Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

sabato 25 giugno 2016

Irene Fenara, Se il cielo fugge @ADIACENZE






"Forse sei troppo giovane per capire, alla tua età io non avrei capito, non avrei immaginato che la vita fosse come un gioco che giocavo nella mia infanzia a Buenos Aires, Pessoa è un genio perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell'immaginato, la sua poesia è un juego del revés." 


L'opera Se il cielo fugge della giovane artista bolognese Irene Fenara, pensata per i nuovi spazi di Adiacenze, che dopo sei anni di attività si rilancia e si rimette in gioco con nuove proposte culturali, funziona alla stregua del gioco del rovescio narrato da Antonio Tabucchi. Le puéril revers des choses, la citazione di Lautréamont che apre il libro dello scrittore pisano, ci annuncia e sussurra qualcosa. 


Se il cielo fuggisse veramente saremmo costretti a ridefinire i nostri punti di vista, proprio come ha scritto Maria Vittoria Tagliati nel testo critico dell'esposizione. L'opera accompagnata dalla composizione sonora di Francesco Privato, artista sonoro e dj producer legato alla produzione di musica elettronica e rivolto verso una ricerca artistica più sperimentale, gioca con noi riflettendo sul senso e sull'essere della visione, ma non solo, anche della produzione artistica, come la pittura o la fotografia. L'artista infatti riprende il concetto della fisiologia dell'occhio umano e l'opera diventa una metariflessione sulla rappresentazione.

Che cosa è veramente rovesciato? Chi osserva o chi è osservato? A metà tra il possibile e l'impossibile, l'orizzonte che coniuga mare e cielo diviene limen finissimo, e come una linea incerta pronta al naufragio sembra essere scritturata da Christopher Nolan. La finzione è da sempre l'ombra legata al reale, e la connessione tra le due è talmente importante e imprescindibile che l'arte è sempre pronta a ricordarcelo. 


Entrando nelle stanze di Adiacenze si è subito risucchiati nella vertigine, elemento che funge da cardine nel modus operandi della Fenara. Nella vertigine l'elemento del precario è seducente tanto quanto imminente e la paura di qualcosa di nuovo che spiazza le nostre percezioni stabilizzate è talmente grande che talvolta gestirlo diventa un compito assai arduo. Un video, una proiezione, la partitura sonora, e l'architettura spoglia del luogo espositivo. Questi gli oggetti costitutivi del site specific. E poi i calanchi delle colline bolognesi e il mare di Rimini, i riferimenti geomentali dell'artista. 


La dimensione spazio/tempo si increspa nel movimento vuoto di un mare che è limite e parte complementare e speculare di un cielo che appunto rifugge. Il cielo non sta più inchiodato all'insù e si sveste delle solite certezze, sfida la gravità e si ancora al sogno. L'abbandono affianca così la vertigine in balia di un totale smarrimento. Le convinzioni, come le posizioni vacillano e si disperdono nelle sonorità. 


Cito qui, le parole di Albert Camus in Il mito di Sisifo: "Pensare non è più unificare, render familiare l'apparenza sotto l'aspetto di un grande principio; pensare è imparare nuovamente a vedere, a essere attenti, è dirigere la propria coscienza, fare di ogni idea e di ogni immagine, alla maniera di Proust, un luogo privilegiato".

I paesaggi scelti dall'artista sono appunto luoghi privilegiati, pronti ogni volta a voltarsi, a girarsi, rovesciarsi, capovolgersi, contraddirsi, ribaltarsi e mettersi in discussione. L'unità contraddittoria proposta dalla Fenara ci trascina in una dimensione altra, ristabilendo il gioco come elemento primario per riscoprire le proprie facoltà cognitive. Con audacia e un titolo che farebbe da incipit a una narrazione poetica, Se il cielo fugge non lascia che la voglia di una visione nel e del vuoto. 



A little conversation


Irene, se il cielo fugge, l'artista Fenara dove rifugge? (Se rifugge)

Non tanto la fuga, quanto la caduta mi attrae. Non scappo ma ci cado dentro. Sono, forse, un “cascatore” che precipita, buttandosi, lasciandosi andare, spostandosi dall’alto verso il basso o viceversa, mosso dal proprio peso interiore.

