e noi entriamo. Non v’è più la cornice che delimitava lo spazio. Togliendola, il colore assume lo spazio e invade lo spazio. E quando questa cosa riesce, è miracolosa". Una drammaturgia di spazio, luce e colore. Le opere dei due artisti affiancate nell'esposizione rassicurano lo sguardo, è un'esplosione piumata, così raffinata e fragile.

Le campiture di Spalletti, sono precipizi luminosi che seducono, e la vicinanza del corpo dello spettatore all'opera è una necessità. Gli azzurri atmosferici del cielo, i rosa dell"incarnato, o i grigi che accolgono, e il bianco come struttura emergente e portante di ogni lavoro dialogano con i terrosi e polverosi originari, colori morandiani; quello a cui si assiste è una polifonia non pretenziosa, umile, colori radicalmente nobili, per la semplicità, oceani di profonda complessità. Spalletti ha sempre affermato quanto il maestro bolognese lo avesse influenzato tanto da confessare in un'intervista per Flash Art, di trarre ispirazione proprio da un disegno da lui custodito. Speciali compagnie, in momenti di grande intimità. Perché solo l'intimità con le cose ci porta a una profonda comprensione.

Spalletti che ripone la capacità di racconto nella superficie del colore. E avvicinandosi alla tele, è un leggero crepitio dello sguardo, un sussurro di vento lontano, il colore che si espande sotto il nostro occhio in realtà è nebuloso, corpuscolare proprio come la polvere morandiana. Quasi tracce, segni, passaggi di colore, leggere emersioni, o profonde eclissi, quasi come lame su una pista di ghiaccio, sulle superfici di Spalletti sembra aver pattinato la luce, in un duello d'amore con il colore. La contemplazione e la meditazione e la necessità di tempi lunghi, il guardare le stesse cose con luci e posizioni diverse ha caratterizzato e segnato la poetica di entrambi gli artisti. Pavese, nei Dialoghi con Leucò scriveva: " ...sappiamo che il più sicuro è più rapido modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento questo oggetto ci sembrerà miracoloso di non averlo visto mai."

Spalletti diverse volte ha raccontato il proprio modo di lavorare, intenso, lungo, dopo aver dipinto per dieci giorni e aver controllato i tempi di essicazione passava all'abrasione. In questa fase i pigmenti si rompono, e fuoriesce il colore. In tutti i suoi lavori si trova il bianco, avvicinandosi alla tele ce se ne accorge, come secrezioni nebbiose la superficie restituisce una leggera polvere bianca che viene dall'interno. Quella stessa luce che le cose di Morandi emanano, una luce fantasmagorica dall'interno. Lavori estraenti magmatici, sobriamente incandescenti. Le tracce che ho scorto sulle superfici di Spalletti mi hanno ricordato subito i segni e le circonferenze che le cose morandiane lasciavano sui tavoli e i diversi basamenti. In entrambi i casi si può parlare di trame, di autentiche pelli, di origini vitali.

La pelle del mondo raccontata attraverso la luce, il corpo che viene narrato attraverso l'incorporeo. In questa esposizione, il tempo si è fermato nell'eterno presente, mi sono sentita come Klein nel 1958 totalmente accolta nel nulla, come se i confini del paesaggio si fossero fusi, nella totalità della luce bianca, accecante; se dovessi servirmi di un'opera per tradurre il senso del mio trovarmi rispetto a questo dialogo sarebbe Entrare nell'opera di Giovanni Anselmo.

Sono dentro, sono entrata con grande rispetto, in questo silenzioso, polveroso, universo fatto di trame, in questo vuoto pieno accogliente, con uno sguardo sempre differente, come ogni tramonto. Sfumato, vibrante, non pretenzioso. Un giorno bianco, così bianco, (titolo della personale di Spalletti al MADRE), che nevica dentro. Qui e ora, in questo presente senza confini. Precipita nell'atmosfera, e sulle cose, depositando la memoria di uno sguardo senza tempo.
Lungo e lontano scivola il colore.

Federica Fiumelli