Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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martedì 6 dicembre 2016

Porto dell'arte. Arte in appartamento. A Bologna. Intervista con i fondatori.





Irene Angenica e Davide Da Pieve sono i due giovani fondatori di Porto dell’Arte – Appuntamento per la promozione di artisti in appartamento nato dalla volontà di promuovere artisti attraverso una serie di eventi espositivi che si svolgeranno all’interno di un appartamento abitato, nel cuore di Bologna. Un progetto-scommessa che vuole essere soprattutto un dialogo-sfida con l’artista messo alla prova con gli spazi domestici, ma anche una differente modalità di fruizione per i visitatori.
Porto dell’arte nasce quest’anno sotto l’insegna della ricerca e della condivisione. Potreste raccontarci la genesi del progetto, e perché avete deciso di dargli questo nome?

Cominciamo dal nome, apparentemente banale perché l’appartamento si trova in via del Porto, ma è stato scelto per il suo valore metaforico di luogo di scambio, di crocevia. Il nostro intento è quello di permettere ai giovani artisti di fare esperienza per poter salpare, per rimanere in metafora, verso destinazioni più grandi.
Sia tu che Davide avete avuto e avete importanti collaborazioni ed esperienze formative con istituzioni artistiche sia all’estero che in Italia. Quando avete deciso di far nascere questo progetto con la volontà di proporre arte in uno spazio domestico vi siete ispirati a qualche particolare realtà? Avete qualche modello di riferimento che sia italiano o straniero?

In realtà la volontà è un po’ quella di rompere con altri luoghi espositivi di questo genere. Noi non siamo né una Home Gallery e tantomeno uno di quei luoghi espositivi casalinghi in cui i proprietari trasformano le stanze in temporanei white cube. Ci siamo documentati sul fenomeno delle mostre in appartamento, ma è difficile ricondurre a una sola esperienza ciò che noi vogliamo fare. Per prima cosa abbiamo delineato delle strade molto precise sia critiche, sia curatoriali; selezioniamo esclusivamente progetti installativi e performativi, perché instaurano un particolare legame con l’ambiente in cui nascono. Gli artisti lavoreranno in un uno spazio fortemente connotato con lo scopo di intrecciare la loro ricerca, il loro stile, con ciò che già si trova nell’appartamento.
Essere in qualche modo uno spazio indipendente, dalle scelte di gestione a quelle curatoriali comporta una grande libertà. Come considerate la pratica curatoriale delle nuove generazioni? Avete anche in questo caso qualche persona che stimate? Che ruolo ritenete abbia la curatela oggi? E rispetto alla critica?

Siamo ben felici di vedere che sta tornando sempre più in voga la pratica di artisti che investono il ruolo di curatore per altri artisti. Questa è una pratica molto vecchia, già nell’Ottocento troviamo i primi “artisti-curatori”, ma resta un fatto molto affascinante e solidale. Noi tentiamo di lasciare un grado di libertà molto alto agli artisti, la nostra è una fucina per giovani, quindi diamo la possibilità di fare un’esperienza espositiva vera e propria: lo scambio di idee, il dialogo sono elementi fondamentali per la creazione e realizzazione dell’opera, ma, una volta effettuata la nostra selezione, cerchiamo di interferire il meno possibile.
A proposito di critica, avete deciso di non accompagnare le esposizioni con alcun testo critico, nemmeno su sito e sui social dando così importanza alla relazione che si instaura nell’atto dell’accadimento che avviene nell’incontro tra artista e spazio, e tra fruitore ed opera. Come mai?

Praticamente ti sei risposta da sola. La nostra volontà è proprio quella di creare un rapporto diretto e in qualche modo speciale tra il visitatore e l’opera esposta. Non c’è dubbio che oggi l’atto critico stia sempre più relegato alla scelta, alla selezione di un’artista, ma la nostra situazione, all’interno di un appartamento, è molto diversa. Quando apri la porta il visitatore diventa un ospite, egli varca la soglia di uno spazio privato che ha delle implicazioni e specificità che altri luoghi non hanno. Dunque accogliere le persone diventa un fatto verbale e la presentazione dell’opera giunge da sé. Nel corso delle nostre mostre non troverete dunque i classici “fogli di sala” ma un invito al dialogo; aspetto che abbiamo cercato di mantenere anche in rete, presentando il lavoro in modo diretto, solo attraverso immagini e video, sfruttando così l’immediatezza e la dinamicità che caratterizza la fruizione dei contenuti presenti online. Stiamo comunque lavorando per la pubblicazione di una raccolta di testi critici che documenterà tutte le prime esperienze di Porto dell’Arte.
Paolo Bufalini, il collettivo CHMOD e Simone Tacconelli sono stati i primi ospiti di Porto dell’arte. Che rapporto avete instaurato con gli artisti e soprattutto come definireste il lavoro che hanno deciso di presentare?

Gli artisti sono sempre nostri coetanei questo ci aiuta a creare dei rapporti paritari, si finisce col diventare subito amici. I lavori che ci vengono presentati nascono sempre da un dialogo tra noi, gli artisti e l’ambiente domestico. Paolo, Simone e il collettivo Chmod sono riusciti ad affrontare lo spazio dato modificandolo e interpretandolo secondo il proprio stile e la propria poetica. Nonostante la diversità dei lavori presentati, la necessità di sperimentare è stata continua e costante creando un buon dialogo con l’ambiente circostante.

Porto dell’arte nasce in un preciso contesto culturale. Come vedete inserita, una realtà come la vostra, all’interno di una città come Bologna, con una precisa storia e un preciso background culturale? E soprattutto perché proprio Bologna? Per necessità di studio e lavorative o perché ritenete che sia ancora una città sulla quale si possa investire e scommettere?

Un po’ entrambe le cose. Studiamo e lavoriamo a Bologna e pensiamo che questa sia una città dove i giovani sono sempre in fermento. Proporre nuove esposizioni significa voler dare una voce in più alla cultura di questa città, creare la possibilità di mettere in pratica un sfida ulteriore, per giunta in uno spazio angusto e più complesso rispetto alla norma.

Porto dell’arte si presenta allo stato attuale come un interstizio flessibile e prismatico all’interno del quale tutto (dallo spazio domestico all’opera proposta) interagisce con l’altro. Che feedback avete ricevuto dai visitatori, dagli artisti e dagli altri operatori culturali in queste vostre prime esposizioni? E che obiettivi si pone, porto dell’arte nel futuro prossimo?

