Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 27 settembre 2016

Helene Appel. Washing Up @P420





La vita silenziosa degli oggetti cede il passo alla descrizione minuziosa piuttosto che alla narrazione, per concedersi il lusso dello sforzo, della pazienza e del silenzio, propri di una rigorosa contemplazione dell’inafferrabilità del reale.


La pittura della giovane artista tedesca Helene Appel si appresta come una preghiera laica all’occhio di colui che osserva. Ci si trova come d’inganno, sedotti dalle tele granulose volte a celebrare singolarmente oggetti apparentemente banali, d’indubbio fascino, oggetti quasi borderline, non meritevoli di una superficie-palcoscenico che diviene teatro di un’epifania mondana.

Le nature morte della Appel sono ogni volta studiate, vivisezionate, descritte con una lucidità formale tipica di un freddo iperrealismo; quando il reale diviene più reale dello stesso, accade che il velo di Maya, di memoria Schopenauriana ritorna alla menti, offrendosi e disvelandosi all’occorrenza per interrogarsi e scivolare criticamente tra quei piani che da sempre la pittura dicotomicamente relaziona, ovvero l’essere realtà e l’illusione. Queste, nei lavori dell’artista, compenetrano alternando stati di trasparenza a quelli di fitta densità. Gli oggetti eletti, solo per citarne alcuni: reti da pesca, stracci, farine, acqua di mare, lavelli di cucina, pasta, fette di carne o di pane. Dal generale al particolare, dai luoghi ai dettagli compositivi. Il processo pittorico è metafora di uno sguardo al microscopio della quotidianità più derisa dall’attenzione. Elementi poveri che pongono questioni di una sostanza diametralmente opposta, questioni riccamente complesse si ergono nei confronti del medium pittorico e della superficie stessa. Nel caso di Plastic Lid, noi possiamo vedere oltre, attraverso la trasparenza del soggetto, un coperchio di plastica, ma in realtà il corpo a corpo con l’altro elemento, la tela, si presenta enigmatico e perturbante. La sensazione di vedere e scoprire la superficie è meramente illusoria. Il s’(oggetto) non esiste e tutto è superficie.

In corpi trasparenti come i coperchi, la schiuma delle onde, la rete da pesca, o l’acqua, l’artista gioca con l’elemento dell’ambiguità, disvelando e creando continuamente allusioni e illusioni sul teatro del s-oggetto eletto. 
I protagonisti delle pitture sono a tutti gli effetti corpi, visti da una prospettiva aerea, dall’alto, offertici allo sguardo con pulviscolare autenticità. Le reti da pesca, sinuose ingannano lo spazio, come fili pervasi da un elettrica sensualità amorfa, possiedono la superficie pittorica scivolando sulla tela e lavandola da orpelli inutili. La pittura della Appel non è una pittura dello spreco, il suo è un gesto di conservazione, un gesto fedele a un unico elemento per volta, per non perdere il dettaglio, la sfumatura, l’anatomia di ogni singolo interstizio formale. Una pittura che fa del gesto una tessitura di un tempo dilatato, in un contemporaneo che sempre di più si libera della lentezza vista quasi come una sconfitta dal capitalismo. 
La pittura dell’artista tedesca è anticapitalista perché si sofferma in uno spazio di riflessione autentico e originario, lì dove l’occhio passa disinteressato. Nell’usato, nel consunto, o nel naturale, quel qualcosa abbandonato dall’attenzione ci risparmia da tutto l’eccesso, da tutto l’inquinamento visivo a cui siamo quotidianamente sottoposti. La quotidianità della Appel è una quotidianità depurata, lavata via, sciacquata, ripulita, dal gesto pittorico (talvolta)visto dallo sfrenato contemporaneo obsoleto-obso-lento.

Se attraverso i momenti di trasparenza la superficie ci sembra disvelata, e sembra concedersi, in lavori come Bread o Meat, la pittura ci nega lo spazio della tela. Le fette di pane o carne occupano tutta la superficie a disposizione vietandoci così l’accesso alla granulosità della materia sottostante. Le venature e le fioriture rossastre dei pezzi di carne in un ambiguo trompe-l’oeil ci introducono in una dimensione corporea, facendo sviluppare in noi l’esigenza tattile. Le pitture della Appel sono tempi aptici, scultorei, ma nello stesso momento densi di vibrazioni umane. Gli oggetti dalla vita silenziosa, ci ricordano seppur in diversa maniera, uno dei grandi maestri bolognesi, come Giorgio Morandi, che delle cose e dei tempi lunghi di posa ha saputo regalare alla storia dell’arte contemporanea, un attimo di respiro profondo, di quiete immensa e di uno sguardo umano capace di soffermarsi lì dove solo la pittura restituisce un’essenza mai assente. Le superfici e i s(oggetti) della Appel sono presenti non solo nel momento stesso del loro accadimento ma nella prosecuzione dell’attimo, che come in un fotogramma viene impresso per sempre. 