Nella tua poetica, la parola vertigine ha sempre una significanza rilevante e riesci sempre a raccontarla attraverso le tue opere o interventi a colui che osserva, in maniera eloquente. Ce la potresti definire a parole?

Quella che voglio raccontare è una vertigine emotiva e il tentativo di familiarizzare con questa esperienza, che esprimo attraverso la sensazione fisica. Per me una vertigine emotiva è una scelta, è caderci completamente dentro. Familiarizzare con la vertigine significa praticare, conoscere ed esperire la sensazione come fanno i bambini, che trovano una forma di piacere nello smarrimento prodotto dal disequilibrio, dal vortice e dal girotondo. La vertigine, nella sua forte simbologia, consegue la ricerca dell'equilibrio, della stabilità e della felicità, ricerche che non trovano conclusione se non nella comprensione del loro essere fluide e ondulatorie. Un equilibrio fatto di continui bilanciamenti tra gli opposti in un perpetuo movimento. Ed è nel movimento o muovendosi rispetto ad altri oggetti che la vertigine cresce, sui mezzi di trasporto e con la cultura della velocità che accorcia gli spazi e aumenta le possibilità di spostamento. Quando crediamo di poter arrivare dappertutto, di sapere tutto, di avere tutto ribaltare i punti di vista può essere salvifico. Crediamo e pretendiamo di vedere dappertutto ma la visione dipende strettamente dalla gravità e quindi dalla nostra relatività.

C'è un artista che fin da quando ti sei avvicinata all'arte ti ha particolarmente ispirata? E c'è qualcuno che invece ritieni esserti lontano come approccio creativo?

Gli artisti di ispirazione sono tantissimi, mi limito a parlare di quelli che ho guardato molto, prima e durante la costruzione dell’installazione Se il cielo fugge. Mi sono ispirata soprattutto ad artisti come Bruce Nauman e ad artisti che hanno lavorato e lavorano in una situazione intermedia tra arte e cinema con un distacco dai linguaggi codificati a favore di una ricerca formale. Ho guardato la sperimentazione filmica del Cinema strutturale, in particolare quella di Michael Snow. Quello che mi affascina del Cinema strutturale è il perseguimento di forme semplici, in cui è la forma che produce il significato ancora prima del contenuto narrativo che tende ad azzerarsi. Lo strumento linguistico o il linguaggio diventano forme di pensiero in cui gli elementi essenziali che permangono creano il senso. In Se il cielo fugge ho utilizzato un movimento all’indietro e ribaltato che si concentra su una prospettiva centrale. Visivamente la vertigine è causata dalla vista delle linee prospettiche verticali fortemente in fuga. La prima forma di questa vertigine è riscontrabile nella prospettiva rinascimentale nata dall’intersezione sull’orizzonte apparente delle linee di fuga. Le linee fuggono come il cielo. Mi interessa la capacità gravifica della prospettiva, che promette una precipitazione nell’abituale percezione.

C'è un'opera che ha cambiato il tuo modo di guardare, osservare e percepire lo spazio/tempo?

L’opera del filosofo e urbanista esperto di nuove tecnologie Paul Virilio. I suoi scritti sul modo e sulla velocità con cui la tecnologia si sviluppa e influenza tutto il resto, soprattutto la percezione dello spazio-tempo. Mi interessano moltissimo i modi con i quali la tecnologia cambia anche il nostro modo di vedere, sui dispositivi della visione e sulla visione delle macchine. A volte pensando a Vedute, un video che ho fatto nel 2013, non posso non affermare che non avrei potuto idearlo se prima non avessi visto le immagini satellitari di Google Earth. Ho infatti ripreso muri scrostati e ammuffiti aggiungendo alle immagini in movimento l’audio dell’interno di un aereo, come metafora di geografie e paesaggi visti dall’alto. Questo mi fa riflettere sulle infinite modalità con cui la tecnologia agisce e ha agito sulla nostra capacità di osservazione e interpretazione di ciò che ci sta attorno.

In un mondo impossibile, dove tutto è il rovescio di tutto, che immagine possibile può resistere all'apocalisse dell'incomprensione?