Abbiamo ospitato molti visitatori, alcuni di essi estranei al mondo dell’arte contemporanea e soprattutto siamo riusciti a coinvolgere molti giovani. Secondo noi questo è un punto a nostro favore, vuol dire che stiamo facendo un lavoro che coinvolge la nostra generazione. Allo stesso modo artisti, docenti, operatori culturali e alcuni galleristi stanno frequentando il nostro spazio e, anche da parte loro, fin ora abbiamo ricevuto solo feedback positivi, ma attendiamo ansiosi anche quelli negativi, spesso più costruttivi e stimolanti! Per quanto riguardo il futuro, abbiamo già una serie di mostre programmate che sveleremo di volta in volta e speriamo che l’attenzione resti alta come è successo sin ora.

Ultimissima domanda, siete entrambi molto giovani e sappiamo bene come sia difficile lavorare nell’ambito culturale, tant’è che cimentarsi in attività di questo genere diviene quasi un atto di coraggio. Cosa vi ha portato ad appassionarvi all’arte? 

I: La mia passione per l’arte è stata graduale, non c’è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Sicuramente le personalità che hanno influito a fomentare questa mia passione sono state tante, impossibili da citare tutte, ma se c’è un artista a cui potrei accendere un lumino devozionale quello è sicuramente Kurt Schwitters.
D: Ho frequentato una scuola d’arte già dalle superiori, e al contempo ho sempre saputo che non avrei mai fatto l’artista. Penso sia fondamentale non riflettere solo sul pensiero di un critico o di un artista, ma al contrario, è importante cercare sempre nuovi stimoli per migliorarsi e proseguire la propria strada.

Federica Fiumelli












Sophie Ko. Geografie temporali. Terra






12 NOV 2016
di
 
Eraclito sosteneva che il tempo fosse un gioco splendidamente giocato dai bambini, secondo Romano Battaglia invece il tempo era come un fiocco di neve, scompare mentre cerchiamo di decidere di cosa farne, Charles Dickens lo paragonava a uno dei più antichi tessitori.
Le Geografie Temporali dell'artista georgiana Sophie Ko, per la prima volta a Bologna, alla Galleria de' Foscherari, sono il tempo dell'immagine. La mostra riflette su quello che il contemporaneo soffre, e cioè la mancanza di tempo e la sovrabbondanza di immagini, due poli opposti antitetici che mirano a sottolineare un bisogno, una necessità di ascolto dell'origine, di un'essenzialità perduta sotto i fasti di un logorroico e isterico capitalismo.
Quello che si chiede di accogliere con questa esposizione, è l'ascolto, il silenzio, la materia, la terra. Questa mostra vuole essere un viaggio nel naufragio dell'esistenza, ma non in senso nichilistico, anzi, quella alla quale siamo invitati, è una visione microscopica del senso della rinascita; il senso della dicotomia, della contraddizione, di essere inizio e fine in un continuum sinestetico.
I lavori esposti, sono composti da pigmenti puri e/o da ceneri derivanti da combustioni di immagini, solo Kaspar Hauser, è l'unico acquarello dove la dimensione figurativa viene recuperata. È proprio questo lavoro che fa da anello di apertura o chiusura a questo viaggio espositivo, il mito della figura di Kaspar Hauser, è una presenza umana minuscola, fragile, in balia di un silenzioso bianco, alla ricerca di una terra perduta o promessa, il mito moderno e romantico dell'uomo avvolto dalla totalità del cosmo ci orienta a una complessità stratificata, ardua, Kaspar Hauser diviene lo snodo di passaggio, il punto centrale delle clessidra, dove il corpo si affusola per permettere alla sabbia di passare. E allora il tempo sottile, scorre, passa, corrode, sfila, scivola, scappa da noi e insieme a noi, per altri luoghi, altre mete, altri spazi dove potersi compiere.
L'uomo accende a se stesso una luce nella notte, Atlanti, Terra e Stella polare, i titoli dei lavori, aprono e introducono chiaramente al significato della poetica dell'artista, una ricerca volta all'essenza vibrante della materia, alla costituzione più intima dell'uomo, Le geografie temporali della Ko sono storie epiche che stanno all'origine della narrazione, a un passo, un soffio, poco prima della parola. Le teche verticali contenenti le ceneri si dispongono allineate una a fianco all'altro, come un'eco. Solo con Atlanti la verticalità viene abbandonata per fare posto a una trasversalità aguzza, appuntita, serrata e decisa come nei profili della Scogliera sulla costa di Caspar David Friedrich. I riferimenti della Ko sono colti, dalla pittura sino alla letteratura, la maestosità tumultuosa di queste impronte nella polvere celebrano un'intensità pari ai versi di Rilke o alle sinfonie di Felix Mendelsshon, in particolare cito l'overture Die Hebriden Op. 26.
Le geografie mutano con il tempo e vertono sul concetto di limite, quello che intercorre tra visibile e invisibile, tra noumeno e fenomeno, tra dentro e fuori dal tempo. Le geografie temporali sono esse stesse tempo, tra concetto e spirito, contengono in sé contraddizioni e pluralità, sono esse stesse immagini, combustioni, resti delle stesse, per poi divenire eleganti fenici e rinascere come nuove immagini. "Che cosa resta delle immagini quando se ne è fatto scempio? Cenere e colore." Ci invocano ad avere cura della nostra cenere, in un momento di massima usura delle immagini, qui ci si interroga sul valore più alto e più ampio della visione.
Come afferma il curatore, Federico Ferrari in Finis initium, "la cenere è quel che resta, quel che ci resta", la Ko iconoclasta e iconofila allo stesso tempo, ci conduce sul filo del paradosso proprio di ogni costituzione dell'essere.
Come cavalieri düreriani nella sala delle tredici Geografie temporali di Terra ci troviamo avvolti e sopraffatti dalla profondità di essa, come anime osserviamo la caducità propria del guardare, dell'esperire, del vivere stesso, è come avere un punto privilegiato per osservare la fine, la cessazione, la consunzione, l'abrasione, la morte, come ultimo atto. Dal fondo del sepolcro, scalzi, rimiriamo e avvertiamo il sublime, l'enigma, l'impercettibile mutare del tempo che intraducibile, si traduce difatti con le crepe tra le masse di cenere e pigmento, come rughe, come corpi attraversati da rivoli di memoria, si fanno carne e sguardo frammentato, impalpabile. Le Geografie sono corpi e lembi di materia residuale, a metà tra la fantasmagoria e il reale.
"La materia, il colore, tracciano una - iconografia dell'invisto - come ribadisce Ferrari, è come se l'artista ci affidasse una mappa con l'unica istruzione di perdersi. E come il tempo gioca con la cenere, cambiandone forme e destini, come i bambini con la sabbia, anche noi giochiamo a perderci come Kaspar Hauser, naufraghi nella cosmogonica attitudine dell'arte.










lunedì 7 novembre 2016

Un interno di design bolognese. Viaggio surreale attraverso uno spazio reinterpretato





di
 
In occasione della seconda edizione della Bologna Design Week, lo spazio dell’associazione culturale ABC ha proposto una lettura trasversale e cinematografica del design. Il progetto a cura di Fausto Savoretti, Lucilla Boschi e Fabio Fornasari è stato un autentico viaggio nel design “bolognese” degli anni ’50 e ’60: un’epoca pionieristica nei confronti delle innovazioni estetiche, e non di ultima importanza, la mostra ha voluto essere un esplicito omaggio a personaggi di rilievo come Gianpaolo Gazziero e Dino Gavina. 