L’artista svolge attraverso i suoi lavori, una splendida riflessione di matrice semiotica sul senso stesso del dipingere. Nella splendida raccolta di saggi firmati da Louis Marin “Della rappresentazione”, il capitolo dedicato all’ “Elogio dell’apparenza” riprende le tesi della studiosa Svetlana Alpers e del suo libro sull’arte olandese del XVII secolo del 1984 intitolato “Arte del descrivere”. In questo testo, la Alpers mette a confronto due modelli di pittura, quello albertiano, basato su un determinato tipo di prospettiva, con una volontà di narrazione e quello della pittura olandese, volto a descrivere minuziosamente un’arte composta da superfici. Scrive Marin: “È come se il mondo nelle sue apparenze, con la propria superficie, si mostrasse da sé sulla superficie della tela, si auto duplicasse per produrre la propria esatta replica sotto l’occhio affascinato e attento dello spettatore testimone: l’artista, che non ha avuto altra funzione, altro compito, che quello di essere – come avrebbe voluto Stendhal, due secoli dopo, nei suoi romanzi – “uno specchio che si porta lungo la strada”. Scrive ancora: “Ritorno alla superficie, dunque: questa sarebbe la parola d’ordine della “nuova storia dell’arte”, che troverebbe con il libro della Alpers e nella pittura olandese del XVII secolo da lei studiata, l’oggetto storicamente, culturalmente, esteticamente e teoricamente privilegiato per costruire i propri modelli operativi: la superficie come luogo ambivalente, al tempo stesso opera di pittura e manifestazione del mondo, immagine e cosa, in breve, lo spazio degli indici, delle tracce, delle marche.”

Aggiungo quindi che la pittura della giovane artista tedesca sia una pittura estremamente in linea con gli stilemi contemporanei per l’intrinseca peculiarità fotografica, caratteristica che pervade gran parte dell’arte prodotta ai giorni nostri. Le pitture della Appel sono depositi di materia viva che lavano, puliscono e tutelano l’occhio dall’inganno del caos dell’oggi. 
La superficie delle cose diviene ricerca ostinata di un presente in perenne fuga.

In mostra alla galleria P420 di Bologna dal 24 Settembre al 5 Novembre

Federica Fiumelli







 

