C’è una frase, molto semplice e banale
se vogliamo, tratta da una pellicola cinematografica che ben rende
l’idea di una generazione devota alla necessità dell’arte. “Gli anni
passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo
migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro
sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.”
Dal film “I love radio rock” di Richard Curtis
“Would it be enough for your cheating heart
If I broke down and cried? If I cried?
I said I know it’s only rock ‘n roll but I like it
I know it’s only rock ‘n roll but I like it, like it, yes, I do
Oh, well, I like it, I like it, I like it”
È in un caldo giorno estivo che fatica a
spegnersi, come la rock band più famosa del pianeta, è con con quel
ritmo e quell’intensità che la galleria bolognese Ono Arte Contemporanea
decide di omaggiare i Rolling Stones attraverso i cinquanta scatti di
due pilastri britannici della fotografia, Micheal Putland e Terry
O’Neill con la mostra “The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but
I like it).
È tra disordine erotico, intimità e
aggressività trasbordante che la fusione tra l’eredità del rock anni
cinquanta e il blues si sono incontrati nell’arte dei Rolling Stones. Un
gruppo talmente mitico che si fatica a esprimere a parole la grandezza
di un fare artistico così virale e capace di travolgere e seminare
proseliti a distanza di decenni, quasi ci si sente obbligati a
inchinarsi a cotanta storia preziosa e globale. Un rock che ha scosso
ormoni e coscienze, un rock che ha donato la propria anima al diavolo
perché con i perbenismi ci si è pulito la suola consumate delle scarpe.
Sono scarpe importanti quelle dei Rolling Stones, scarpe che hanno
lasciato passi indelebili nel cuore e negli orecchi di milioni di fans,
scarpe che hanno saltato a ritmo di un giro di basso sui palchi più
leggendari. Scarpe immortali e impavide.
Terry O’Neill li ha immortalati per le
strade di Londra, della “Swinging London” regalandoci alcune delle
immagini più famose del gruppo in quella che possiamo definire come la
formazione originale e più amata, con Mick Jagger, Keith Richards,
Charlie Watts, Bill Wyman e l’oramai leggendario Brian Jones.
«Everywhere you looked in London, something was happening». Così ha
definito lo stesso O’Neill quel periodo caldo e magmatico, denso, e
febbricitante che dalle generazioni a venire, è stato ed è visto come
uno dei periodi artistici più prolifici della storia. Un gruppo, quello
capiteneggiato dalle labbra carnose e androgine di Mick Jagger, che
negli anni’60 ancora vagava nelle strade della capitale britannica alla
ricerca di una propria identità estetica specifica, ed elemento certo
non di second’ordine, che si trovava a “rivaleggiare” con i rassicuranti
e pacifici Beatles. I Rolling Stones tra voglie demoniache e una
sessualità espansa, oltraggiosa, coraggiosa, si sono scelti (o sono
stati scelti) un’arte sismica, tellurica, capace di scuotere anche lo
scettico più ostico e statico. I loro dischi, uno dopo l’altro sono
stati mezzi di autentica e originaria conversione al piacere sfrenato e
selvaggio. Una libido implacabile ma terribilmente sincera, portatrice
sana di una generazione desiderosa e spumeggiante.
È quindi il fotografo O’Neill,
batterista jazz, innamorato della musica, arrivato alla fotografia un
po’ per caso e necessità dapprima all’interno della British Airways e
dopo come fotoreporter, a donarci l’immagine quasi ingenua, intima, di
quella che potremmo definire “l’adolescenza artistica” dei Rolling
Stones. Il mito prima del mito, i Rolling Stones prima dei Rolling
Stones. È stato nel decennio successivo, in tutti gli anni settanta che
invece un altro maestro come Micheal Putland è riuscito ad immortalare
tra backstage, party e performance l’identità ormai formata è affermata,
decisa e grintosa del gruppo. Se i Beatles smisero di fare live nel
1966, la peculiarità targata Rolling Stones è stata sicuramente quella
di aver dato smalto e forza al loro essere tramite le performance live.
Ed è così ancora oggi. Il decennio dei Settanta ha palesato e dimostrato
la potenza di un gruppo musicale devoto a un’unica fede: quella del
rock, e gli scatti di Putland, testimoniano la grandezza di un’era,
un’atmosfera, un clima dove il mito poteva resistere e ridere in faccia
al precariato del successo. Tra una pausa delineata dal fumo di una
sigaretta, tra corde di chitarra e microfoni, tra outfit succinti e
platee invase da corpi sudati e fanatici, tra sorrisi e passioni
stravaganti, l’erotismo sfrenato del rock si fa mito, negli scatti in
bianco e nero fissati nella storia dall’occhio di Putland, un artista
che di leggende musicali se ne intende bene, solo per ricordare, dal suo
obiettivo sono passati personaggi del calibro di Stevie Wonder, David
Bowie, Ladies Tea Party, Annie Eve, The Clash, Tom Waits, Bruce
Springsteen, Bob Marley, Frank Zappa, Van Morrison, Bee Gees, Nina
Simone e tanti altri.
Anche in questa mostra la Ono Arte
Contemporanea mette in scena il lato B del vinile, quello più intimo,
segreto, quello più privato e inedito, quello meno conosciuto e più
godibile, è così che ci viene offerta la possibilità di spiare la storia
da un interstizio atemporale, così definirei il mezzo fotografico, uno
strumento che grazie alla capacità di maestri appassionati come O’Neill e
Putland ci offrono il disvelamento del mito, dei segreti preziosi,
delle note sussurrate, oltre la capacità umana di comprendere, lì,
l’arte per l’arte aiuta la leggenda a rimanere tale.
Federica Fiumelli
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