Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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giovedì 12 maggio 2016

Il disegno, il segno, la linea di Riccardo Baruzzi #P420

http://julietartmagazine.com/it/la-linea-di-riccardo-baruzzi/




“É in cielo che tu devi salire, Astolfo, su nei campi pallidi della luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila, le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva.” Italo Calvino, “Il castello dei destini incrociati”
Il disegno, il segno, la linea. In questa digressione la ricerca artistica di Riccardo Baruzzi si palesa e si celebra nella volontà costante di mantenere una soluzione a cui si potrebbe arrivare e non si arriva. É attraverso il corpo della pittura che il disegno viene indagato e percorso in queste opere di mancanza. Perché di mancanza si parla nei lavori di Baruzzi. Una mancanza che manifesta la complessità del potente ma sottile velo, limen, che intercorre tra fenomeno e noumeno, tra figurazione e astrazione. La linea infatti, elemento di conoscenza imprescindibile nella cifra stilistica di Baruzzi, come una fedele ma spesso infedele compagna, vuole assomigliare più al pensiero che non alle cose. I soggetti non sono importanti, quello che conta è tracciare un intervallo delicato, audace, sofisticato, essenziale, un segno che è espressione originaria di una caduta nell’incompiuto. Baruzzi ci narra attraverso le proprie opere in maniera anti didascalica, la potenza evocativa dell’artista risiede nella mancanza di descrizione. Baruzzi accenna. Nell’esplorare i limiti che intercorrono tra i supporti e l’opera come in “Ordine” o tra disegno e pittura come in “Quasimezzochilo”, l’artista ci offre delle composizioni visive, brevi, sincopate, musicali, intermittenti, perché un altro elemento imprescindibile nel lavoro di Riccardo Baruzzi è il suono.
La linea si amalgama al suono in un’ascensione che è produzione di segno. La linea calligrafica e sensuale di Baruzzi incide il proprio di-segno in interstizi sonori di visione; l’autonomia semantica del segno in sé per eccellenza come appunto è la linea, bagna, scorre, allinea, compone, spalma, seduce e conduce nell’imprevisto, in qualcosa che può accadere ogni volta differentemente nell’occhio di chi osserva. Baruzzi, artista famelico, affamato e insoddisfatto, sagace funambolo incarna lo spirito dell’uomo che ride di Victor Hugo, “Aveva crisi di smarrimento, la sua mente subiva l’oscillazione tipica dell’imprevisto, che ciclicamente, sembra portarci a capire qualcosa, per poi portarci a non capire più niente. A chi non è capitato di avere nel cervello un bilanciere del genere?” In questa oscillazione dicotomica i disegni di Riccardo Baruzzi operano alla stregua di haiku, brevi componimenti poetici di origine orientale, che nella loro assoluta atemporalitá non ci privano di una concreta  e sensuale corporeità. Nella caduta dei limiti proposta da Baruzzi, la cessazione, la perdita e la sintesi sono elementi costitutivi di una ricerca che si pone come una possibilità di cura dell’immagine. Come ha ribadito Simone Weil “Ciò che limita é senza limite.”
Riccardo Baruzzi, Dal disegno disposto alla pittura. 2 Aprile – 4 Giugno 2016 @ P420 di Bologna
Federica Fiumelli


Riccardo-Baruzzi-1




venerdì 12 febbraio 2016

Ana Lupas. L’identità, dal locale al globale

link: http://wsimag.com/it/arte/18848-ana-lupas




Grazie alla solo exhibition proposta dalla galleria P420 di Bologna in occasione di Frieze Masters a Londra, ho potuto conoscere e approfondire da vicino il lavoro dell’artista rumena Ana Lupas.
Est. Classe 1940. Una fuoriclasse che ha fatto del suo lavoro più che un’estetica, un’etica dicotomica. Essere un’artista dell’est ha significato reagire al proprio ambiente naturale, ha significato essere sensibile a ciò, e per sensibile si intenda il senso baumgartiano del termine, una sensibilità dunque inequivocabilmente legata alla conoscenza, all’appartenenza delle emozioni.
La poetica della Lupas si dipana glocalmente, l’artista profondamente radicata alla propria terra ha saputo indubbiamente, tramite performance e installazioni, coinvolgere attivamente gli abitanti autoctoni ed è riuscita tramite altre opere a parlarci di temi filologici come l’identità. Dal locale al globale, quasi sussurrando. La dicotomia dei lavori è riassunta nella ruvida eleganza che l’artista ha sempre avuto, l’attenzione verso le tradizioni e il folklore, ma allo stesso tempo l’esigenza di essere una voce fuori dal coro, non per vanità, ma per pura essenza, un’artista imbevuta fino al midollo di quel sentire avanguardistico che ha segnato precisi e decisivi momenti nella storia dell’arte. Tra archetipi e sperimentazione. Fuori dagli schemi che il mercato ha sempre dettato.
Una linea opulenta e irregolare quella che attraversa il tempo. Il suo tempo, il nostro tempo. Perché di tempo si parla nei suoi lavori, di dedizione, quella dedizione quasi sacrale che si dona come impilando i grani di un rosario, di umiltà, di materia grezza che non eccede mai fuori dalle righe, che trova un equilibrio in un mondo, a volte, troppo lontano dalle origini. Quella della Lupas è un’etica biologica che trae la propria spiritualità nello spazio.
L’artista come iniziatrice di processi e come antropologa, psicologa, come una sciamana provocatrice di profonde intuizioni, coinvolgendo l’altro in un comune gioco poetico. Mai patetico sempre critico. La Lupas parte dall’organico, dal fisiologico, dal deperibile, dall’effimero, parte da fibre naturali, pelli, steli di grano, ma anche ossa, legno, tessuti. La sua è una geografia tattile che si perde nell’intensità della struttura, tra architettura e spirito. Frammenti interconnessi e sapientemente intrecciati. Un esoscheletro di romantica perseveranza.
L’identità è un luogo tellurico e prismatico meno liscio di quanto si possa immaginare, e se l’aspetto minimale delle opere ci concede una pulizia di sguardo, la profondità non è che lì nella superficie, nella mobilità e sinuosità di certi intrecci, nodi, cuciture, pieghe, usure, strappi. Ancora una volta una dualità che ci concede il lusso di essere intimamente umani.

