Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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venerdì 22 luglio 2016

The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it) @ONO Arte Contemporanea

link: http://julietartmagazine.com/it/events/the-rolling-stones-rock-roll-but-it/





C’è una frase, molto semplice e banale se vogliamo, tratta da una pellicola cinematografica che ben rende l’idea di una generazione devota alla necessità dell’arte. “Gli anni passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.”

Dal film “I love radio rock” di Richard Curtis

“Would it be enough for your cheating heart
If I broke down and cried? If I cried?
I said I know it’s only rock ‘n roll but I like it
I know it’s only rock ‘n roll but I like it, like it, yes, I do
Oh, well, I like it, I like it, I like it”

È in un caldo giorno estivo che fatica a spegnersi, come la rock band più famosa del pianeta, è con con quel ritmo e quell’intensità che la galleria bolognese Ono Arte Contemporanea decide di omaggiare i Rolling Stones attraverso i cinquanta scatti di due pilastri britannici della fotografia, Micheal Putland e Terry O’Neill con la mostra “The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it).
È tra disordine erotico, intimità e aggressività trasbordante che la fusione tra l’eredità del rock anni cinquanta e il blues si sono incontrati nell’arte dei Rolling Stones. Un gruppo talmente mitico che si fatica a esprimere a parole la grandezza di un fare artistico così virale e capace di travolgere e seminare proseliti a distanza di decenni, quasi ci si sente obbligati a inchinarsi a cotanta storia preziosa e globale. Un rock che ha scosso ormoni e coscienze, un rock che ha donato la propria anima al diavolo perché con i perbenismi ci si è pulito la suola consumate delle scarpe. Sono scarpe importanti quelle dei Rolling Stones, scarpe che hanno lasciato passi indelebili nel cuore e negli orecchi di milioni di fans, scarpe che hanno saltato a ritmo di un giro di basso sui palchi più leggendari. Scarpe immortali e impavide.
Terry O’Neill li ha immortalati per le strade di Londra, della “Swinging London” regalandoci alcune delle immagini più famose del gruppo in quella che possiamo definire come la formazione originale e più amata, con Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’oramai leggendario Brian Jones. «Everywhere you looked in London, something was happening». Così ha definito lo stesso O’Neill quel periodo caldo e magmatico, denso, e febbricitante che dalle generazioni a venire, è stato ed è visto come uno dei periodi artistici più prolifici della storia. Un gruppo, quello capiteneggiato dalle labbra carnose e androgine di Mick Jagger, che negli anni’60 ancora vagava nelle strade della capitale britannica alla ricerca di una propria identità estetica specifica, ed elemento certo non di second’ordine, che si trovava a “rivaleggiare” con i rassicuranti e pacifici Beatles. I Rolling Stones tra voglie demoniache e una sessualità espansa, oltraggiosa, coraggiosa, si sono scelti (o sono stati scelti) un’arte sismica, tellurica, capace di scuotere anche lo scettico più ostico e statico. I loro dischi, uno dopo l’altro sono stati mezzi di autentica e originaria conversione al piacere sfrenato e selvaggio. Una libido implacabile ma terribilmente sincera, portatrice sana di una generazione desiderosa e spumeggiante.
È quindi il fotografo O’Neill, batterista jazz, innamorato della musica, arrivato alla fotografia un po’ per caso e necessità dapprima all’interno della British Airways e dopo come fotoreporter, a donarci l’immagine quasi ingenua, intima, di quella che potremmo definire “l’adolescenza artistica” dei Rolling Stones. Il mito prima del mito, i Rolling Stones prima dei Rolling Stones. È stato nel decennio successivo, in tutti gli anni settanta che invece un altro maestro come Micheal Putland è riuscito ad immortalare tra backstage, party e performance l’identità ormai formata è affermata, decisa e grintosa del gruppo. Se i Beatles smisero di fare live nel 1966, la peculiarità targata Rolling Stones è stata sicuramente quella di aver dato smalto e forza al loro essere tramite le performance live. Ed è così ancora oggi. Il decennio dei Settanta ha palesato e dimostrato la potenza di un gruppo musicale devoto a un’unica fede: quella del rock, e gli scatti di Putland, testimoniano la grandezza di un’era, un’atmosfera, un clima dove il mito poteva resistere e ridere in faccia al precariato del successo. Tra una pausa delineata dal fumo di una sigaretta, tra corde di chitarra e microfoni, tra outfit succinti e platee invase da corpi sudati e fanatici, tra sorrisi e passioni stravaganti, l’erotismo sfrenato del rock si fa mito, negli scatti in bianco e nero fissati nella storia dall’occhio di Putland, un artista che di leggende musicali se ne intende bene, solo per ricordare, dal suo obiettivo sono passati personaggi del calibro di Stevie Wonder, David Bowie, Ladies Tea Party, Annie Eve, The Clash, Tom Waits, Bruce Springsteen, Bob Marley, Frank Zappa, Van Morrison, Bee Gees, Nina Simone e tanti altri.
Anche in questa mostra la Ono Arte Contemporanea mette in scena il lato B del vinile, quello più intimo, segreto, quello più privato e inedito, quello meno conosciuto e più godibile, è così che ci viene offerta la possibilità di spiare la storia da un interstizio atemporale, così definirei il mezzo fotografico, uno strumento che grazie alla capacità di maestri appassionati come O’Neill e Putland ci offrono il disvelamento del mito, dei segreti preziosi, delle note sussurrate, oltre la capacità umana di comprendere, lì, l’arte per l’arte aiuta la leggenda a rimanere tale.