L’esposizione ha raccolto pezzi unici provenienti dalla collezione di Gazziero, insieme a interventi grafici e testuali a cura del duo Boschi–Fornasari di Lif3. Questa unione è stata proprio il punto di forza del progetto: allo stesso tempo si è indagato su concetti differenti come il collezionismo, la natura dell’oggetto di design, il voyeurismo, ma tutti aventi un comune denominatore, e cioè la passione intrinseca all’atto del guardare, l’illusione del possesso tramite lo sguardo che concretizza così attraverso forme e parole. 

Quello che si è ricreato negli spazi di ABC è così a sua volta uno spazio di meta riflessione. “Le cose più ovvie sono invisibili agli occhi”, e così l’esposizione è divenuta un gioco di metafore e rimandi, un gioco surrealista che ci ha accolto in una possibile camera da letto con lo specchio – Les grands trans-parents di Man Ray. Oltre alla superficie riflettente, infatti era presente il letto dal profilo essenziale e di rara colorazione, Vanessa del 1959, pensato da Tobia Scarpa, poco più a lato invece, Broadway, la sedia tentacolare del 1993 di Gaetano Pesce, prodotta da Bernini. Accostamenti in punta di piedi in grado di rilevare l’importanza del gusto e del godimento estetico connaturato al collezionismo. 

Dalla seduzione notturna e sfocata, stratificata e velata, si è susseguita un'altra ipotesi di interno (perché di ipotesi si parla in questa mostra, di costruzioni precarie e molteplici), questa volta il soggiorno della GUFRAM con il celebre e iconico divano Bocca del 1970, ispirato al ritratto di Mae West di Salvador Dalì, e come compagna la lampada Big Shadow di Marcel Wanders dal colore rosso pastello acceso, un colore oggi fuori produzione. Di rarità sofisticata anche il tavolino Traccia, progettato da un’altra grande devota surrealista, Meret Oppenheim, un oggetto parte della collezione Ultramobile voluta da Dino Gavina. 

Bologna è ritornata invece, in questo viaggio di spazi reinterpretati, nelle ceramiche di Pastore e Bovina, fondatori dello studio Elica, un luogo di sperimentazione e ricerca per quanto riguarda tutte le diverse arti, dalla scultura, alla musica, alla moda, alla poesia e al teatro. Un interno di design bolognese, si è posto come spazio di narrazione attivo, tramite il quale il fruitore voyeur ha riscoperto l’oggetto di design come qualcosa di diverso dalla concezione stereotipata legata a un’idea di serialità asfittica. Quel che qui si è desiderato trasmettere, è la diversità intrinseca agli oggetti di origine seriale. 

Come hanno sottolineato Lucilla Boschi e Fabio Fornasari, già il surrealismo aveva capito che le cose emanano sempre qualcosa di differente, “di diverso rispetto all’eco della loro stessa visione”. “La serialità degli oggetti industriali che si caratterizza attraverso il processo che li ha prodotti (design) si è trasformata in serialità di natura narrativa (fiction)”. Se veniamo sedotti da oggetti di indiscutibile bellezza e carisma, come succede anche con le opere d’arte, un buon disco o un ottimo film, è vero che la necessità di sguardo provoca, a detta degli stessi curatori, un comportamento proprio di soggetti colpevoli. Ecco così che diveniamo “ladri di intimità” e come rei non ancora confessi ci troviamo sul luogo del delitto. 

In questa esposizione è stata forte un’idea hitchcockiana di produzione e ricezione di sguardo. Gli spazi di ABC si sono trasformati in una pellicola in bianco e nero dove noi, concreti spioni, abbiamo osservato e saccheggiato dettagli visivi dello e dallo spazio reinterpretato che altro non è che una finestra sul cortile. Un appunto recitava: “Basta che qualcosa mi significhi che qualcuno può essere là. Questa finestra, se fa un po’ buio, e se vi sono ragioni per pensare che vi sia qualcuno dietro, è già, sin d’ora uno sguardo”. 

Accanto, il libro di Slavoj Zizek, Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi è stato aperto proprio su pagine riportanti riflessioni che si scoprono essere aspetti costitutivi dell’esposizione. I curatori alla stregua di Hitchcock sono partiti da un insieme di sinthomi, motivi (solitamente visivi) che tormentano l’immaginazione, pretesti di una narrazione che accade (come la vita) solo in un secondo momento. “Hitchcock inventava storie solo per poter girare un certo tipo di scene”. 

Così negli spazi di ABC, libri, oggetti, immagini, da polaroid di Tarkovskij a Richter si sono alternati come sinthomi di una narrazione sospesa e fusa tra specchi e sguardi. Nell’ambiente si sono spartiti l’idea di uno spazio condiviso La joie est le la clef du bonheur, un vinile e un pensiero di Le Corbusier, le Empty words di John Cage e Le parole nel vuoto di Adolf Loos ancora imbustato, sospeso in aria, mai letto, ma conservato, come si conserva il non detto.

Tutto questo ha tessuto un ordito di pensieri in divenire, in vertigine. Il design si è acceso di seduzione e delittuosità, ma di una cosa non dobbiamo essere assolutamente colpevoli come ha giustamente ricordato e sottolineato Gianpaolo Gazziero, di considerare il prodotto di design come qualcosa di elitario, di distante dalla quotidianità, dobbiamo invece imparare a frequentarlo di più, a possederlo, come si fa con la bellezza. Uno sguardo dalla finestra.









martedì 27 settembre 2016

Helene Appel. Washing Up @P420





La vita silenziosa degli oggetti cede il passo alla descrizione minuziosa piuttosto che alla narrazione, per concedersi il lusso dello sforzo, della pazienza e del silenzio, propri di una rigorosa contemplazione dell’inafferrabilità del reale.


La pittura della giovane artista tedesca Helene Appel si appresta come una preghiera laica all’occhio di colui che osserva. Ci si trova come d’inganno, sedotti dalle tele granulose volte a celebrare singolarmente oggetti apparentemente banali, d’indubbio fascino, oggetti quasi borderline, non meritevoli di una superficie-palcoscenico che diviene teatro di un’epifania mondana.