Phantom models. Intervista a Christian Fogarolli





12 SET 2016
 
Classe 1983, Christian Fogarolli vanta già un curriculum di tutto rispetto sia a livello nazionale che internazionale. L’interesse che dedica alla costituzione dell’identità e dell’essere lo porta inevitabilmente a dedicarsi a molteplici ricerche tra le più disparate discipline, come la medicina, la scienza, l’antropologia, la psicologia, o l’archeologia. L’artista si misura sempre con materiali diversi tra loro e ciò è tangibile nelle opere, che assumono spesso e volentieri la forma di installazioni: il topos della sua poetica viene raggiunto nella forma dell’archivio della multidisciplinarietà.
Fogarolli, anatomista e custode di memorie individuali e collettive, è elegante e minuzioso, scientifico e poetico, nei suoi interventi nulla è fuori posto, nulla è mai in eccesso, tutto convive in un’armonia di riflessioni e forme. L’artista incontra e si scontra con la vita, cattura dettagli e si mette alla ricerca dell’origine. L’artista archeologo allora scava tra i residui di una vita talvolta troppo misteriosa e complessa per farne parte. Questa intervista nasce con la volontà di raccontare l’ultimo progetto in corso d’opera di Fogarolli, Phantom models, nato da incontri fortuiti durante la residenza al De Appel arts centre di Amsterdam, ma non solo, tra le pieghe delle parole dell’artista, tra le ombre di una risposta e l’altra si può carpire l’essenza di uno dei giovani artisti italiani e la sua attitudine verso un contemporaneo sempre piè disattento all’essere delle cose, alla loro costituzione e genesi.
Phantom models è un progetto culturale minuzioso e ambizioso volto a promuovere il patrimonio artistico-scientifico attraverso l’arte contemporanea. Che importanza ha realmente l’arte secondo te oggi? E la componente educativa?
Cosa può esserci di più affascinante di una cosa indispensabile e totalmente inutile? Personalmente non ho mai creduto nella componente educativa dell’arte come suo obiettivo primario e impostato da colui che l’arte la crea. Non ho mai creduto nell’arte per gli altri, nell’arte formativa; l’arte non nasce per formare o educare nessuno, nasce e basta. Credo che l’opera possa diventare socialmente utile nel momento in cui l’artista lavora senza porsi il problema di creare opere utili a qualcosa. Ho sempre diffidato molto dagli artisti che educano o pensano di farlo. Credo che l’artista, non pensando in nessun modo di essere utile all’umanità, diventi utile proprio per questo.
Ci racconti come è maturata la voglia di esporre il primo modello cerebrale rappresentante le fibre nervose e le aree emozionali del cervello umano? Come sei arrivato al testo del 1884 del professor Aeby?
Nel giugno dello scorso anno mi trovavo ad Amsterdam per sviluppare un progetto di ricerca su invito del de Appel arts centre. Iniziai così un lavoro con i curatori Inga Lãce e Chiara Ianeselli basandomi sulla ricerca archivistica presso alcune istituzioni pubbliche olandesi. Presero avvio una serie di collaborazioni con Il Tropenmuseum, il VolkenkundeMuseum di Leiden e il Museo VrolikAcademicMedical Center. È nei depositi di quest’ultimo che tra migliaia di oggetti e materiali di ogni sorta dell’ambito medico scientifico trovai isolato un intricato modello cerebrale, quanto mai contemporaneo nelle sue fattezze estetiche e formali. Da quel momento prese forma una ricerca approfondita su questa creazione, anche grazie alla collaborazione del curatore del museo Laurens de Rooy. Non era un modello qualsiasi, ma il primo modello cerebrale mai costruito che rappresentava le fibre nervose e le aree emozionali dell’encefalo umano divise per colore. Continuando le indagini negli archivi è emersa una pubblicazione del 1884 dell’anatomista che studiò e realizzò tutto questo, da lì prese piede un processo arduo, ma quanto mai straordinario.
Il progetto Phantom models mira ad essere lungimirante attraverso una lista di istituzioni internazionali fino al 2020. Come pensi si evolverà nel corso degli anni? E soprattutto che riscontro hai ottenuto fin ad ora da parte delle persone?
Con “arduo processo” intendevo proprio questo. Leggendo il manuale di Aeby sono riuscito a stilare una lista di 23 città in tutto il mondo che acquistarono questo modello per 500 franchi svizzeri. Si stavano formando i ricercatori del futuro e la creazione di Aeby/Büchi era la migliore e la più avanguardistica. È incredibile come questo modello così importante tra la fine del XIX secolo e del XX sia stato quasi dimenticato nel tempo e che non abbia ricevuto il giusto merito. Io vorrei restituire all’incredibile lavoro di Aeby/Büchi un valore assoluto: è un patrimonio del mondo intero e accomuna ogni individuo, differenziandolo. Stilando così la lista delle città mi sono imposto di ritrovare i modelli originali che furono acquistati, di valorizzarli, mostrarli; e nel caso essi fossero andati perduti o distrutti, di ricostruirne di nuovi con le mie stesse mani, così da permettere ad ogni luogo di rimpossessarsi di questa creazione. Sono partito lo scorso anno concludendo due fasi, due città, Amsterdam dove tutto è partito, e Mosca. Ho fissato come termine temporale la data ipotetica del 2020, ogni cosa ha una fine. Le persone che hanno conosciuto questa storia incredibile attraverso la ricerca e le opere ne sono rimaste sorprese e affascinate: è come se il cervello stesso della gente automaticamente si rispecchiasse in questa creazione artistica.