Federica Fiumelli








 

giovedì 14 luglio 2016

This must be the place #01 - asse Bologna - Londra




"Never for money, always for love" è così che mi infrango portico dopo portico tra le forme di un tortellino, magari progettato da Depero, e un bicchiere di vino.
Secco va giù meglio, ma non come l'angoscia di chi manca sempre il consiglio giusto.
Giusto? Ma poi cosa? Non lo puoi sapere quando decidi di restare. Non ora, ma qui.
Il mio viaggio non è lontano, è più fedele come un pendolo che frenetico come un minipimer, e radicato come un frutto, ordinario, binario su binario con la maleducazione di chi non sa tacere e il sopismo degli annoiati.
Tutto scorre al bit di un semaforo. E staccho i giorni dal calendario come i post it promessi e dimenticati nella polvere.
Ma a questa città piena di contraddizioni voglio bene, sì perché qui talvolta accadono gesti autentici d'amore. Il romanticismo è sempre disobbediente, l'ho letto di sfuggita da qualche parte e l'ho fatta subito mio, un pensiero maledettamente e squisitamente erotico. Ma digressioni a parte, stavo appunto dicendo che questa città è capace di risolutori atti artistici, veri e propri atti politici.
E ultimamente è stata teatro di un autentico gesto tragico, catartico in grado di far riflettere e far scatenare discussioni, gesti che non si vedevano da tempo.
Quel che piace a me...e quello che porto con me è l'immagine iconoclasta di un artista che in seguito ad una dubbia operazione di marketting (enfasi sulla doppia t) anziché culturale (come quest'ultima invece dichiarava negli intenti) ha cancellato per sempre le proprie opere dal volto di questa città.
Ai più suonerà non certa nuova questa storia, che non deve cessare di essere raccontata come succede troppo spesso nella memoria effimera e di facile dimenticanza, propria delle luci della ribalta tipiche dei social network. E che dire della collaborazione di ragazzi dei centri sociali (e non solo), fianco a fianco a cancellare e rimuovere nel Blu dipinto di grigio? Uniti per un ideale. Questa sì che è una bella immagine del termine "insieme".
"E qualcosa rimane tra le pagine chiare" e tra le strade, un grido molto più forte di tutti gli stilemi convenzionali dell'avido capitalismo. Quanti commenti piovuti in questo grigio, molteplici scagliati senza cognizione di causa, tipica della 'legione di imbecilli' professata da Umberto Eco in merito alla democratica presa di parola concessa dai social; poche le riflessioni precise, puntuali, colme di coscienza critica. Ho la fortuna di essermi formata con persone oneste e competenti e a loro come a questi gesti di romanticismo disobbediente va il mio plauso e la mia stima. La bellezza di un gesto responsabile che porta a farti sentire parte di una comunità, di una collettività.
Ritorna intrepido "Never for money, always for love" esattamente da dove eravamo partiti, siamo tornati per perderci tra i contrasti, come succede alla crème de cassis con il vino bianco. Sai certe notti capita di infrangersi nei suoni che Jeff Mills porta direttamente da Detroit e tu in quel momento sei talmente incosciente, scalza tra i vetri di un amore negato, che ti scoppia il cuore a vedere l'alba sulle tag del Link, la meraviglia amica mia, a qualche meridiano di distanza è anche questa: colmare l'assenza con atti di allucinata consapevolezza come se la mancanza fosse un bicchiere troppo piccolo e lussuoso per contenere la tua sete.
Ho deciso di restare perché anteposte all'orizzonte, le cose sono sfuocate come nelle foto di Brigitte March Niedermair, nate dalla riflessione sulla poetica Morandiana, cerco di mettermi a fuoco, oltre un limite, perché questo forse 'this must be the place'. E so che tu nel silenzio, di fronte a quelle immagini mi avresti capita. Ci si capisce sempre tra le fila immaginarie di un museo.
Le città sono come le scrivanie e come le scelte, sono universi di tediosa ma necessaria ambiguità...che poi io non fumo nemmeno, ma accanto a vecchie polaroid vergini tengo come un reliquiario un pacchetto consunto di marlboro rosse, per fissare il vizio, per sempre. A proposito delle scrivanie, vedi? Siamo pieni di contraddizioni o controindicazioni. Ma è meraviglioso sentirsi irrisolti. E mentre corro frettolosamente a prendere l'ultimo treno, senza disattenzione come senza mascara, arrivo sotto le due signore della città, così alte e imperfette che bucano il cielo, qualcuno passa con il finestrino della macchina abbassato e Patti Smith canta "My generation".