Mi viene in mente un racconto per bambini, ambientato in un paese dove tutto è al contrario e in cui i bambini devono tenere in disordine le proprie stanze se non vogliono rischiare di andare a letto senza cena. È una storia che, esasperando certe situazioni, fa riflettere su abitudini che già abbiamo e che fanno sembrare logiche cose assurde, tanto assurde che sembrano già ribaltate per come le conosciamo. Il mito del mondo alla rovescia è ormai consolidato e indica un’aspirazione a orientare e ordinare il mondo in un modo tendenzialmente migliore o semplicemente nuovo. Quello che rimane è forse una consapevolezza sull’importanza della diversità né giusta, né sbagliata semplicemente altra.

Dove fugge l'arte, oggi, secondo la tua visione di giovane artista? Ammesso e concesso che fugga.

L’arte che fugge, scappa da un pericolo. I pericoli sono riscontrabili, forse, nel disorientamento che comporta l’allargamento dei confini dell’arte. Oggi si è aperto un vastissimo orizzonte nel quale è facile perdersi, ma dove si possono anche trovare nuove opportunità. Io credo che le nuove opportunità siano nella produzione o nella messa in evidenza di un qualche tipo di differenza nello sguardo, nel pensiero, nel modo di fare cose e scelte. L’arte è una via che può permettersi di andare a indagare il particolare, il dettaglio, la piccola storia. Diventa un modo di guardare e conoscere il mondo. Il mondo è molto più complesso, sfaccettato e imprevedibile di quel che siamo soliti pensare e forse l’arte, allargando i suoi confini, ci si avvicina.

Federica Fiumelli









Jean Michel Basquiat e Jeff Buckley @ONO ARTE CONTEMPORANEA

link: http://julietartmagazine.com/it/jean-michel-basquiat-jeff-buckley/





A volte è possibile che l’intimità di due numeri primi e rari, dalla vita consumata velocemente, proprio quella che ha permesso loro di entrare nella storia come miti autentici, s’incontri. È il caso delle due esposizioni fotografiche alla Ono arte contemporanea. Jean Michel Basquiat e Jeff Buckley condividono gli stessi spazi l’uno attraverso gli scatti di Lee Jaffe e l’altro di Merri Cyr. Entrambi testimoni di due esistenze disegnate al di fuori dei limiti precostituiti, due artisti che hanno lasciato dietro di sé tantissimi appassionati in grado di riscoprirne ogni volta la grandezza. Due esistenze che hanno trovato più nell’intensità che nella parsimonia il proprio gesto creativo.

“New York, negli anni Ottanta, nei primi anni Ottanta, esprimeva ancora un’ansia di erotismo, infinita, diffusa. O forse, per meglio dire, era proprio un’energia sessuale, dichiarata e convinta. Era una sensualità diretta, fatti di sguardi e complicità, immediata nell’intuizione, affrancata da ogni dipendenza. Ma l’inesprimibile è l’assoluta arrivavano dalle strade. Le strade erano tutto, il Tutto dei bisogni più antichi e evidenti.” Queste le parole di Rosma Scuteri nel libro “New York – anni ottanta- l’arte in presa diretta.”, un testo must per chiunque sia desideroso d’imbattersi e riscoprire le sfumature di quel periodo così spesso rimpianto dai più. Jean Michel Basquiat è stato proprio uno degli artisti protagonisti in quegli anni così maledettamente selvaggi e coraggiosi di una New York fedele alla libido più che al dio denaro. La New York dei club, come il Mudd Club il Club 57, la New York della Factory di Andy Warhol, la New York dei graffitisti e degli street artist, di un acerba Madonna e di Keith Haring, solo per citarne i più celebri.

SAMO acronimo di Same Old Shit, é come si firmava alla fine degli anni Settanta il giovanissimo Basquiat, “Una notte stavamo fumando erba e io dissi qualcosa sul fatto che fosse sempre la stessa merda, The Same Old Shit, SAMO, giusto? Immaginatevi: vendere pacchi di SAMO! È così che iniziò, come uno scherzo tra amici, e poi crebbe.” (JMB, intervista al Village Voice, 1978) La tag SAMO prese sopravvento a SoHo e Tribeca nel 1978 grazie anche a Diaz, writer con lo pseudonimo di Bomb-1. “SAMO come la fine della religione che ti lava il cervello, della politica inconcludente e della falsa filosofia. SAMO come clausola liberatoria, SAMO salva gli idioti, SAMO come la fine del punk in vinile, SAMO come alternativa al fare arte con la setta radical-chic finanziata dai dollari di papà. SAMO come espressione dell’amore spirituale. SAMO per la cosiddetta avanguardia. SAMO fu questo è molto di più, e come tutti i grandi sodalizi d’amore, volse al suo termine nel 1980, con la separazione dei due artisti per diversi diverbi, da quel momento la tag venne utilizzata da Basquiat con “SAMO is dead”.