Le nature morte della Appel sono ogni volta studiate, vivisezionate, descritte con una lucidità formale tipica di un freddo iperrealismo; quando il reale diviene più reale dello stesso, accade che il velo di Maya, di memoria Schopenauriana ritorna alla menti, offrendosi e disvelandosi all’occorrenza per interrogarsi e scivolare criticamente tra quei piani che da sempre la pittura dicotomicamente relaziona, ovvero l’essere realtà e l’illusione. Queste, nei lavori dell’artista, compenetrano alternando stati di trasparenza a quelli di fitta densità. Gli oggetti eletti, solo per citarne alcuni: reti da pesca, stracci, farine, acqua di mare, lavelli di cucina, pasta, fette di carne o di pane. Dal generale al particolare, dai luoghi ai dettagli compositivi. Il processo pittorico è metafora di uno sguardo al microscopio della quotidianità più derisa dall’attenzione. Elementi poveri che pongono questioni di una sostanza diametralmente opposta, questioni riccamente complesse si ergono nei confronti del medium pittorico e della superficie stessa. Nel caso di Plastic Lid, noi possiamo vedere oltre, attraverso la trasparenza del soggetto, un coperchio di plastica, ma in realtà il corpo a corpo con l’altro elemento, la tela, si presenta enigmatico e perturbante. La sensazione di vedere e scoprire la superficie è meramente illusoria. Il s’(oggetto) non esiste e tutto è superficie.

In corpi trasparenti come i coperchi, la schiuma delle onde, la rete da pesca, o l’acqua, l’artista gioca con l’elemento dell’ambiguità, disvelando e creando continuamente allusioni e illusioni sul teatro del s-oggetto eletto. 
I protagonisti delle pitture sono a tutti gli effetti corpi, visti da una prospettiva aerea, dall’alto, offertici allo sguardo con pulviscolare autenticità. Le reti da pesca, sinuose ingannano lo spazio, come fili pervasi da un elettrica sensualità amorfa, possiedono la superficie pittorica scivolando sulla tela e lavandola da orpelli inutili. La pittura della Appel non è una pittura dello spreco, il suo è un gesto di conservazione, un gesto fedele a un unico elemento per volta, per non perdere il dettaglio, la sfumatura, l’anatomia di ogni singolo interstizio formale. Una pittura che fa del gesto una tessitura di un tempo dilatato, in un contemporaneo che sempre di più si libera della lentezza vista quasi come una sconfitta dal capitalismo. 
La pittura dell’artista tedesca è anticapitalista perché si sofferma in uno spazio di riflessione autentico e originario, lì dove l’occhio passa disinteressato. Nell’usato, nel consunto, o nel naturale, quel qualcosa abbandonato dall’attenzione ci risparmia da tutto l’eccesso, da tutto l’inquinamento visivo a cui siamo quotidianamente sottoposti. La quotidianità della Appel è una quotidianità depurata, lavata via, sciacquata, ripulita, dal gesto pittorico (talvolta)visto dallo sfrenato contemporaneo obsoleto-obso-lento.

Se attraverso i momenti di trasparenza la superficie ci sembra disvelata, e sembra concedersi, in lavori come Bread o Meat, la pittura ci nega lo spazio della tela. Le fette di pane o carne occupano tutta la superficie a disposizione vietandoci così l’accesso alla granulosità della materia sottostante. Le venature e le fioriture rossastre dei pezzi di carne in un ambiguo trompe-l’oeil ci introducono in una dimensione corporea, facendo sviluppare in noi l’esigenza tattile. Le pitture della Appel sono tempi aptici, scultorei, ma nello stesso momento densi di vibrazioni umane. Gli oggetti dalla vita silenziosa, ci ricordano seppur in diversa maniera, uno dei grandi maestri bolognesi, come Giorgio Morandi, che delle cose e dei tempi lunghi di posa ha saputo regalare alla storia dell’arte contemporanea, un attimo di respiro profondo, di quiete immensa e di uno sguardo umano capace di soffermarsi lì dove solo la pittura restituisce un’essenza mai assente. Le superfici e i s(oggetti) della Appel sono presenti non solo nel momento stesso del loro accadimento ma nella prosecuzione dell’attimo, che come in un fotogramma viene impresso per sempre. 

L’artista svolge attraverso i suoi lavori, una splendida riflessione di matrice semiotica sul senso stesso del dipingere. Nella splendida raccolta di saggi firmati da Louis Marin “Della rappresentazione”, il capitolo dedicato all’ “Elogio dell’apparenza” riprende le tesi della studiosa Svetlana Alpers e del suo libro sull’arte olandese del XVII secolo del 1984 intitolato “Arte del descrivere”. In questo testo, la Alpers mette a confronto due modelli di pittura, quello albertiano, basato su un determinato tipo di prospettiva, con una volontà di narrazione e quello della pittura olandese, volto a descrivere minuziosamente un’arte composta da superfici. Scrive Marin: “È come se il mondo nelle sue apparenze, con la propria superficie, si mostrasse da sé sulla superficie della tela, si auto duplicasse per produrre la propria esatta replica sotto l’occhio affascinato e attento dello spettatore testimone: l’artista, che non ha avuto altra funzione, altro compito, che quello di essere – come avrebbe voluto Stendhal, due secoli dopo, nei suoi romanzi – “uno specchio che si porta lungo la strada”. Scrive ancora: “Ritorno alla superficie, dunque: questa sarebbe la parola d’ordine della “nuova storia dell’arte”, che troverebbe con il libro della Alpers e nella pittura olandese del XVII secolo da lei studiata, l’oggetto storicamente, culturalmente, esteticamente e teoricamente privilegiato per costruire i propri modelli operativi: la superficie come luogo ambivalente, al tempo stesso opera di pittura e manifestazione del mondo, immagine e cosa, in breve, lo spazio degli indici, delle tracce, delle marche.”

Aggiungo quindi che la pittura della giovane artista tedesca sia una pittura estremamente in linea con gli stilemi contemporanei per l’intrinseca peculiarità fotografica, caratteristica che pervade gran parte dell’arte prodotta ai giorni nostri. Le pitture della Appel sono depositi di materia viva che lavano, puliscono e tutelano l’occhio dall’inganno del caos dell’oggi. 
La superficie delle cose diviene ricerca ostinata di un presente in perenne fuga.