Federica Fiumelli - Bologna


Scegliere di partire non è mai semplice, è difficile scendere al compromesso di lasciare le proprie geografie emotive antropomorfe fatte di luoghi e di persone, per andare a ricrearsi un'esistenza ex novo a migliaia di chilometri più in là.
Scegliere di inseguire un sogno definito sebbene al contempo nebuloso è un atto di coraggio quasi quanto quello di restare. Quando il tempo scorreva veloce e l'ansia del futuro si stringeva a me ho dovuto scegliere se attuare la mia rivoluzione in un'Italia bella ma pietrificata o se scappare via, e andare nella fluida capitale anglosassone. Difficile scegliere, ma non poi così tanto. Era un pomeriggio caldo di inizio autunno ed io ultimavo le conclusioni della mia indagine sulla meraviglia, per mesi mi ero accademicamente interrogata sull'importanza di questa nella filosofia e nelle arti. Quante estenuanti giornate avevo passato ad inseguire per tradizione indiretta il significato ultimo dello stupore. Con l'ultimo sole del pomeriggio la mia meraviglia è arrivata come un'epifania attraverso un passo di Tondelli, quello famoso dell'odore. In un attimo ho capito il da farsi e così, come quando nel 2010 l'odore mi portò in via Paolo Fabbri tra le foglie cadute e destinate a perire ed il profumo dei tortellini di Vito, stavolta questo mi portava inequivocabilmente a Londra. Sono quindi partita, pronta a fare la mia rivoluzione qua.