Opere

Flying machines
Ana Lupas, Machine for flying through the Woods, 1973, various materials, cm. 265 x 201 x 30
L’assemblage materico, come il titolo annuncia, rimanda a qualcosa di altro, a un “attraverso il quale”. Si presenta come un’opera priva di orpelli, tra leggerezza e minimalismo, garze, lana, legno, canapa e cuoio. I materiali sono visivamente soppesati in una grazia raffinata, non pretenziosa. L’essere macchina come l’essere umano richiede tanti diversi pezzi in coesione fra loro, e questa biodiversità non è che l’ascesa in uno stato di natura.

Coats
Coat for reaching the Heaven, Coat for reaching the Purgatory, Coat for reaching the Sun sono tutti lavori del 1964. La forma tessile invade lo spazio a metà tra l’essere scultura e l’essere architettura. La preziosità di questi patchwork identitari sta nell’essere una seconda pelle, una vera e propria rete di intrecci, nodi, rilegature, dove subentra un discorso quasi erotico sul pattern e la composizione. La diversità e la complessità dell’essere umano è una battaglia quotidiana costante in e out. Le cuciture, le diverse texture, i tagli, sono luoghi di scontro edincontro tra il corpo e lo spirito che l’occhio può solo indossare.

Humid Installation, 1970, four color photographs (printed in the 70s), cm. 40 x 61,5 each (cm. 80 x 123 overall)
1970. Nel villaggio di Mârgãu in Transylvania, si compì un atto collettivo catartico, dall’intima intensità. L’artista radunò più di cento donne invitandole a stendere le proprie lenzuola pulite in linea lungo i verdi pendii rumeni. La ri-contestualizzazione di un simile gesto quotidiano e domestico divenne così un atto estetico tramite il quale le persone poterono attuare un processo di identificazione. Humid Installation trae la proprie radici dall’azione del 1966 The Flying Carpet e può essere considerata a tutti gli effetti un proto intervento di land art effimera. Le componenti di spazio e tempo rimangono di fondamentale importanza per un lavoro che, anche se ripetuto con differenti modalità, rimane ogni volta unico nelle proprie finalità. La memoria di questi delicati tessuti umidi diventa una stretta spirituale, una morsa al proprio sé tra nuvole e lenzuola. Dall’alto le linee bianche che si sono create nell’ambiente fungono da scrittura, maestosamente silenziosa, che richiama all’appartenenza, alla ricerca di un’ancestralità perduta. Di preziosa leva anche i disegni preparatori, che dimostrano nella traccia l’intenzione di un processo.

Identity Shirts
First generation, second generation, 1969
Oggetti non funzionali, dai contorni indefiniti, dall’identità incerta, complessa, vaga, sfumata. Reminiscenze di capi d’abbigliamento. L’artista suddivide per gruppi, per generazioni, i seguenti lavori. Quelli di prima generazione si avvicinano a una texture densa di un grafismo che a tratti si fa più intenso e a tratti più leggero. L’unione di cucito che sia manuale che sia a macchina si mescola al sapore della grafite, per una geografia livida che ben rappresenta il concetto di identità. L’identità si fa traccia di un’idea. I lavori della seconda generazione presentano una “pelle” più stratificata, più volumetrica, più sezionata. La texture sembra espandersi in maniera rigorosa nei precisi confini di una geometria inscatolata, dalle nuances opache e terrose, originarie. Corrosione, lacerazione, tutto porta a un’inevitabile consumazione della bios.

The Solemn Process
1964. Installazione dall’intriso misticismo pensata esclusivamente per ambiente rurale. Come di consueto l’artista scelse materiali deperibili, come grano, paglia, canapa, cotone, legno. La caducità e fragilità materica sembrano rafforzare paradossalmente la poetica dell’artista. Le strutture corporali create erano rigorosamente effimere, opulescenti, tattili, fluttuanti, con una trascinante plasticità nelle proprie forme, in grado di occupare e modificare l’ambiente circostante. Anche in questo caso l’artista seppe mantenere un duplice sguardo, quello della sperimentazione di nuovi linguaggi artistici e quello legato alla tradizione, ai valori di un artigianato che riscopre nella propria manualità una forza interiore quasi magica.