In mostra alla galleria P420 di Bologna dal 24 Settembre al 5 Novembre

Federica Fiumelli







 

venerdì 22 luglio 2016

The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it) @ONO Arte Contemporanea

link: http://julietartmagazine.com/it/events/the-rolling-stones-rock-roll-but-it/





C’è una frase, molto semplice e banale se vogliamo, tratta da una pellicola cinematografica che ben rende l’idea di una generazione devota alla necessità dell’arte. “Gli anni passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.”

Dal film “I love radio rock” di Richard Curtis

“Would it be enough for your cheating heart
If I broke down and cried? If I cried?
I said I know it’s only rock ‘n roll but I like it
I know it’s only rock ‘n roll but I like it, like it, yes, I do
Oh, well, I like it, I like it, I like it”

È in un caldo giorno estivo che fatica a spegnersi, come la rock band più famosa del pianeta, è con con quel ritmo e quell’intensità che la galleria bolognese Ono Arte Contemporanea decide di omaggiare i Rolling Stones attraverso i cinquanta scatti di due pilastri britannici della fotografia, Micheal Putland e Terry O’Neill con la mostra “The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it).
È tra disordine erotico, intimità e aggressività trasbordante che la fusione tra l’eredità del rock anni cinquanta e il blues si sono incontrati nell’arte dei Rolling Stones. Un gruppo talmente mitico che si fatica a esprimere a parole la grandezza di un fare artistico così virale e capace di travolgere e seminare proseliti a distanza di decenni, quasi ci si sente obbligati a inchinarsi a cotanta storia preziosa e globale. Un rock che ha scosso ormoni e coscienze, un rock che ha donato la propria anima al diavolo perché con i perbenismi ci si è pulito la suola consumate delle scarpe. Sono scarpe importanti quelle dei Rolling Stones, scarpe che hanno lasciato passi indelebili nel cuore e negli orecchi di milioni di fans, scarpe che hanno saltato a ritmo di un giro di basso sui palchi più leggendari. Scarpe immortali e impavide.
Terry O’Neill li ha immortalati per le strade di Londra, della “Swinging London” regalandoci alcune delle immagini più famose del gruppo in quella che possiamo definire come la formazione originale e più amata, con Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’oramai leggendario Brian Jones. «Everywhere you looked in London, something was happening». Così ha definito lo stesso O’Neill quel periodo caldo e magmatico, denso, e febbricitante che dalle generazioni a venire, è stato ed è visto come uno dei periodi artistici più prolifici della storia. Un gruppo, quello capiteneggiato dalle labbra carnose e androgine di Mick Jagger, che negli anni’60 ancora vagava nelle strade della capitale britannica alla ricerca di una propria identità estetica specifica, ed elemento certo non di second’ordine, che si trovava a “rivaleggiare” con i rassicuranti e pacifici Beatles. I Rolling Stones tra voglie demoniache e una sessualità espansa, oltraggiosa, coraggiosa, si sono scelti (o sono stati scelti) un’arte sismica, tellurica, capace di scuotere anche lo scettico più ostico e statico. I loro dischi, uno dopo l’altro sono stati mezzi di autentica e originaria conversione al piacere sfrenato e selvaggio. Una libido implacabile ma terribilmente sincera, portatrice sana di una generazione desiderosa e spumeggiante.
È quindi il fotografo O’Neill, batterista jazz, innamorato della musica, arrivato alla fotografia un po’ per caso e necessità dapprima all’interno della British Airways e dopo come fotoreporter, a donarci l’immagine quasi ingenua, intima, di quella che potremmo definire “l’adolescenza artistica” dei Rolling Stones. Il mito prima del mito, i Rolling Stones prima dei Rolling Stones. È stato nel decennio successivo, in tutti gli anni settanta che invece un altro maestro come Micheal Putland è riuscito ad immortalare tra backstage, party e performance l’identità ormai formata è affermata, decisa e grintosa del gruppo. Se i Beatles smisero di fare live nel 1966, la peculiarità targata Rolling Stones è stata sicuramente quella di aver dato smalto e forza al loro essere tramite le performance live. Ed è così ancora oggi. Il decennio dei Settanta ha palesato e dimostrato la potenza di un gruppo musicale devoto a un’unica fede: quella del rock, e gli scatti di Putland, testimoniano la grandezza di un’era, un’atmosfera, un clima dove il mito poteva resistere e ridere in faccia al precariato del successo. Tra una pausa delineata dal fumo di una sigaretta, tra corde di chitarra e microfoni, tra outfit succinti e platee invase da corpi sudati e fanatici, tra sorrisi e passioni stravaganti, l’erotismo sfrenato del rock si fa mito, negli scatti in bianco e nero fissati nella storia dall’occhio di Putland, un artista che di leggende musicali se ne intende bene, solo per ricordare, dal suo obiettivo sono passati personaggi del calibro di Stevie Wonder, David Bowie, Ladies Tea Party, Annie Eve, The Clash, Tom Waits, Bruce Springsteen, Bob Marley, Frank Zappa, Van Morrison, Bee Gees, Nina Simone e tanti altri.
Anche in questa mostra la Ono Arte Contemporanea mette in scena il lato B del vinile, quello più intimo, segreto, quello più privato e inedito, quello meno conosciuto e più godibile, è così che ci viene offerta la possibilità di spiare la storia da un interstizio atemporale, così definirei il mezzo fotografico, uno strumento che grazie alla capacità di maestri appassionati come O’Neill e Putland ci offrono il disvelamento del mito, dei segreti preziosi, delle note sussurrate, oltre la capacità umana di comprendere, lì, l’arte per l’arte aiuta la leggenda a rimanere tale.

Federica Fiumelli








 

mercoledì 13 luglio 2016

You and Myself. Intervista ad Andrea Bianconi






Fino al 24 luglio gli spazi di Casa Testori a Novate Milanese si fanno temporalmente trasversali e geograficamente globali, è infatti possibile immergersi nei dieci anni di performance dell’artista vicentino, classe’74, Andrea Bianconi.
La mostra, a cura del critico Luigi Meneghelli, approfondisce con grande precisione la poetica di Bianconi, il quale, da sempre nei sui gesti performativi ha esplorato come un vero funambolo il complesso e prismatico rapporto con l’altro. You and Myself è una mostra dunque che indaga l’io nostro e degli altri in una perpetua oscillazione di senso. Gli interrogativi di Bianconi hanno tappezzato tanti luoghi, e l’artista infatti vanta fra le sue recenti esposizioni, una public performance tra la Piazza Rossa, il Cremlino e il Manege Valencia, Madrid, New York, United Arab Emirates, Basilea, Palazzo Reale, Milano, Shanghai. Nel 2011 Charta ha pubblicato la sua prima monografia, nel 2012 Cura.Books il suo primo libro d’artista Romance e nel 2013 il secondo dal titolo Fable. Entrambi fanno parte della collezione del MoMA, NYC. 