Overwhelmed dalla possibilità multistimolante che offre la città a volte mi dimentico di stare col naso all'insù, dimentico di essere ricettiva al senso olfattivo e mi perdo nella miriade di altri stimoli sensitivi. In un certo senso mi immergo nella città carica di quel senso di opera d'arte totale professato da Wagner.
Nella metropoli che corre senza sosta mi trovo a sperimentare un rinnovato senso di lentezza dettato dalla consapevolezza di essere finalmente, almeno per un po', al posto giusto nel momento giusto. C'è freddezza nelle persone che ogni mattina, assorte nella loro vita frenetica, attraversano con me la città sotto terra. Sguardi timidi difficilmente seguono un approccio conoscitivo, ognuno teme semplicemente non avere il tempo per conoscere l'alter. Va bene così, questo mi dà il modo di esplorare la piccola fauna sotterranea con cui convivo a stretto contatto per almeno un'ora e mezza tutti i giorni.
"Do you have love for human kind?" cantano le CocoRosie in questa mattinata grigia, le loro voci mi ricordano una serata risalente a due vite fa quando, nel pieno di una frizzante adolescenza, finii ad un loro concerto, non le apprezzai, non quanto ho imparato a fare poi, all'alba dei 25 anni. Ecco, il mio amore per il genere umano l'ho riscoperto qua, nella varietà di una metropoli multiculturale. Il confronto con nuove culture è brevemente diventato il centro della mia ricerca personale.
Parimenti, il panorama artistico che la città ha da offrire è talmente vasto che è difficile non essere travolti dalla ampia scelta. Mi rinnovo ogni giorno, perdendomi in disparate produzioni artistiche, lasciando a casa i pregiudizi e immergendomi con una gioia al sapore di epochè all'interno di tele, installazioni, sculture e performances.
Dopo anni di rifiuto quasi iconoclasta nei confronti di ciò che non era assolutamente contemporaneo ritrovo ad apprezzare ed a ricercare con un fare quasi lussurioso ed avido ciò che mai pensavo avrei apprezzato e mi colgo stupefatta nel ricercare nelle forme antiche i tratti di un concettuale ante litteram che mi travolga e che mi coinvolga in un sentimento di appagamento sinestetico.
Sempre più mi trovo attratta dalla dimensione cromatica dell'arte. A volte, perdondomi davanti ai Rotkho esposti in una sala buia della Tate, provo il desiderio di accendere la luce per potermi acciecare con il colore pigmentato.
A sedere su una delle panche in penombra, chiudo gli occhi e sento, sotto ai piedi, il pavimento in cemento dell'ex seccatoio dimora dei monocromi di Burri. Con il senso tattile della mente, seduta davanti alle opere di Mark, percorro le superfici nere di Alberto, sfiorando con un polpastrello impalpabile ora l'opaco, ora il lucido colore denso e piatto. Il mio viaggio continua e vago con la mente, sono dentro alle dimensioni spaziali e cromatiche di Spalletti e mi interrogo sulla valenza sociale e artistica del medium pittorico.
Il mio odore mi ha condotta a Londra perché è da qua, dal suo sentimento metropolitano permeante, che posso intraprendere una ricerca conoscitiva che mi coinvolga a pieni sensi.
Così, immergendomi nei luoghi che hanno visto nascere la YBA e che, più o meno metaforicamente, sono tappa obbligata per tutta l'arte, sento il bisogno di dover tornare ad interrogarmi sulle roots dell'arte e, nella fattispecie, sulla valenza della pittura stessa. Davanti al letto di Tracy Emin, finalmente in esposizione alla Tate Britain, mi chiedo se la mia rivoluzione non debba ripartire proprio dall'atto pittorico.
Rewind. Riparto da qua, dal colore puro.

Claudia Zanardi - Londra


sabato 25 giugno 2016

Irene Fenara, Se il cielo fugge @ADIACENZE






"Forse sei troppo giovane per capire, alla tua età io non avrei capito, non avrei immaginato che la vita fosse come un gioco che giocavo nella mia infanzia a Buenos Aires, Pessoa è un genio perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell'immaginato, la sua poesia è un juego del revés." 


L'opera Se il cielo fugge della giovane artista bolognese Irene Fenara, pensata per i nuovi spazi di Adiacenze, che dopo sei anni di attività si rilancia e si rimette in gioco con nuove proposte culturali, funziona alla stregua del gioco del rovescio narrato da Antonio Tabucchi. Le puéril revers des choses, la citazione di Lautréamont che apre il libro dello scrittore pisano, ci annuncia e sussurra qualcosa. 