Federica Fiumelli













mercoledì 30 settembre 2015

Where the trees... Il sottile tratto tra natura e cultura

link: http://wsimag.com/it/arte/17385-where-the-trees-dot-dot-dot





Where the trees line the water that falls asleep in the afternoon

Tutto comincia con una poesia. E ci perdiamo in quel sottile tratto tra natura e cultura. Tra dono e artificio. Scalzi e in punta di piedi camminiamo per non fare troppo rumore sotto un tappeto di foglie, tendiamo l'occhio al manto di nuvole e origliamo come da una porta chiusa, il rumore del vento. Sgusciare fuori da un confine per perdersi dove si addormenta il giorno.

Appesi alle parole del poeta Pierre Reverdy, il curatore Chris Sharp ha steso questa mostra che con la forza di un filo di erba che esce dal cemento, si sradica tra personalità internazionali. La poesia racchiude la vera linfa dell'esposizione tant'è che ogni parola spesa in più pare in eccesso, pare arrogante e invasiva. Si perché se c'è qualcosa che lega le opere in mostra è sicuramente la pulizia visiva che porta all'apice di un silenzio originario, bisogna rispettare lo spazio che si è venuto a creare con i lavori.

Le sculture e le tele hanno tessuto un personale ambiente tra le mure delle galleria, restituendoci a una nicchia che punta più alla meditazione che alla funzionalità. Ci troviamo in un interstizio polifonico tra dono e artificio dove l'essenziale si rifugia nell'ermetico. Tre artisti, tanti luoghi, diversi intrecci, luoghi, memorie e tecniche. L'artista messicano con sede a Basilea, Rodrigo Hernández, segnalato anche da ArtReview tra i migliori artisti internazionali, presenta per questa occasione quattro opere tutte differenti l'una dall'altra. Il pregio dell'artista è senza ombra di dubbio quello di sperimentare con i diversi media, mirando dritto al cuore dell'essenza. Un lavoro di spogliazione, una nudità della materia che disarma l'occhio e attiva una coscienza primordiale. La semplicità apparente in verità rivela una complessità di studio e di ricerca che trova nei lunghi tempi e nelle attese la lingua madre.

Faccio tesoro da anni di una frase junghiana che merita spazio proprio qui tra queste righe, "Com'è difficile essere semplici", intendendo appunto la semplicità come sintesi di processi talvolta decisamente complessi. Nell'olio su tavola Conflict over coherence la resa pittorica è tersa, lineare, a campiture concentrare e uniformi. Il rigore e la perfezione delle forme infastidisce quasi l'entropia propria del mondo. Una solitudine metafisica colora il s(oggetto).

Nella scultura in cartone, Senza Titolo, l'aridità preziosa e sofisticata di Hernández si fa non-luogo tra le sinuosità della carta, rendendoci voyeur di una visuale dall'alta sul nulla che si fa ambiente inscatolabile. In Pedazo de pueblo la china su carta riciclata ha avuto un effetto corrosivo e scultoreo sul supporto scelto. Come una macchia sfumata si è venuta a formare una seconda pelle, informe, attirando su di sé uno sguardo tattile, come la pellicola del latte caldo che si raffredda.

Una pittura dal tepore cocente, tra rigore e difformità come in Practice of relaxation , dalla pennellata decisa e geometrica, si passa a una disgregazione, alla dissoluzione. Come in un processo chimico la ricerca di Hernández passa da vari stati di materia, tra conflitti, pratiche e relazioni. L'artista newyorkese Clare Grill sperimenta la propria pittura con oli su lino che introducono l'osservatore a una visione stratificata e atmosferica. I gialli di Bee e Pamy e i verdi di Flay si diversificano, si mescolano e si sedimentano venendo a creare un pattern caoticamente pacato. Visivo e tattile. E' un disordine tranquillo, a bassa voce, che si perde a mezz'aria in una nebbia di colori che tono su tono invitano il visitatore a spogliare mentalmente l'opera, come se venisse occultato qualcosa, come se non ci fosse un fondo, e qualcosa sfugga sempre.

Le sculture dell'artista Kate Newby, neozelandese ma con sede a New York, modificano lo spazio richiedendo un'attenzione del tutto silenziosa, introspettiva e meditativa. Dalla ceramica al tessile, al vetro, la Newby pone in relazione l'oggetto con lo spazio ospitante detronizzando la funzione. Tutto quello che occorre è sentire. Origliare come da quella porta dell'inizio per sentire sussurrare il vento. Svuotando l'orecchio da pregiudizi e inquinamenti acustici, la poetica della Newby ci introduce a una disintossicazione del daily to much, per condurci a sonorità e visioni immensamente minimali.

In They sound like each other sei campanelle a vento di vetro rimangono sospese, attraverso la luce che filtra e si perde tra le sinuosità trasparenti che deformano e diffondono, rifrangendo la percezione. Quarantotto elementi di porcellana e ceramica bianca, sospesi anch'essi l'uno accanto all'altro, risuonano per relazione, procedendo come una reazione a catena, se uno si muove, anche l'altro e quello dopo, come in un domino, solo il gesto, il vento, o l'aria potranno risuonare Maybe I won't go to sleep al all nella profondità di semplici e dionisiaci suoni.

