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In
occasione della seconda edizione della Bologna Design Week, lo spazio
dell’associazione culturale ABC ha proposto una lettura trasversale e
cinematografica del design. Il progetto a cura di Fausto Savoretti,
Lucilla Boschi e Fabio Fornasari è stato un autentico viaggio nel design
“bolognese” degli anni ’50 e ’60: un’epoca pionieristica nei confronti
delle innovazioni estetiche, e non di ultima importanza, la mostra ha
voluto essere un esplicito omaggio a personaggi di rilievo come
Gianpaolo Gazziero e Dino Gavina.
L’esposizione ha raccolto pezzi unici provenienti dalla collezione di
Gazziero, insieme a interventi grafici e testuali a cura del duo
Boschi–Fornasari di Lif3. Questa unione è stata proprio il punto di
forza del progetto: allo stesso tempo si è indagato su concetti
differenti come il collezionismo, la natura dell’oggetto di design, il
voyeurismo, ma tutti aventi un comune denominatore, e cioè la passione
intrinseca all’atto del guardare, l’illusione del possesso tramite lo
sguardo che concretizza così attraverso forme e parole.
Quello che si è ricreato negli spazi di ABC è così a sua volta uno
spazio di meta riflessione. “Le cose più ovvie sono invisibili agli
occhi”, e così l’esposizione è divenuta un gioco di metafore e rimandi,
un gioco surrealista che ci ha accolto in una possibile camera da letto
con lo specchio – Les grands trans-parents di Man Ray. Oltre alla superficie riflettente, infatti era presente il letto dal profilo essenziale e di rara colorazione, Vanessa del 1959, pensato da Tobia Scarpa, poco più a lato invece, Broadway,
la sedia tentacolare del 1993 di Gaetano Pesce, prodotta da Bernini.
Accostamenti in punta di piedi in grado di rilevare l’importanza del
gusto e del godimento estetico connaturato al collezionismo.
Dalla seduzione notturna e sfocata, stratificata e velata, si è
susseguita un'altra ipotesi di interno (perché di ipotesi si parla in
questa mostra, di costruzioni precarie e molteplici), questa volta il
soggiorno della GUFRAM con il celebre e iconico divano Bocca del 1970, ispirato al ritratto di Mae West di Salvador Dalì, e come compagna la lampada Big Shadow di Marcel Wanders dal colore rosso pastello acceso, un colore oggi fuori produzione. Di rarità sofisticata anche il tavolino Traccia, progettato da un’altra grande devota surrealista, Meret Oppenheim, un oggetto parte della collezione Ultramobile voluta da Dino Gavina.
Bologna è ritornata invece, in questo viaggio di spazi
reinterpretati, nelle ceramiche di Pastore e Bovina, fondatori dello
studio Elica, un luogo di sperimentazione e ricerca per quanto riguarda
tutte le diverse arti, dalla scultura, alla musica, alla moda, alla
poesia e al teatro. Un interno di design bolognese, si è posto come
spazio di narrazione attivo, tramite il quale il fruitore voyeur ha
riscoperto l’oggetto di design come qualcosa di diverso dalla concezione
stereotipata legata a un’idea di serialità asfittica. Quel che qui si è
desiderato trasmettere, è la diversità intrinseca agli oggetti di
origine seriale.
Come hanno sottolineato Lucilla Boschi e Fabio Fornasari, già il
surrealismo aveva capito che le cose emanano sempre qualcosa di
differente, “di diverso rispetto all’eco della loro stessa visione”. “La
serialità degli oggetti industriali che si caratterizza attraverso il
processo che li ha prodotti (design) si è trasformata in serialità di
natura narrativa (fiction)”. Se veniamo sedotti da oggetti di
indiscutibile bellezza e carisma, come succede anche con le opere
d’arte, un buon disco o un ottimo film, è vero che la necessità di
sguardo provoca, a detta degli stessi curatori, un comportamento proprio
di soggetti colpevoli. Ecco così che diveniamo “ladri di intimità” e
come rei non ancora confessi ci troviamo sul luogo del delitto.
In questa esposizione è stata forte un’idea hitchcockiana di
produzione e ricezione di sguardo. Gli spazi di ABC si sono trasformati
in una pellicola in bianco e nero dove noi, concreti spioni, abbiamo
osservato e saccheggiato dettagli visivi dello e dallo spazio
reinterpretato che altro non è che una finestra sul cortile. Un appunto
recitava: “Basta che qualcosa mi significhi che qualcuno può essere là.
Questa finestra, se fa un po’ buio, e se vi sono ragioni per pensare che
vi sia qualcuno dietro, è già, sin d’ora uno sguardo”.
Accanto, il libro di Slavoj Zizek, Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi
è stato aperto proprio su pagine riportanti riflessioni che si
scoprono essere aspetti costitutivi dell’esposizione. I curatori alla
stregua di Hitchcock sono partiti da un insieme di sinthomi,
motivi (solitamente visivi) che tormentano l’immaginazione, pretesti di
una narrazione che accade (come la vita) solo in un secondo momento.
“Hitchcock inventava storie solo per poter girare un certo tipo di
scene”.
Così negli spazi di ABC, libri, oggetti, immagini, da polaroid di Tarkovskij a Richter si sono alternati come sinthomi di una narrazione sospesa e fusa tra specchi e sguardi. Nell’ambiente si sono spartiti l’idea di uno spazio condiviso La joie est le la clef du bonheur, un vinile e un pensiero di Le Corbusier, le Empty words di John Cage e Le parole nel vuoto
di Adolf Loos ancora imbustato, sospeso in aria, mai letto, ma
conservato, come si conserva il non detto.
Tutto questo ha tessuto un
ordito di pensieri in divenire, in vertigine. Il design si è acceso di
seduzione e delittuosità, ma di una cosa non dobbiamo essere
assolutamente colpevoli come ha giustamente ricordato e sottolineato
Gianpaolo Gazziero, di considerare il prodotto di design come qualcosa
di elitario, di distante dalla quotidianità, dobbiamo invece imparare a
frequentarlo di più, a possederlo, come si fa con la bellezza. Uno
sguardo dalla finestra.
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