Se il cielo fuggisse veramente saremmo costretti a ridefinire i nostri punti di vista, proprio come ha scritto Maria Vittoria Tagliati nel testo critico dell'esposizione. L'opera accompagnata dalla composizione sonora di Francesco Privato, artista sonoro e dj producer legato alla produzione di musica elettronica e rivolto verso una ricerca artistica più sperimentale, gioca con noi riflettendo sul senso e sull'essere della visione, ma non solo, anche della produzione artistica, come la pittura o la fotografia. L'artista infatti riprende il concetto della fisiologia dell'occhio umano e l'opera diventa una metariflessione sulla rappresentazione.

Che cosa è veramente rovesciato? Chi osserva o chi è osservato? A metà tra il possibile e l'impossibile, l'orizzonte che coniuga mare e cielo diviene limen finissimo, e come una linea incerta pronta al naufragio sembra essere scritturata da Christopher Nolan. La finzione è da sempre l'ombra legata al reale, e la connessione tra le due è talmente importante e imprescindibile che l'arte è sempre pronta a ricordarcelo. 


Entrando nelle stanze di Adiacenze si è subito risucchiati nella vertigine, elemento che funge da cardine nel modus operandi della Fenara. Nella vertigine l'elemento del precario è seducente tanto quanto imminente e la paura di qualcosa di nuovo che spiazza le nostre percezioni stabilizzate è talmente grande che talvolta gestirlo diventa un compito assai arduo. Un video, una proiezione, la partitura sonora, e l'architettura spoglia del luogo espositivo. Questi gli oggetti costitutivi del site specific. E poi i calanchi delle colline bolognesi e il mare di Rimini, i riferimenti geomentali dell'artista. 


La dimensione spazio/tempo si increspa nel movimento vuoto di un mare che è limite e parte complementare e speculare di un cielo che appunto rifugge. Il cielo non sta più inchiodato all'insù e si sveste delle solite certezze, sfida la gravità e si ancora al sogno. L'abbandono affianca così la vertigine in balia di un totale smarrimento. Le convinzioni, come le posizioni vacillano e si disperdono nelle sonorità. 


Cito qui, le parole di Albert Camus in Il mito di Sisifo: "Pensare non è più unificare, render familiare l'apparenza sotto l'aspetto di un grande principio; pensare è imparare nuovamente a vedere, a essere attenti, è dirigere la propria coscienza, fare di ogni idea e di ogni immagine, alla maniera di Proust, un luogo privilegiato".

I paesaggi scelti dall'artista sono appunto luoghi privilegiati, pronti ogni volta a voltarsi, a girarsi, rovesciarsi, capovolgersi, contraddirsi, ribaltarsi e mettersi in discussione. L'unità contraddittoria proposta dalla Fenara ci trascina in una dimensione altra, ristabilendo il gioco come elemento primario per riscoprire le proprie facoltà cognitive. Con audacia e un titolo che farebbe da incipit a una narrazione poetica, Se il cielo fugge non lascia che la voglia di una visione nel e del vuoto. 



A little conversation


Irene, se il cielo fugge, l'artista Fenara dove rifugge? (Se rifugge)

Non tanto la fuga, quanto la caduta mi attrae. Non scappo ma ci cado dentro. Sono, forse, un “cascatore” che precipita, buttandosi, lasciandosi andare, spostandosi dall’alto verso il basso o viceversa, mosso dal proprio peso interiore.

Nella tua poetica, la parola vertigine ha sempre una significanza rilevante e riesci sempre a raccontarla attraverso le tue opere o interventi a colui che osserva, in maniera eloquente. Ce la potresti definire a parole?