In Best possible time ever e I feel like a truck on a wet highway le ceramiche cotte ad alta temperatura e porcellana assumono le forme di elementi vegetali e naturali, come foglie e spugne, occupano lo spazio di tempo al alte vette. Un bell'articolo su Frieze a lei dedicato, è intitolato The art of tiny revelations, perché, come Jennifer Kabat ha scritto, "la Newby celebra la minuzia della vita di tutti i giorni, il suo lavoro è un invito a guardare lontano e ancora oltre".

La poetica dell'artista neozelandese è dal mio punto di vista riassumibile con lo storico titolo della celeberrima canzone Let it be, credo che l'artista abbia un forte fiducia dalla quale trae inevitabilmente anche ispirazione nell'accadere della vita stessa. Con la semplicità logorante del caso che modella e agisce su vite e situazioni come il vento lo fa su paesaggi e ambienti. Sottili rivelazioni, quindi, impercettibili sguardi sull'altrove e indissolubili agganci poetici, non a caso già i titoli delle opere rivelano intrigantemente l'intento artistica dell'autrice.

In questa mostra si cade sempre un po' più in lá "risospinti senza posa" (fitzgeraldianamente parlando), come foglie. Fragili e inaspettati. E siamo già in preda a un'altra stagione, a un altro ambiente senza tempo, come viaggiatori scalzi dentro l'eco del vento.

Under the blazing sun, when the landscape is on fire, the traveler crosses the stream on a very narrow bridge, before a dark hole where the trees line the water that falls asleep in the afternoon. And, against the trembling background of the woods, the motionless man.
(P. Reverdy)

Federica Fiumelli









lunedì 25 maggio 2015

The Opening. Sanja Iveković e Franco Vaccari


link: http://wsimag.com/it/arte/15134-the-opening 







C'è un bellissimo disegno del 1492 di Leonardo Da Vinci che rappresenta in sezione il corpo di un uomo e di una donna durante un coito. Quello che ne deriva è di come i due corpi nel momento del contatto si trovino profondamente legati, gli organi assumono la forma di una mappatura stradale strettamente interconnessa. La locuzione latina Inter nos, tradotta letteralmente significa "fra di noi".

E Inter Nos è esattamente il titolo di una performance del 1978 dell'artista croata Sanja Iveković esposta insieme a Franco Vaccari nella mostra The Opening alla Galleria P420 di Bologna, curata da Marco Scotini. The Opening perché entrambi gli artisti, già attivi negli anni Settanta, hanno superato il tradizionale concetto di performance sviluppando una nuova definizione di happening basato sul dialogo, sulla relazione tra artista e spettatore. Lo spazio diventa quello della galleria, il tempo quello dell'Opening appunto della mostra, in cui tutto diviene processo, dal momento della creazione, all'esposizione, alla fruizione definitiva dell'opera. L'opening che diviene coito.

Entrambi gli artisti, dopo quasi quarant'anni dall'ultima esposizione insieme, hanno sempre lavorato contro la passività della fruizione del pubblico volendo innescare dinamiche relazionali in grado di "riattivare i processi della socialità e della relazione". Contro ogni volontà aprioristica lo studio dei due artisti si rivolge alla continua mutazione delle relazioni, potenzialmente infinite e sempre diverse.

Franco Vaccari, classe 1936, attraverso la sua esplorazione a livello sia teorico che operativo, grazie al concetto di Esposizione in tempo reale detronizza la passività contemplativa fotografica per donarle invece lo spazio dell'azione. Da una dichiarazione dell'artista allegata all'opera Viaggio + Rito del 1971: "Il pubblico è chiamato a distruggere lo spazio della contemplazione per aprire quello dell'azione". Come scrive Claudio Marra in Fotografia e pittura del Novecento - una storia senza combattimento il concetto di esposizione reale richiama l'"immagine atto" che Philippe Dubois definì all'inizio degli anni Ottanta. Un'immagine che "permette la presentazione di atti, esperienze e tranches de vie, che obbligatoriamente richiedono partecipazione". Non è difficile ricondursi a una delle più grandi correnti filosofiche, la fenomenologia indetta da Husserl, il quale assunto principale era appunto quello che alla base di ogni conoscenza ci fosse relazione con l'alterità. Se le fotografie mantengono una strettissima imprescindibile relazione col proprio referente, non è un caso che Vaccari lavori con i concetti di indizi, tracce e segni. Occorre qui aprire una parentesi semiotica cara a Pierce.

Come anche Marra ricorda nel testo sopra citato, Pierce stabilì che un indice è "un segno o una rappresentazione che rinvia al suo oggetto non tanto perché è associato con i caratteri generali che questo oggetto si trova a possedere, ma perché è in connessione dinamica (compresa quella spaziale) e con l'oggetto individuale da una parte e con i sensi o la memoria della persona per la quale serve da segno, dall'altra". Umberto Eco sintetizzò successivamente affermando: "Pierce chiama talora indici anche le fotografie (che parrebbero rientrare tra le icone): infatti una foto non solo rappresenta un oggetto, come può farlo un disegno, ma ne costituisce anche la traccia e funziona come il cerchio di vino rimasto sul tavolo che testimonia la presenza (passata) di un bicchiere".