L’arte di Basquiat così vicina all’art brut di Dubuffet per matericità e istintualità è un cocktail di energia e gestualità primitiva, il tutto racchiuso e fortificato nella e dalla potenza del gesto e del colore. Quest’assurda passione è stata ben immortalata da una altro grande artista eclettico, il newyorkese Lee Jaffe che incontrò Jean – Michel Basquiat nei primi anni Ottanta e lo ritrasse nei loro numerosi viaggi in Svizzera, Tailandia o Giappone, così come nel suo studio di New York nel quale Basquiat lo filmò a sua volta mentre Jaffe realizzava la scultura “Inverted Oak”. È così che un inedito Basquiat nei primi anni di carriera è stato immortalato per sempre, nei momenti di vita quotidiana, tra la pittura in strada e uno sguardo al cielo, con una t-shirt rossa, un sorriso dettato da una inconsapevole straordinarietà e le mani sporche di colore. Un’esistenza giunta al termine un maledetto giorno del 1988, per colpa di una overdose a soli 27 anni.

Altra vita dalla brevità melanconico è quella di Jeff Buckley, morto annegato una notte del 1997 a soli 31 anni. Oggi a distanza di un ventennio dall’album che lo ha consacrato, Grace, gli scatti di Merri Cyr testimoniano l’intima essenza di una voce che ha cambiato il panorama musicale degli inizi degli anni Novanta. Figlio d’arte di un padre che non hai mai conosciuto, Jeff lo ha superato per grandezza e sfortunata bellezza. Un corpo vocale graffiante e straziante in bilico tra il soul e il rock, in grado di contaminare anime musicali diverse per un risultato che trascende la pelle d’oca, come nelle cover di Ella Fitzgerald, The Smiths, Bob Dylan, o Leonard Cohen. Il segreto allora era catturare, saccheggiare, rubare dai grandi per un’ibrido confuso e felice che è volato oltre le acque imperdonabili del Missisipi, per planare ancora dopo vent’anni su una moltitudine di ascoltatori volenterosi a riscoprire e innamorarsi di un artista dal destino segnato.

Merri Cyr, con una carriera artistica di tutto rispetto, ha fin dal primo incontro, sostenuto che Jeff Buckey fosse stata una persona dal talento e dal fascino innati. Una sorta di calamita silenziosa e di forte attrazione ha caratterizzato la sinergia tra i due. La Cyr ha immortalato Buckley, nei momenti più intimi, restituendoci un prezioso ritratto sotto forma di diario segreto per immagini. Dalla bellezza impura e dalla tristezza graffiante, Buckley al supermercato, disteso sul divano, distratto o annoiato, al telefono o nascosto, semplicemente perso nella propria vanità di artista, nella propria grazia, nella propria aura. Aggrappato al microfono come si fa con la speranza. Un erotismo sottile e fragile, ma travolgente e decadente. Nella parole della stessa Cyr si racconta: “Continuava a fissarmi con gli occhi sgranati, sfoggiando una padronanza da attore consumato. Benché detestasse l’idea, era a tutti gli effetti un artista tormentato. (…) io per lui ero una specie di testimone. Un’amica, certo, ma anche una testimone”.

In queste due esposizioni il medium fotografico scopre le attitudini dell’essere artista e ne svela di drammi rimanendone testimone e custode. So real, cattura con discrezione il sottile limen che intercorre tra vita e arte, lì dove il mito giace nei silenzi più incomprensibili; allora ecco che artisti come Merri Cyr o Lee Jaffe riescono ad avvicinarsi alla leggenda, Basquiat e Buckley, con estrema cautela e cura, un’attenzione spasmodica dettata da un feeling umano, un rapporto di voyeurismo che si consuma nella brevità della vita e dello scatto, e che rende sofisticati, preziosi e unici i legami tra anime simili. Perché nella moltitudine delle sue funzionalità l’arte serve anche a riconoscersi.

Federica Fiumelli