Consigli per la fruizione: dimenticate chi siete e fate di ogni dettaglio la vostra gabbia temporanea.
Ami raccogliere, accumulare, mescolare oggetti, come ricorda Luigi Meneghelli nel testo di presentazione alla mostra citando Italo Calvino che definisce “redenzione degli oggetti” il riscatto del banale. Che rapporto hai con gli oggetti dunque? Ce lo racconti solitamente tramite le performance, a parole?
Cerco continuamente oggetti, li accumulo nei miei studi, li colleziono, cerco tra di loro una possibile relazione, un rapporto, un legame. L’oggetto è da una parte strumento, dall’altra soggetto, cerco di dargli una nuova vita, una seconda possibilità. Come li scelgo? Non li scelgo, loro mi si presentano di fronte… inaspettatamente. Mi rivelano l’altro. Pensa che in ogni studio ho una gabbia appesa, vuota, e sopra la mia sedia, serve a contenere i pensieri o le idee, quando sono troppe.
Ogni tua performance è corredata, composta da disegni, fotografie e scrittura. Ti chiedo, che rapporto hai con ognuno di questi medium? C’è qualcosa che in fondo prediligi?
Il disegno mi segue ovunque, è parte di tutto, del progetto e della realizzazione, per me non c’è un confine tra disegno è performance, il segno è sempre gesto e il gesto segno. Quando per esempio ho disegnato Romance, un libro fatto di 5000 disegni-scritti, dove ripercorrevo la storia della mia vita, l’ossessione era dominante, era dominante il fatto che ogni segno o ogni parola fosse legata alla precedente e al seguente, come un’infinita catena parentale. Mi interessava il segno, il gesto, la ricerca di tracce di qualcosa che potrebbe anche non esserci, come direbbe Calvino. Tutto era legato a un momento, sia l’azione che la reazione, tutto diventava corpo. Poi questo libro è diventato un video dove proiettavo sulla maschera della mia faccia tutti questi segni, come se la mia vita mi scorresse davanti agli occhi. Quindi, quando uso diversi media, che possono essere anche foto, video, parole, suoni, musiche, tutto è in relazione, tutto è una grande catena, è un grande tutto.
In questa intervista mi avvalgo spesso della parola “rapporto”, ho riscontrato negli appunti delle tue performance che sia un concetto fondamentale, un approccio irreversibile che hai con il mondo, e ne sembri romanticamente consapevole. Che rapporto ha l’artista con l’amore? Penso a You always go down alone, Forever and Ever, Love story … Secondo te il romanticismo è sempre disobbediente? È una frase che ho letto da qualche parte e mi ha personalmente colpita molto.
Cerco continuamente rapporti, tra gli oggetti, tra le culture, indago i rapporti… l’altro è fondamentale in tutta la mia ricerca, non ci può essere You senza Myself, e viceversa. Con Forever and Ever ho iniziato a chiedermi cos’è il matrimonio, il legame tra due persone... io e mia moglie ballavamo con due gabbie la canzone del nostro matrimonio, vestiti con gli abiti nuziali. In Love Story, mi immaginavo re dei fiori, l’idea mi era venuta a Toronto in una giornata freddissima, gelida, piena di ghiaccio, due persone camminavano tenendosi per mano, senza guanti… quelle mani mi hanno raccontato una Love Story. Mi chiedo cos’è l’amore, dov’è la poesia… credo nel romanticismo, in quella cosa che ti fa vedere e sentire dolcemente, in quel sentimento che mi fa vibrare e illuminare, in quel gesto che mi fa vivere.
Sono recidiva, che rapporto ha Bianconi con gli altri artisti? C’è qualcuno che ti ha ispirato fin dagli esordi? Con chi condivideresti una possibile residenza in un posto remoto e isolato?
Gli altri artisti… non mi piace la parola altri, in questo caso, gli artisti sono sentimenti di Passione, sono atti d’amore, lo scambio e il confronto sono vitali, perché tracciano un tempo. Per esempio alla Biennale di Mosca, o al MSK Museum of Fine Arts a Ghent, ho collaborato con Mark Licari e Ricardo Lanzarini a degli enormi wall drawing, lavoravamo insieme giorno e notte, i miei disegni si sovrapponevano con i loro, e viceversa, cercavamo un dialogo, un Dialogo Illuminato ( così si chiamava il lavoro di Mosca), ci rispettavamo… Abbiamo un nuovo progetto assieme in un posto isolato. Ultimamente poi, guardando il cielo, ho trovato una stella Blue. Con la mia nuova performance Draw Me sto chiedendo a tutti di disegnare sulla mia faccia in una cartolina, di spedirla a Casa Testori, sto cercando di realizzare un World Drawing Project, un progetto collettivo.
E con la critica invece? Che rapporto hai? Come vedi e vivi il rapporto tra poiesis e riflessione filosofica?
La poesia è ciò che mi lascia senza parole, la riflessione filosofica è ciò che mi fa usare le parole. Dipende dai giorni, dai momenti, dagli attimi, … alcune volte alcuni fatti ci influenzano… noi pensiamo e ripensiamo e vediamo due vie di fuga: la poesia o la riflessione… se siamo capaci a unirle diventa espressione. Ho sempre avuto come punto fermo l’essere critico verso me stesso, alcune volte non so se la critica guarda, osserva, capisce o cerca di intuire, è una domanda che continuo a farmi.
Dieci anni di performance vengono documentati e raccontati in questa mostra You and myself. Di tutte quelle presentate, se dovessi sceglierne una e una soltanto, quale ha provocato in te il sentimento nobile e precario della vertigine?
In ogni performance cerco una caduta, cerco quella perdita di equilibrio che mi fa andare altrove, che mi fa andare talmente in alto fuori da me stesso e talmente in basso dentro che stesso, in profondità, e se “la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare”, io in ogni performance cerco la caduta della performance stessa, cerco la voglia di cadere per poter volare. D’altronde quando avevo 15 anni volevo fare il pilota di caccia. La vertigine più intensa l’ho provata con Time is Timing (2015), dove 300 sveglie suonavano a distanza di un secondo l’una dall’altra… alla fine tutte suonavano contemporaneamente, e io immobile al centro, paralizzato.
Mi ha incuriosita la tua passione e ammirazione per l’illusionista Harry Houdini, e sempre Luigi Meneghelli, nel testo critico, riferendosi a Sound of a charmed life realizzata nel 2010 a Praga, New York, Houston ti ha definito appunto come “fantomatico mago”. L’artista, e a maggior ragione quando esso diviene performer, è a tutti gli effetti colui che si fa beffa dell’osservatore? L’artista è sempre implicitamente un performer, anche non utilizzando la performance?
Mi piace Houdini perché lui sapeva come incatenarsi e sapeva sempre come liberarsi, in tutta la mia ricerca voglio fuggire da me stesso, voglio imprigionarmi e trovare una via di fuga, ecco perché uso la gabbia, che è si prigione, ma anche protezione e liberazione. Mi sento mago per questo motivo, voglio sempre fuggire dalla realtà, ma so che la realtà esiste. La realtà è ogni giorno, la mia vita è ogni giorno, il mio modo di esprimermi è ogni giorno, la mia mente è ogni giorno, il mio corpo è ogni giorno, l’altro è ogni giorno. L’essere o il sentirmi mago è il confrontarmi e vivere l’ogni giorno, è il rapporto continuo con l’altro. L’artista vive ogni giorno la realtà e cerca di fuggirne attraverso gesti, sentimenti, visioni o semplici segni. Per me fare una performance è cercare tutto ciò, per esempio quando ho fatto la performance Fantastic Planet nel 2016 , ripetevo all’infinito le parole Fantastic Planet, quasi fossi alla ricerca di questo fantastico pianeta… se esiste??? È un rito sciamanico, un gesto, un segno. Esiste?
Ritorniamo ai rapporti con i medium artistici. Sei un amante di cinema e letteratura? Suggeriscici un film e un libro. E con la musica? Una soundtrack per questa intervista?
Sono amante di tutto ciò che mi fa immaginare la possibile o impossibile esistenza di altri mondi, quindi guardo documentari, pochi film, tante interviste… leggo libri, ma mai partendo dall’inizio. Un film: Rat Race del 2001… superdivertente. Un libro: Lezioni Americane di Italo Calvino, ne ho 4, 5, sparsi nei vari studi. Ma anche Finnegans Wake di James Joyce. La soundtrack sicuramente è Too Much, è una canzone che avevo fatto sovrapponendo le 7 canzoni della mia vita, quindi la colonna sonora di questa intervista è la canzone della mia vita ( Eugenio Finardi sovrapposto a Michael Jackson, a Domenico Modugno, ad Aretha Franklin, a Gloria Gaynor, a Luciano Pavarotti e a Bob Dylan).
Gli Stati Uniti sono in qualche modo una terra d’adozione per te. Che rapporto hai con questo gigante dell’economia e della politica?
Era il 2007, stavo inaugurando la prima mostra negli Stati Uniti, da Barbara Davis, a Houston in Texas, avevo un grande sogno e avevo arruolato i miei Pony Express (la mostra si chiamava così)… messaggeri portatori di un messaggio. Di lì a poco, un mese dopo, mi trasferii a New York, me ne innamorai. Dopo anni considero gli Stati Uniti una seconda casa, ho la grande sensazione di un grande abbraccio, ho ossigeno che entra, certo è un paese molto complesso e difficile, ma l’importante è conoscersi per non perdersi.
Ultima domanda. Sei seduto su una sedia al tavolo di un bar di una città sconosciuta. Cosa vedi?
Ahhhh… è una situazione che mi capita spesso… Mi immagino seduto su una sedia gialla a un tavolino color legno in un incrocio tra due strade. Davanti a me persone che camminano che forse non rivedrò più, macchine che passano che forse non rivedrò più, cani che passeggiano che forse non rivedrò più, parole e discorsi di persone che non conosco, ma che mi fanno immaginare storie, …ahhh ma ricordo che ho già vissuto questo… ero in un’isola.