Hai recentemente chiuso una personale a Parigi dal titolo Le monde du ticqueur, c'è un filo conduttore poetico con Phantom models oppure stiamo parlando di due progetti distinti e separati?
I progetti pur essendo differenti sono legati da una forte base concettuale univoca, in sostanza la stessa che unisce tutto il mio lavoro e dalla quale non mi discosto: la rappresentazione reale, tattile e interpretativa di alcune dinamiche artistiche in ambito medico, antropologico, psicologico, archeologico. Far emergere passaggi specifici di come e dove queste scienze abbiano usato l’arte in maniera involontaria a scopo progressistico. Il progetto Phantom models ne è una testimonianza tangibile e immediata; personalità che hanno dato vita a delle creazioni a metà tra arte e ricerca medica. In base al punto di vista che si sceglie il campo di indagine varia, artefatti senza tempo e spazio che possono adattarsi perfettamente a un museo sulla storia della ricerca scientifica e a un museo di arte contemporanea. Alcuni lavori della mostra Le monde du ticqueur sono invece delle vere e proprie esperienze partecipative riguardanti stati dissociativi e di interferenza nei sensi umani, a livello visivo, uditivo, tattile. Lo spettatore può confrontarsi in prima persona con alcune situazioni che ricordano gli studi e gli esperimenti di Oliver Sacks, gli scritti di Aleksandr Lurjia o Ian Hacking.
Sappiamo bene che da sempre geni artistici e scientifici convogliano in un perpetuo incontro di scambio. Qual è il tuo pensiero a riguardo? Come definiresti il rapporto tra creazione e teorizzazione? Tra ipotesi e dimostrazione?
Il settore artistico credo che esuli dal rapporto ipotesi/dimostrazione, l’arte non deve dimostrare nulla alla sua radice e non credo debba nascere con questo scopo. In un successivo momento può farsi carico di aspetti dimostrativi e teorici, magari nel momento in cui successivamente se ne parla. Chiaramente sembra che sempre più ci sia un continuo scambio tra diverse discipline a livello artistico, credo che questo possa essere una lama a doppio taglio. Da un lato il beneficio di una continua contaminazione che porta a letture sempre più ampie; dall’altro la difficoltà della lettura stessa in cui sembrano nascere nuovi cliché standardizzati in cui spesso gli artisti si buttano. A volte sembra che oggi nei grandissimi musei espongano solamente esecutori di passi di danza e di pseudo scene teatrali, meglio se abbigliati con un vestito ridicolo.
È una domanda che sovente faccio agli artisti che incontro, Christian Fogarolli ha qualche artista di riferimento a sua volta? C’è qualcuno in particolare a cui ti senti, o ti sei sentito vicino? Magari anche quando eri uno studente.
Mi sento ancora uno studente e per il momento non sento di avere artisti di riferimento. Non perché non esista alcun artista verso il quale sento affinità, rispetto o ammirazione, ma solamente per il semplice fatto che i miei riferimenti non sono artistici. Preferisco dare maggiore attenzione e peso a uomini che hanno fatto dei loro studi una disciplina, o presunta tale, e che hanno cercato di seguirla in vita. Trovo interesse in quegli uomini che hanno creato inconsapevolmente aspetti artistici in discipline diverse, come l’antropologia, la medicina, l’estetica, la psicologia. Se devo citare qualche nome direi Charles Darwin, Jean-Martin Charcot, Benjamin Rush, Giovan Battista della Porta, Cesare Lombroso.
Nei tuoi lavori è sempre presente una forte idea di tempo. Oggi il tempo è mutato sembra quasi sfuggire da se stesso. Nella tua mente il tempo ha una forma? Un’immagine? Un’identità?
Credo che il tempo sia il ritratto e l’immagine dello spreco. Il tempo oggi ha erroneamente la forma del denaro e non del ricordo.
C’è un’opera, che sia essa di letteratura, cinema, teatro o musica, che ha cambiato o influenzato il tuo modo di operare e vedere?
Una no. Nel cinema, per le ambientazioni, i personaggi e la linea di pensiero David Linch sicuramente, in un paio di occasioni avevamo dei lavori esposti insieme, lo vidi da lontano ma non ho ancora avuto la fortuna di conoscerlo. Nel teatro credo la figura del Rigoletto verdiano, forse perché l’ho sempre accostato proprio a uno dei personaggi del cinema di Linch. Nella letteratura sarebbero molti, a volte anche solo per piccole fasi dei loro lavori, cito solo Michel Foucault, Dostoevskij, Georges-Didi Huberman, Freud e Barthes.
Progetti futuri? Puoi svelarci qualcosa?
Il minimo indispensabile, sto lavorando su Torino con alcune istituzioni come il Museo Luigi Rolando, che conserva l’unico esemplare italiano del modello di Aeby. Fu Torino infatti l’unica città italiana ad acquisirne uno nel 1885, è custodito all’interno del museo in ottime condizioni. Oltre a questo e qualche fiera sto portando avanti alcune ricerche in istituzioni mediche di Parigi, Dresda e Praga; quest’ultima fu la città natale del prof. Chr. Aeby, e dove probabilmente è conservato uno dei primi prototipi del modello.
Ultimissima domanda. Cosa non è mai stato chiesto a Christian Fogarolli?
Credo molte cose, tra cui certamente questa domanda.