In mostra, di Vaccari, sono esposte Esposizione in tempo reale num.1, Maschere (1969), Esposizione in tempo reale num.5, Spazio privato in spazio pubblico (1973), Esposizione in tempo reale num.6, Il cieco elettronico (1973) e Esposizione in tempo reale num.7, Mito Istantaneo (1974). In Maschere, presentata alla Galleria Civica di Modena, l'artista fece distribuire centinaia di maschere che recavano impressa la fotografia di un uomo qualunque. In seguito venne fatto buio in sala. Vaccari si mise a girare tra il pubblico con una pila e una macchina fotografica. Ogni tanto illuminava qualche persona e cercava di fotografarla, ma questa in quel preciso momento si nascondeva sorpresa o seccata dietro la maschera, usandola come scudo, come corazza, barriera, come mezzo per rientrare in una dimensione totalmente privata e anonima, come difesa e protezione dall'eccesso di individuazione che l'uso del mezzo fotografico può portare.

Riportata anche nel famigerato libro Body art e storie simili - il corpo come linguaggio di Lea Vergine, a proposito di "maschere" l'artista stesso affermava: "Io uso la fotografia come azione e non come contemplazione e questo comporta una negazione dello spazio ottico a favore dello spazio delle relazioni. Mi interessa sparire come autore per assumere il nuovo ruolo di innescato re e regista di processi. Gli ambienti dove opero devono essere luoghi dove le cose accadono realmente e il dopo è sempre diverso dal prima. In altre parole sono interessato alla riscoperta del rischio, inteso come rifiuto di ogni tipo di garanzia aprioristica; si può infatti affermare che le manifestazioni artistiche assolvono il compito di essere le nicchie della rassicurazione dove si ha la certezza che non succederà assolutamente niente".

In Il mendicante elettronico Vaccari registrò in una piazza vicino alla fermata dei tram un mendicante nell'atto di chiedere l'elemosina. Successivamente al posto di questo lasciò un televisore che trasmetteva la registrazione appena fatta: sullo schermo appariva la scritta "Il cieco torna subito". Parafrasando McLuhan, il medium diviene potere, l'uso di quel tipo di mezzo solitamente gestito da grossi gruppi di potere ha determinato un effetto di "mitizzazione istantanea" del mendicante.In Comunicazione Segreta, presentata alla Trigon 73 Neue Galerie a Graz, l'artista ricavò una nicchia privata all'interno dello spazio della mostra. Quella nicchia era composta da due ambienti in comunicazione audiovisiva fra loro. La comunicazione purché prendesse vita in pubblico era sottratta al controllo pubblico stesso. Il momento della documentazione si trovava così davanti a indizi, tracce e segni, limiti di fronte ai quali la curiosità doveva arrestarsi e interpretare. In Mito istantaneo, presentata alla Galleria 291 a Milano, l'artista aveva a disposizione due ambienti, in uno fotografava con la polaroid i visitatori, nell'altro faceva proiettare sulle pareti la foto appena scattata, che in questa maniera risultava ingigantita. Chi era stato fotografato, quando scopriva la propria immagine proiettata, veniva illuminato e rifotografato insieme a questa.

Sanja Iveković, classe 1949, si è formata presso l'Accademia di Belle Arti di Zagabria; sin dagli anni Settanta la sua produzione artistica ha abbracciato vari tipi di media, quali la fotografia, il video, l'installazione, la performance, l'azione in pubblico. Da sempre ha indagato criticamente l'uso delle immagini e dei corpi, ha analizzato la costruzione dell'identità nei media e nella politica, ed è stata protagonista di un attivismo soprattutto di origine femminista. Il coinvolgimento del pubblico è alla base della ricerca artistica della Iveković, determinando una relazione con i fruitori, stretta a un livello intimo ed emozionale.

La mostra si apre appunto con Inter Nos, quattro foto in bianco e nero, un disegno con testo e un video. L'installazione prevedeva un dialogo privato tra l'artista e il visitatore. E ciò avveniva tramite l'interazione della Iveković con l'immagine sul monitor del fruitore che suscitava ogni volta una reazione individuale e diversa. Le due stanze erano messe in collegamento tramite un circuito chiuso composto da due apparecchi video senza connessione audio, e un ambiente dove la performance veniva videotrasmessa al pubblico che poteva vedere la sola immagine del partecipante. Nella 1st Belgrade performance la performance iniziava nel momento in cui l'artista entrava in galleria insieme al curatore. Continuava a camminare formando cerchi a ritmo di musica affinché la distanza tra l'Iveković e il pubblico diminuiva riducendosi ogni volta di 1 metro; la velocità della camminata diminuiva fino a quando arrivava in una posizione in cui con l'aiuto del curatore si presentava e stringeva la mano a ogni persona, iniziando una conversazione con ogni visitatore della galleria. Gradualmente scompariva come performer, mentre l'azione performativa continuava come spontanea azione del pubblico.

Meeting-points era una performance composta in due parti. Il primo giorno l'artista eseguiva la performance all'interno della galleria vuota con solo una videocamera come testimone. L'azione nello spazio corrispondeva nell'anticipazione di dove il pubblico si sarebbe trovato e in come la comunicazione fra di loro si sarebbe sviluppata. Il giorno seguente un monitor venne posizionato in un angolo della galleria e il video trasmesso mentre l'azione vera iniziava. In quell'istante le anticipazioni dell'artista cercavano di trasformarsi in realtà, ad esempio ripetendo la performance alla presenza del pubblico.

