A
volte è possibile che l’intimità di due numeri primi e rari, dalla vita
consumata velocemente, proprio quella che ha permesso loro di entrare
nella storia come miti autentici, s’incontri. È il caso delle due
esposizioni fotografiche alla Ono arte contemporanea. Jean Michel
Basquiat e Jeff Buckley condividono gli stessi spazi l’uno attraverso
gli scatti di Lee Jaffe e l’altro di Merri Cyr. Entrambi
testimoni di due esistenze disegnate al di fuori dei limiti
precostituiti, due artisti che hanno lasciato dietro di sé tantissimi
appassionati in grado di riscoprirne ogni volta la grandezza. Due
esistenze che hanno trovato più nell’intensità che nella parsimonia il
proprio gesto creativo.
“New York, negli anni Ottanta, nei primi
anni Ottanta, esprimeva ancora un’ansia di erotismo, infinita, diffusa.
O forse, per meglio dire, era proprio un’energia sessuale, dichiarata e
convinta. Era una sensualità diretta, fatti di sguardi e complicità,
immediata nell’intuizione, affrancata da ogni dipendenza. Ma
l’inesprimibile è l’assoluta arrivavano dalle strade. Le strade erano
tutto, il Tutto dei bisogni più antichi e evidenti.” Queste le parole di
Rosma Scuteri nel libro “New York – anni ottanta- l’arte in presa
diretta.”, un testo must per chiunque sia desideroso d’imbattersi e
riscoprire le sfumature di quel periodo così spesso rimpianto dai
più. Jean Michel Basquiat è stato proprio uno degli artisti protagonisti
in quegli anni così maledettamente selvaggi e coraggiosi di una New
York fedele alla libido più che al dio denaro. La New York dei club,
come il Mudd Club il Club 57, la New York della Factory di Andy Warhol,
la New York dei graffitisti e degli street artist, di un acerba Madonna e
di Keith Haring, solo per citarne i più celebri.
SAMO acronimo di Same Old Shit, é come
si firmava alla fine degli anni Settanta il giovanissimo Basquiat, “Una
notte stavamo fumando erba e io dissi qualcosa sul fatto che fosse
sempre la stessa merda, The Same Old Shit, SAMO, giusto? Immaginatevi:
vendere pacchi di SAMO! È così che iniziò, come uno scherzo tra amici, e
poi crebbe.” (JMB, intervista al Village Voice, 1978) La tag SAMO prese
sopravvento a SoHo e Tribeca nel 1978 grazie anche a Diaz, writer con
lo pseudonimo di Bomb-1. “SAMO come la fine della religione che ti lava
il cervello, della politica inconcludente e della falsa filosofia. SAMO
come clausola liberatoria, SAMO salva gli idioti, SAMO come la fine del
punk in vinile, SAMO come alternativa al fare arte con la setta
radical-chic finanziata dai dollari di papà. SAMO come espressione
dell’amore spirituale. SAMO per la cosiddetta avanguardia. SAMO fu
questo è molto di più, e come tutti i grandi sodalizi d’amore, volse al
suo termine nel 1980, con la separazione dei due artisti per diversi
diverbi, da quel momento la tag venne utilizzata da Basquiat con “SAMO
is dead”.
L’arte di Basquiat così vicina all’art
brut di Dubuffet per matericità e istintualità è un cocktail di energia e
gestualità primitiva, il tutto racchiuso e fortificato nella e dalla
potenza del gesto e del colore. Quest’assurda passione è stata ben
immortalata da una altro grande artista eclettico, il newyorkese Lee
Jaffe che incontrò Jean – Michel Basquiat nei primi anni Ottanta e lo
ritrasse nei loro numerosi viaggi in Svizzera, Tailandia o Giappone,
così come nel suo studio di New York nel quale Basquiat lo filmò a sua
volta mentre Jaffe realizzava la scultura “Inverted Oak”. È così che un
inedito Basquiat nei primi anni di carriera è stato immortalato per
sempre, nei momenti di vita quotidiana, tra la pittura in strada e uno
sguardo al cielo, con una t-shirt rossa, un sorriso dettato da una
inconsapevole straordinarietà e le mani sporche di colore. Un’esistenza
giunta al termine un maledetto giorno del 1988, per colpa di una
overdose a soli 27 anni.
Altra vita dalla brevità melanconico è
quella di Jeff Buckley, morto annegato una notte del 1997 a soli 31
anni. Oggi a distanza di un ventennio dall’album che lo ha consacrato,
Grace, gli scatti di Merri Cyr testimoniano l’intima essenza di una voce
che ha cambiato il panorama musicale degli inizi degli anni Novanta.
Figlio d’arte di un padre che non hai mai conosciuto, Jeff lo ha
superato per grandezza e sfortunata bellezza. Un corpo vocale graffiante
e straziante in bilico tra il soul e il rock, in grado di contaminare
anime musicali diverse per un risultato che trascende la pelle d’oca,
come nelle cover di Ella Fitzgerald, The Smiths, Bob Dylan, o Leonard
Cohen. Il segreto allora era catturare, saccheggiare, rubare dai grandi
per un’ibrido confuso e felice che è volato oltre le acque imperdonabili
del Missisipi, per planare ancora dopo vent’anni su una moltitudine di
ascoltatori volenterosi a riscoprire e innamorarsi di un artista dal
destino segnato.
Merri Cyr, con una carriera artistica di
tutto rispetto, ha fin dal primo incontro, sostenuto che Jeff Buckey
fosse stata una persona dal talento e dal fascino innati. Una sorta di
calamita silenziosa e di forte attrazione ha caratterizzato la sinergia
tra i due. La Cyr ha immortalato Buckley, nei momenti più intimi,
restituendoci un prezioso ritratto sotto forma di diario segreto per
immagini. Dalla bellezza impura e dalla tristezza graffiante, Buckley al
supermercato, disteso sul divano, distratto o annoiato, al telefono o
nascosto, semplicemente perso nella propria vanità di artista, nella
propria grazia, nella propria aura. Aggrappato al microfono come si fa
con la speranza. Un erotismo sottile e fragile, ma travolgente e
decadente. Nella parole della stessa Cyr si racconta: “Continuava a
fissarmi con gli occhi sgranati, sfoggiando una padronanza da attore
consumato. Benché detestasse l’idea, era a tutti gli effetti un artista
tormentato. (…) io per lui ero una specie di testimone. Un’amica, certo,
ma anche una testimone”.
In queste due esposizioni il medium
fotografico scopre le attitudini dell’essere artista e ne svela di
drammi rimanendone testimone e custode. So real, cattura con discrezione
il sottile limen che intercorre tra vita e arte, lì dove il mito giace
nei silenzi più incomprensibili; allora ecco che artisti come Merri Cyr o
Lee Jaffe riescono ad avvicinarsi alla leggenda, Basquiat e Buckley,
con estrema cautela e cura, un’attenzione spasmodica dettata da un
feeling umano, un rapporto di voyeurismo che si consuma nella brevità
della vita e dello scatto, e che rende sofisticati, preziosi e unici i
legami tra anime simili. Perché nella moltitudine delle sue funzionalità
l’arte serve anche a riconoscersi.
Federica Fiumelli
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