Federica Fiumelli






 

sabato 25 giugno 2016

Irene Fenara, Se il cielo fugge @ADIACENZE






"Forse sei troppo giovane per capire, alla tua età io non avrei capito, non avrei immaginato che la vita fosse come un gioco che giocavo nella mia infanzia a Buenos Aires, Pessoa è un genio perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell'immaginato, la sua poesia è un juego del revés." 


L'opera Se il cielo fugge della giovane artista bolognese Irene Fenara, pensata per i nuovi spazi di Adiacenze, che dopo sei anni di attività si rilancia e si rimette in gioco con nuove proposte culturali, funziona alla stregua del gioco del rovescio narrato da Antonio Tabucchi. Le puéril revers des choses, la citazione di Lautréamont che apre il libro dello scrittore pisano, ci annuncia e sussurra qualcosa. 


Se il cielo fuggisse veramente saremmo costretti a ridefinire i nostri punti di vista, proprio come ha scritto Maria Vittoria Tagliati nel testo critico dell'esposizione. L'opera accompagnata dalla composizione sonora di Francesco Privato, artista sonoro e dj producer legato alla produzione di musica elettronica e rivolto verso una ricerca artistica più sperimentale, gioca con noi riflettendo sul senso e sull'essere della visione, ma non solo, anche della produzione artistica, come la pittura o la fotografia. L'artista infatti riprende il concetto della fisiologia dell'occhio umano e l'opera diventa una metariflessione sulla rappresentazione.

Che cosa è veramente rovesciato? Chi osserva o chi è osservato? A metà tra il possibile e l'impossibile, l'orizzonte che coniuga mare e cielo diviene limen finissimo, e come una linea incerta pronta al naufragio sembra essere scritturata da Christopher Nolan. La finzione è da sempre l'ombra legata al reale, e la connessione tra le due è talmente importante e imprescindibile che l'arte è sempre pronta a ricordarcelo. 


Entrando nelle stanze di Adiacenze si è subito risucchiati nella vertigine, elemento che funge da cardine nel modus operandi della Fenara. Nella vertigine l'elemento del precario è seducente tanto quanto imminente e la paura di qualcosa di nuovo che spiazza le nostre percezioni stabilizzate è talmente grande che talvolta gestirlo diventa un compito assai arduo. Un video, una proiezione, la partitura sonora, e l'architettura spoglia del luogo espositivo. Questi gli oggetti costitutivi del site specific. E poi i calanchi delle colline bolognesi e il mare di Rimini, i riferimenti geomentali dell'artista. 


La dimensione spazio/tempo si increspa nel movimento vuoto di un mare che è limite e parte complementare e speculare di un cielo che appunto rifugge. Il cielo non sta più inchiodato all'insù e si sveste delle solite certezze, sfida la gravità e si ancora al sogno. L'abbandono affianca così la vertigine in balia di un totale smarrimento. Le convinzioni, come le posizioni vacillano e si disperdono nelle sonorità. 


Cito qui, le parole di Albert Camus in Il mito di Sisifo: "Pensare non è più unificare, render familiare l'apparenza sotto l'aspetto di un grande principio; pensare è imparare nuovamente a vedere, a essere attenti, è dirigere la propria coscienza, fare di ogni idea e di ogni immagine, alla maniera di Proust, un luogo privilegiato".