Il lavoro che ho preferito insieme a Inter Nos è sicuramente Inaugurazione alla Tommaseo presentata a Trieste nel dicembre del '77. Durante l'inaugurazione della mostra, l'artista rimase chiusa nel piccolo spazio riservato all'ufficio, con la bocca sigillata da nastro adesivo. Un amplificatore trasmetteva il rumore del battito cardiaco in tutti gli ambienti della galleria, mentre l'artista incontrava singolarmente ogni visitatore. L'inizio di ogni incontro veniva scandito da un determinato suono e poi fotografato. Il giorno seguente, le immagini vennero appese in galleria insieme all'audio corrispondente. Lo spettatore aveva la possibilità di riascoltare il suono durante l'opening. Riascoltare il suono del battito dei cuori di quei visitatori in mostra ha annullato il senso del tempo e ha riattivato oggi come ieri quella volontà Inter Nos di partecipazione attiva nello spazio di relazione.


Una riflessione intima mi ha portato alla convinzione di quanto sia importante oggi riguardare con attenzione questa tipologia di interventi artistici mirati a renderci responsabili dell'essere presenti a noi stessi e all'altro, qui e ora. In una logica di abbandono del preconcetto. Quell'esserci così atrofizzato che nell'era della super comunicazione ritrova a spalleggiarsi tra individualismi atomizzati e non comunicanti. La molti-solitudine è divenuta un'attitudine contemporanea emblema della grande alienazione. Vige un'estraneità al contatto, un'impurità che fa dell'assenza non elemento attivo ma disertore. Per questo è necessario ripristinare uno spazio di relazione attivo nel quale corpi e pensieri siano legati in un coito, nel tempo di un Opening.


Federica Fiumelli








Opiemme. Vortex. Galassie di parole

link: http://wsimag.com/it/arte/14921-opiemme-vortex




"Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Incontrerò una parola
che trattenga il tuo corpo e lo faccia girare,
che contenga il tuo corpo
e apra i tuoi occhi come un dio senza nubi
e usi la tua saliva
e ti pieghi le gambe.
Tu forse non la sentirai
o forse non la capirai.
Non è necessario.
Vagherà dentro di te come una ruota
fino a percorrerti da un estremo all’altro,
donna mia e non mia
e non si fermerà neanche quando tu morirai".
(Roberto Juarroz)

Tutto in me ruota vorticosamente: scatole e mente
(Gaetano Arcangeli)

Vortex è l'incontro con la parola, che si fa materia. Una costituzione cosmopoetica è la ricerca che porta l'artista Opiemme con il ciclo di tre mostre, la prima al Bi-Box Art Space a Biella, la seconda conclusasi recentemente negli spazi di Portanova12 a Bologna e la terza che si terrà allo Studio D'Ars a Milano il prossimo Novembre.

Vortex indaga la stretta osmosi ciclica che vi è tra uomo e cosmo, interpellando parole, poesie, pianeti, e stelle. Lo spazio della pittura diventa respiro e luce. Il lavoro trae ispirazione dal libro L'alfabeto scende dalle stelle. Sull'origine della scrittura di Giuseppe Sermonti, nel quale si sostiene che l'alfabeto non sarebbe altro che un'immagine derivata dalle forme delle costellazioni. Il linguaggio non diviene quindi che una proiezione fluttuante dell'universo. Quanta vertigine e vastità nell'ombra di questo pensiero. Lettere come petali di soffioni, vorticosamente si liberano nel dipinto murale sopra l'Autostazione di Bologna. N, S, Y, F, I, H, M, ecc...

La serie di questi lavori però sono frutto anche di un certo sentire dell'artista, di una certa poetica portata avanti soprattutto negli ultimi due anni in giro prima per tutta l'Italia con Un viaggio di pittura e poesia e poi per il mondo, come Haiti, Thailandia, Uruguay, Argentina (dove ha partecipato alla 5a Bienal del fin del mundo) e la Polonia. Proprio in Polonia, secondo il mio parere, Opiemme ha dato forma e corpo all'emblema di Vortex, tramite il dipinto murale sulla parete di dieci piani per il Monumental Art a Gdansk dedicato a una donna che ha fatto della poesia uno struggente acuto lucido sentire, la poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Da Sotto una piccola stella: "Verità, non prestarmi troppa attenzione / Serietà, sii magnanima con me".

Come elementi irridescenti le lettere fluttuano e piovono da un gigantesco pianeta-buco nero. L'infinito poetare si ibrida all'oscuro mistero del cosmo. Una profonda introspezione genera l'abisso della parola. Una colata arcobaleno sovrasta e si frammenta in lingue di colore geometrico. Tutto è soppesato da forze contrastanti, sempre nei lavori di Opiemme. Dicotomico e calibrato, anche nel primo testo critico Daniele Decia descrive Vortex come una ricerca tra astrattismo e la parola, di "lettere informali", tra informale e poesia visiva. Lettere genitrici e fecondanti aggiungo io. Lettere atomi, lettere attimi.