Quella che voglio raccontare è una vertigine emotiva e il tentativo di familiarizzare con questa esperienza, che esprimo attraverso la sensazione fisica. Per me una vertigine emotiva è una scelta, è caderci completamente dentro. Familiarizzare con la vertigine significa praticare, conoscere ed esperire la sensazione come fanno i bambini, che trovano una forma di piacere nello smarrimento prodotto dal disequilibrio, dal vortice e dal girotondo. La vertigine, nella sua forte simbologia, consegue la ricerca dell'equilibrio, della stabilità e della felicità, ricerche che non trovano conclusione se non nella comprensione del loro essere fluide e ondulatorie. Un equilibrio fatto di continui bilanciamenti tra gli opposti in un perpetuo movimento. Ed è nel movimento o muovendosi rispetto ad altri oggetti che la vertigine cresce, sui mezzi di trasporto e con la cultura della velocità che accorcia gli spazi e aumenta le possibilità di spostamento. Quando crediamo di poter arrivare dappertutto, di sapere tutto, di avere tutto ribaltare i punti di vista può essere salvifico. Crediamo e pretendiamo di vedere dappertutto ma la visione dipende strettamente dalla gravità e quindi dalla nostra relatività.

C'è un artista che fin da quando ti sei avvicinata all'arte ti ha particolarmente ispirata? E c'è qualcuno che invece ritieni esserti lontano come approccio creativo?

Gli artisti di ispirazione sono tantissimi, mi limito a parlare di quelli che ho guardato molto, prima e durante la costruzione dell’installazione Se il cielo fugge. Mi sono ispirata soprattutto ad artisti come Bruce Nauman e ad artisti che hanno lavorato e lavorano in una situazione intermedia tra arte e cinema con un distacco dai linguaggi codificati a favore di una ricerca formale. Ho guardato la sperimentazione filmica del Cinema strutturale, in particolare quella di Michael Snow. Quello che mi affascina del Cinema strutturale è il perseguimento di forme semplici, in cui è la forma che produce il significato ancora prima del contenuto narrativo che tende ad azzerarsi. Lo strumento linguistico o il linguaggio diventano forme di pensiero in cui gli elementi essenziali che permangono creano il senso. In Se il cielo fugge ho utilizzato un movimento all’indietro e ribaltato che si concentra su una prospettiva centrale. Visivamente la vertigine è causata dalla vista delle linee prospettiche verticali fortemente in fuga. La prima forma di questa vertigine è riscontrabile nella prospettiva rinascimentale nata dall’intersezione sull’orizzonte apparente delle linee di fuga. Le linee fuggono come il cielo. Mi interessa la capacità gravifica della prospettiva, che promette una precipitazione nell’abituale percezione.

C'è un'opera che ha cambiato il tuo modo di guardare, osservare e percepire lo spazio/tempo?

L’opera del filosofo e urbanista esperto di nuove tecnologie Paul Virilio. I suoi scritti sul modo e sulla velocità con cui la tecnologia si sviluppa e influenza tutto il resto, soprattutto la percezione dello spazio-tempo. Mi interessano moltissimo i modi con i quali la tecnologia cambia anche il nostro modo di vedere, sui dispositivi della visione e sulla visione delle macchine. A volte pensando a Vedute, un video che ho fatto nel 2013, non posso non affermare che non avrei potuto idearlo se prima non avessi visto le immagini satellitari di Google Earth. Ho infatti ripreso muri scrostati e ammuffiti aggiungendo alle immagini in movimento l’audio dell’interno di un aereo, come metafora di geografie e paesaggi visti dall’alto. Questo mi fa riflettere sulle infinite modalità con cui la tecnologia agisce e ha agito sulla nostra capacità di osservazione e interpretazione di ciò che ci sta attorno.

In un mondo impossibile, dove tutto è il rovescio di tutto, che immagine possibile può resistere all'apocalisse dell'incomprensione?

Mi viene in mente un racconto per bambini, ambientato in un paese dove tutto è al contrario e in cui i bambini devono tenere in disordine le proprie stanze se non vogliono rischiare di andare a letto senza cena. È una storia che, esasperando certe situazioni, fa riflettere su abitudini che già abbiamo e che fanno sembrare logiche cose assurde, tanto assurde che sembrano già ribaltate per come le conosciamo. Il mito del mondo alla rovescia è ormai consolidato e indica un’aspirazione a orientare e ordinare il mondo in un modo tendenzialmente migliore o semplicemente nuovo. Quello che rimane è forse una consapevolezza sull’importanza della diversità né giusta, né sbagliata semplicemente altra.