I paesaggi scelti dall'artista sono appunto luoghi privilegiati, pronti ogni volta a voltarsi, a girarsi, rovesciarsi, capovolgersi, contraddirsi, ribaltarsi e mettersi in discussione. L'unità contraddittoria proposta dalla Fenara ci trascina in una dimensione altra, ristabilendo il gioco come elemento primario per riscoprire le proprie facoltà cognitive. Con audacia e un titolo che farebbe da incipit a una narrazione poetica, Se il cielo fugge non lascia che la voglia di una visione nel e del vuoto. 



A little conversation


Irene, se il cielo fugge, l'artista Fenara dove rifugge? (Se rifugge)

Non tanto la fuga, quanto la caduta mi attrae. Non scappo ma ci cado dentro. Sono, forse, un “cascatore” che precipita, buttandosi, lasciandosi andare, spostandosi dall’alto verso il basso o viceversa, mosso dal proprio peso interiore.

Nella tua poetica, la parola vertigine ha sempre una significanza rilevante e riesci sempre a raccontarla attraverso le tue opere o interventi a colui che osserva, in maniera eloquente. Ce la potresti definire a parole?

Quella che voglio raccontare è una vertigine emotiva e il tentativo di familiarizzare con questa esperienza, che esprimo attraverso la sensazione fisica. Per me una vertigine emotiva è una scelta, è caderci completamente dentro. Familiarizzare con la vertigine significa praticare, conoscere ed esperire la sensazione come fanno i bambini, che trovano una forma di piacere nello smarrimento prodotto dal disequilibrio, dal vortice e dal girotondo. La vertigine, nella sua forte simbologia, consegue la ricerca dell'equilibrio, della stabilità e della felicità, ricerche che non trovano conclusione se non nella comprensione del loro essere fluide e ondulatorie. Un equilibrio fatto di continui bilanciamenti tra gli opposti in un perpetuo movimento. Ed è nel movimento o muovendosi rispetto ad altri oggetti che la vertigine cresce, sui mezzi di trasporto e con la cultura della velocità che accorcia gli spazi e aumenta le possibilità di spostamento. Quando crediamo di poter arrivare dappertutto, di sapere tutto, di avere tutto ribaltare i punti di vista può essere salvifico. Crediamo e pretendiamo di vedere dappertutto ma la visione dipende strettamente dalla gravità e quindi dalla nostra relatività.

C'è un artista che fin da quando ti sei avvicinata all'arte ti ha particolarmente ispirata? E c'è qualcuno che invece ritieni esserti lontano come approccio creativo?

Gli artisti di ispirazione sono tantissimi, mi limito a parlare di quelli che ho guardato molto, prima e durante la costruzione dell’installazione Se il cielo fugge. Mi sono ispirata soprattutto ad artisti come Bruce Nauman e ad artisti che hanno lavorato e lavorano in una situazione intermedia tra arte e cinema con un distacco dai linguaggi codificati a favore di una ricerca formale. Ho guardato la sperimentazione filmica del Cinema strutturale, in particolare quella di Michael Snow. Quello che mi affascina del Cinema strutturale è il perseguimento di forme semplici, in cui è la forma che produce il significato ancora prima del contenuto narrativo che tende ad azzerarsi. Lo strumento linguistico o il linguaggio diventano forme di pensiero in cui gli elementi essenziali che permangono creano il senso. In Se il cielo fugge ho utilizzato un movimento all’indietro e ribaltato che si concentra su una prospettiva centrale. Visivamente la vertigine è causata dalla vista delle linee prospettiche verticali fortemente in fuga. La prima forma di questa vertigine è riscontrabile nella prospettiva rinascimentale nata dall’intersezione sull’orizzonte apparente delle linee di fuga. Le linee fuggono come il cielo. Mi interessa la capacità gravifica della prospettiva, che promette una precipitazione nell’abituale percezione.

C'è un'opera che ha cambiato il tuo modo di guardare, osservare e percepire lo spazio/tempo?

L’opera del filosofo e urbanista esperto di nuove tecnologie Paul Virilio. I suoi scritti sul modo e sulla velocità con cui la tecnologia si sviluppa e influenza tutto il resto, soprattutto la percezione dello spazio-tempo. Mi interessano moltissimo i modi con i quali la tecnologia cambia anche il nostro modo di vedere, sui dispositivi della visione e sulla visione delle macchine. A volte pensando a Vedute, un video che ho fatto nel 2013, non posso non affermare che non avrei potuto idearlo se prima non avessi visto le immagini satellitari di Google Earth. Ho infatti ripreso muri scrostati e ammuffiti aggiungendo alle immagini in movimento l’audio dell’interno di un aereo, come metafora di geografie e paesaggi visti dall’alto. Questo mi fa riflettere sulle infinite modalità con cui la tecnologia agisce e ha agito sulla nostra capacità di osservazione e interpretazione di ciò che ci sta attorno.

In un mondo impossibile, dove tutto è il rovescio di tutto, che immagine possibile può resistere all'apocalisse dell'incomprensione?

Mi viene in mente un racconto per bambini, ambientato in un paese dove tutto è al contrario e in cui i bambini devono tenere in disordine le proprie stanze se non vogliono rischiare di andare a letto senza cena. È una storia che, esasperando certe situazioni, fa riflettere su abitudini che già abbiamo e che fanno sembrare logiche cose assurde, tanto assurde che sembrano già ribaltate per come le conosciamo. Il mito del mondo alla rovescia è ormai consolidato e indica un’aspirazione a orientare e ordinare il mondo in un modo tendenzialmente migliore o semplicemente nuovo. Quello che rimane è forse una consapevolezza sull’importanza della diversità né giusta, né sbagliata semplicemente altra.

Dove fugge l'arte, oggi, secondo la tua visione di giovane artista? Ammesso e concesso che fugga.

L’arte che fugge, scappa da un pericolo. I pericoli sono riscontrabili, forse, nel disorientamento che comporta l’allargamento dei confini dell’arte. Oggi si è aperto un vastissimo orizzonte nel quale è facile perdersi, ma dove si possono anche trovare nuove opportunità. Io credo che le nuove opportunità siano nella produzione o nella messa in evidenza di un qualche tipo di differenza nello sguardo, nel pensiero, nel modo di fare cose e scelte. L’arte è una via che può permettersi di andare a indagare il particolare, il dettaglio, la piccola storia. Diventa un modo di guardare e conoscere il mondo. Il mondo è molto più complesso, sfaccettato e imprevedibile di quel che siamo soliti pensare e forse l’arte, allargando i suoi confini, ci si avvicina.

Federica Fiumelli