Nei lavori esposti a Bologna, si può appunto constatare questo dualismo tra la tecnica dello stencil più rigoroso e uniforme in un teso e delicato confronto con il dripping multiforme e multicolorato, imprevedibile e casuale. L'astrofisico inglese Martin Rees scriveva: "Il Sole e il firmamento fanno parte del nostro ambiente - il nostro habitat cosmico: una percezione che gli scienziati condividono con poeti e mistici. "Io sono parte del Sole, micosi come il mio occhio è parte di me" scriveva D.H. Lawrence, e Van Gogh dipinse la Notte Stellata con lo stesso spirito con cui dipingeva i campi di grano e i girasoli. L'arte e la letteratura abbondano di simili esempi. La scienza rende più profondo questo senso di appartenenza a ciò che non è terrestre. Noi stessi, d'altronde, siamo a metà strada tra l'universo è il microcosmo: per mettere insieme la massa del Sole ci vogliono tanti corpi umani quanti sono gli atomi in ciascuno di noi. E la nostra esistenza dipende, certo, dalla tendenza degli atomi ad attaccarsi gli uni agli altri e unirsi in quelle molecole complesse che formano tutti i tessuti viventi, ma l'ossigeno e il carbonio dei nostri corpi sono stati creati, a loro volta, entro stelle lontane, vissute e morte miliardi di anni fa". Questi pianeti tatuati di lettere e parole diventano pelli intergalattiche.

Il poeta della streetart, come da molti definito, ha attinto da penne fiere e storiche, come Gaetano Arcangeli, Roberto Roversi, Lucio Dalla, Edgar Allan Poe, Eugenio Montale trasformando i versi in colate opulescenti di lettere che prima di farsi immagine, sono per me materia evanescente e nebulosa. Le parole sono decostruite per piovere a uno stato disgregato e gassoso, libero e caotico. Ho trovato come perfetto supporti alla polvere poetica, le cartine geografiche e le anziane pagine di alcuni Resto del Carlino. In questi lavori le lettere e i pianeti sono più decisi, grafici, autonomi, ma pur conservando una loro autonomia, riescono a interagire in punta di piedi con le realtà loro sottostanti. Gli spazi sono lattiginosi dripping che donano la completa percezione della consistenza Lattea, puntiforme e infinita.

Le galassie di parole si intersecano come precipitazioni meteorologiche su strati di memoria, di notizie e di luoghi, di geografie che ormai sono divenute orizzonti nelle mente dell'osservatore. Pulviscolare e centrifugo l'atto pittorico di Opiemme, cerca di ricondurci all'origine, al caos dell'inizio, al chiasmo organico della materia, all'inizio del linguaggio. Nell'ancestralità della costituzione riesce nei propri equilibri visivi a unire micro e macro. Una pittura che nel silenzio dell'universo è onomatopeica e altisonante. Declamatoria. I suoi lavori tendono a essere appelli, nell'urgenza e brevità di un verso notturno che si fa lampo di memoria e visione.

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
/
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all'occhiello
la rosa dei venti.
/
Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.
/
Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
/
La nave che non c'è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell'orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…
/
Tutto è pronto. Sul serio. Invano.
(Juan Vicente Piqueras, Voglia di restare)

Federica Fiumelli








mercoledì 21 gennaio 2015

Alessandra Spranzi. Maraviglia @ P420 arte contemporanea, Bologna


Link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12831-alessandra-spranzi-maraviglia




"E' mattina. Dalla mia finestra vedo un'altra finestra. Ogni mattina una vecchia donna dai capelli bianchi si affaccia, aspetta che succeda qualcosa, qualcosa di bello, che io non so e non vedo, e dà degli abbracci e dei baci dalla sua finestra aperta. Poi la chiude e il giorno inizia. E il giorno inizia anche per me."

Queste sono le parole che utilizza l'artista Alessandra Spranzi per raccontare il suo lavoro Ogni mattina del 2006, unico video esposto alla galleria p420 di Bologna che le dedica la personale Maraviglia visitabile fino al 31 gennaio. E' proprio una signora dai capelli bianco neve che ci accoglie all'entrata dell'esposizione, questa immagine di questa anziana che potrebbe essere la vicina di casa di ciascuno di noi mi ha riportato alla mente la scena della busta di plastica che danzava nel vento nel film American Beauty, in entrambi i casi viene cioè celebrata l'epifania dell'ordinario, quello a cui non dedichiamo più tempo perché di tempo sembra non essercene più.

Uno dei protagonisti del film di Mendes esordiva così: "Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita, dietro a ogni cosa. E un'incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare. "

"C'era una vita intera dietro ogni cosa", con questo assunto come non ricordare il maestro bolognese Morandi? Chi meglio di lui ha saputo dare tempo e sguardo profondo alle cose, e voglio sottolineare il sostantivo "cose" alla Remo Bodei, cose sulle quali viene sedimentato del significato, non oggetti, meri oggetti privi di attribuzioni. Trovo quindi in perfetto dialogo la poetica della Spranzi con il grembo morandiano bolognese. Bologna è la città perfetta per comprendere il lavoro dell'artista.