Dove fugge l'arte, oggi, secondo la tua visione di giovane artista? Ammesso e concesso che fugga.

L’arte che fugge, scappa da un pericolo. I pericoli sono riscontrabili, forse, nel disorientamento che comporta l’allargamento dei confini dell’arte. Oggi si è aperto un vastissimo orizzonte nel quale è facile perdersi, ma dove si possono anche trovare nuove opportunità. Io credo che le nuove opportunità siano nella produzione o nella messa in evidenza di un qualche tipo di differenza nello sguardo, nel pensiero, nel modo di fare cose e scelte. L’arte è una via che può permettersi di andare a indagare il particolare, il dettaglio, la piccola storia. Diventa un modo di guardare e conoscere il mondo. Il mondo è molto più complesso, sfaccettato e imprevedibile di quel che siamo soliti pensare e forse l’arte, allargando i suoi confini, ci si avvicina.

Federica Fiumelli









Jean Michel Basquiat e Jeff Buckley @ONO ARTE CONTEMPORANEA

link: http://julietartmagazine.com/it/jean-michel-basquiat-jeff-buckley/





A volte è possibile che l’intimità di due numeri primi e rari, dalla vita consumata velocemente, proprio quella che ha permesso loro di entrare nella storia come miti autentici, s’incontri. È il caso delle due esposizioni fotografiche alla Ono arte contemporanea. Jean Michel Basquiat e Jeff Buckley condividono gli stessi spazi l’uno attraverso gli scatti di Lee Jaffe e l’altro di Merri Cyr. Entrambi testimoni di due esistenze disegnate al di fuori dei limiti precostituiti, due artisti che hanno lasciato dietro di sé tantissimi appassionati in grado di riscoprirne ogni volta la grandezza. Due esistenze che hanno trovato più nell’intensità che nella parsimonia il proprio gesto creativo.

“New York, negli anni Ottanta, nei primi anni Ottanta, esprimeva ancora un’ansia di erotismo, infinita, diffusa. O forse, per meglio dire, era proprio un’energia sessuale, dichiarata e convinta. Era una sensualità diretta, fatti di sguardi e complicità, immediata nell’intuizione, affrancata da ogni dipendenza. Ma l’inesprimibile è l’assoluta arrivavano dalle strade. Le strade erano tutto, il Tutto dei bisogni più antichi e evidenti.” Queste le parole di Rosma Scuteri nel libro “New York – anni ottanta- l’arte in presa diretta.”, un testo must per chiunque sia desideroso d’imbattersi e riscoprire le sfumature di quel periodo così spesso rimpianto dai più. Jean Michel Basquiat è stato proprio uno degli artisti protagonisti in quegli anni così maledettamente selvaggi e coraggiosi di una New York fedele alla libido più che al dio denaro. La New York dei club, come il Mudd Club il Club 57, la New York della Factory di Andy Warhol, la New York dei graffitisti e degli street artist, di un acerba Madonna e di Keith Haring, solo per citarne i più celebri.

SAMO acronimo di Same Old Shit, é come si firmava alla fine degli anni Settanta il giovanissimo Basquiat, “Una notte stavamo fumando erba e io dissi qualcosa sul fatto che fosse sempre la stessa merda, The Same Old Shit, SAMO, giusto? Immaginatevi: vendere pacchi di SAMO! È così che iniziò, come uno scherzo tra amici, e poi crebbe.” (JMB, intervista al Village Voice, 1978) La tag SAMO prese sopravvento a SoHo e Tribeca nel 1978 grazie anche a Diaz, writer con lo pseudonimo di Bomb-1. “SAMO come la fine della religione che ti lava il cervello, della politica inconcludente e della falsa filosofia. SAMO come clausola liberatoria, SAMO salva gli idioti, SAMO come la fine del punk in vinile, SAMO come alternativa al fare arte con la setta radical-chic finanziata dai dollari di papà. SAMO come espressione dell’amore spirituale. SAMO per la cosiddetta avanguardia. SAMO fu questo è molto di più, e come tutti i grandi sodalizi d’amore, volse al suo termine nel 1980, con la separazione dei due artisti per diversi diverbi, da quel momento la tag venne utilizzata da Basquiat con “SAMO is dead”.