Le opere che la Galleria P420 ospita appartengono a vari cicli: Io? (1992-93), Vendesi (dal 2007), Dizionario Moderno (2012-14), Sortilegio (dal 2012), Obsoleto (dal 2012). Alla Spranzi interessa una bellezza già esistente, non vista, per questo motivo è una grande collezionista e riciclatrice di immagini preesistenti che provengono da manuali pratici, libri scientifici, o riviste di annunci economici. Lei rifotografa, ritaglia, ingrandisce, stampa con tecniche diverse come in Sortilegio, dove illustrazioni di manuali pratici in cui si vedono mani al lavoro su materiali e oggetti sono rifotografate e stampate con la tecnica della fotoincisione. L'immagine esistente viene rimaneggiata per diventare altro. Perfino la propria.

In Io? fotocopie di collage nei quali l'artista ha sostituito il proprio viso a quelli di diversi personaggi tratti da libri e riviste. Ecco allora la Spranzi astronauta. Metafora interessante, l'artista che esplora i crateri dell'invisibile. Non fare attenzione alle cose ci rende profondamente lacunosi nei confronti della scoperta dell'ordinario. Cosa c'è di più trascurato delle fotografie delle offerte? Quasi le bypassiamo irritati, con totale disinteresse e voluta cecità. In Vendesi le immagini di annunci economici di oggetti messi in vendita, originalmente poco più grandi di francobolli, sono rifotografati e ingranditi fino a svelare la loro grana tipografica, un autentico zoom sulla pelle delle cose. La Spranzi, con il proprio modo di lavorare apre a una questione ormai obsoleta, obso-lenta, ma in questo caso interessante, risalenti agli anni Settanta. L'artista non è una fotografa, ma un'artista che utilizza la fotografia. E' necessaria questa distinzione?

Come anche Claudio Marra in Fotografia e pittura nel Novecento sottolinea, "È proprio negli Settanta che si assiste al clamoroso ribaltamento della vecchia formula "fotografia come arte" in quella di "arte come fotografia", dal momento che non è più l'invenzione di Daguerre a chiedere accoglienza nella palazzo dell'arte, vestendo ossequiosamente i panni della pittoricità, ma è l'arte stessa a uscire dalle proprie stanze sostituendo la mono-identità pittorica con tutta una serie di identità decisamente prossime alle categorie messe in gioco dal medium fotografico." E ancora sento di citare una frase faro di Marra "Di fatto la fotografia funziona come un ready-made."

E la Spranzi ama partire proprio dal già fatto. Risposte dogmatiche quindi non ce ne servono, sicuramente la fotografia più che mai negli ultimi decenni ha dimostrato di uscire da se stessa. E anche l'artista lo fa, la Spranzi ama profondamente l'immagine fotografica soprattutto se abbandonata, solo una persona che nutre profondo amore e cura può farci godere così dell'ordinario. La fotografia diviene un corpo palpato, toccato, rimanipolato, mischiato, accarezzato e tagliato, ingrandito. La Spranzi sveste e riveste. Sgualcisce e rende presente ciò che era stato bandito all'angolo. Il banale smette di essere tale.

La capacità del conservare uno sguardo vergine sulle cose ordinarie rimane il punto saldo dell'arte della Spranzi che dimostra anche nelle proprie parole una poetica ricca e potente: "Da anni rifletto sul potenziale, spesso addormentato o consumato, presente nelle immagini, tornando a guardare e utilizzare materiale anacronistico o povero con progetti ogni volta diversi, che portano alla luce, o svelano, il lato nascosto e irrazionale delle cose e delle immagini. Raccogliere, avvicinare, mettere insieme, far incontrare è un modo per riorganizzare, o sorprendere, la visione e il pensiero, per rimettere in gioco la natura enigmatica dell'immagine fotografica che continuamente ci interroga."

Nella serie Obsoleto, più che mai, secondo me, l'artista attua questa modalità di "far incontrare per sorprendere". Numerosi fotomontaggi che mettono insieme pagine di vecchi libri o riviste di vari argomenti (scienze naturali, geografia, astronomia, arredamento, botanica) a delle polaroid scattate dall'artista. Il soggetto delle polaroid sono oggetti raccolti per strada, o ritagli di fotografie, messi in scena su un tavolo. Come non ripensare a Morandi? Il tavolo diviene un set per gli oggetti orfani che vengono adottati, scelti o trovati, e ai quali viene soprattutto riconsegnata fascinazione e maraviglia.

Maraviglia, la parola scelta dalla Spranzi per questa mostra: "Maraviglia, la ripetizione della a come uno stupore ripetuto, o uno stupore del secondo sguardo. Chiudo gli occhi, li riapro, riguardo o ritrovo qualcosa che appare inaspettatamente nuovo." Maraviglia, l'opera, che fa da arciere-guida di tutta l'esposizione, una fotografia di dettagli di una copia del Dizionario Moderno trovata dall'artista in un mercato dell'usato. L'ignoto proprietario aveva arricchito il libro con definizioni ritagliate da altri dizionari e incollate sulle pagine. Una delle definizioni aggiunte era appunto "maraviglia".

Ecco allora la Spranzi ricercatrice funambola, attenta, che con cura cerca, trova, sceglie i propri preziosi fossili, sedimentati, scava l'immagine fotografica, qualunque essa sia, ci va a fondo e le restituisce "maraviglia", dal latino mirabilia, appunto, significante "cose ammirevoli". 
E allora, ogni cosa è illuminata.

Federica Fiumelli