L’arte di Basquiat così vicina all’art brut di Dubuffet per matericità e istintualità è un cocktail di energia e gestualità primitiva, il tutto racchiuso e fortificato nella e dalla potenza del gesto e del colore. Quest’assurda passione è stata ben immortalata da una altro grande artista eclettico, il newyorkese Lee Jaffe che incontrò Jean – Michel Basquiat nei primi anni Ottanta e lo ritrasse nei loro numerosi viaggi in Svizzera, Tailandia o Giappone, così come nel suo studio di New York nel quale Basquiat lo filmò a sua volta mentre Jaffe realizzava la scultura “Inverted Oak”. È così che un inedito Basquiat nei primi anni di carriera è stato immortalato per sempre, nei momenti di vita quotidiana, tra la pittura in strada e uno sguardo al cielo, con una t-shirt rossa, un sorriso dettato da una inconsapevole straordinarietà e le mani sporche di colore. Un’esistenza giunta al termine un maledetto giorno del 1988, per colpa di una overdose a soli 27 anni.

Altra vita dalla brevità melanconico è quella di Jeff Buckley, morto annegato una notte del 1997 a soli 31 anni. Oggi a distanza di un ventennio dall’album che lo ha consacrato, Grace, gli scatti di Merri Cyr testimoniano l’intima essenza di una voce che ha cambiato il panorama musicale degli inizi degli anni Novanta. Figlio d’arte di un padre che non hai mai conosciuto, Jeff lo ha superato per grandezza e sfortunata bellezza. Un corpo vocale graffiante e straziante in bilico tra il soul e il rock, in grado di contaminare anime musicali diverse per un risultato che trascende la pelle d’oca, come nelle cover di Ella Fitzgerald, The Smiths, Bob Dylan, o Leonard Cohen. Il segreto allora era catturare, saccheggiare, rubare dai grandi per un’ibrido confuso e felice che è volato oltre le acque imperdonabili del Missisipi, per planare ancora dopo vent’anni su una moltitudine di ascoltatori volenterosi a riscoprire e innamorarsi di un artista dal destino segnato.

Merri Cyr, con una carriera artistica di tutto rispetto, ha fin dal primo incontro, sostenuto che Jeff Buckey fosse stata una persona dal talento e dal fascino innati. Una sorta di calamita silenziosa e di forte attrazione ha caratterizzato la sinergia tra i due. La Cyr ha immortalato Buckley, nei momenti più intimi, restituendoci un prezioso ritratto sotto forma di diario segreto per immagini. Dalla bellezza impura e dalla tristezza graffiante, Buckley al supermercato, disteso sul divano, distratto o annoiato, al telefono o nascosto, semplicemente perso nella propria vanità di artista, nella propria grazia, nella propria aura. Aggrappato al microfono come si fa con la speranza. Un erotismo sottile e fragile, ma travolgente e decadente. Nella parole della stessa Cyr si racconta: “Continuava a fissarmi con gli occhi sgranati, sfoggiando una padronanza da attore consumato. Benché detestasse l’idea, era a tutti gli effetti un artista tormentato. (…) io per lui ero una specie di testimone. Un’amica, certo, ma anche una testimone”.

In queste due esposizioni il medium fotografico scopre le attitudini dell’essere artista e ne svela di drammi rimanendone testimone e custode. So real, cattura con discrezione il sottile limen che intercorre tra vita e arte, lì dove il mito giace nei silenzi più incomprensibili; allora ecco che artisti come Merri Cyr o Lee Jaffe riescono ad avvicinarsi alla leggenda, Basquiat e Buckley, con estrema cautela e cura, un’attenzione spasmodica dettata da un feeling umano, un rapporto di voyeurismo che si consuma nella brevità della vita e dello scatto, e che rende sofisticati, preziosi e unici i legami tra anime simili. Perché nella moltitudine delle sue funzionalità l’arte serve anche a riconoscersi.

Federica Fiumelli