Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
Visualizzazione post con etichetta exhibition. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta exhibition. Mostra tutti i post

domenica 7 giugno 2015

To Disconfirm. Contro l'unicità e l'indivisibilità della storia

link: http://wsimag.com/it/arte/15848-to-disconfirm 





Vuoi che proviamo a scrivere una storia?
Non domando di meglio! Ma quale?
Quale, in effetti?
(Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet)

Contro l'unicità e l'indivisibilità granitica della storia e dell'identità. Questa la volontà. Smentire, negare, ma soprattutto difendere la pluralità. La collettiva curata da Vincenzo Estremo alla gallleriapiù - Also Known as Oltredimore- di Bologna mette in evidenza i modi attraverso i quali l'arte visiva contemporanea smentisce, questiona, racconta le molteplici narrazioni della pluralità identitaria.

C'è la necessità di liberarsi dal peso monolitico delle istituzioni storiografiche. E gli artisti in mostra danno voce alla possibilità di convivenza tra ricerche differenti tra loro. La storia come l'identità e la geografia è frammentaria, non lineare, polifonica, pulviscolare, imprecisa, irregolare, instabile, da scoprire. Come in un caleidoscopio le figure mutano senza mai ripetersi. Un molteplicità di strutture. César Escudero Andaluz, apre l'esposizione con due lavori estremamente interessanti, Tapebook del 2015 e File_món del 2012. Nel primo, l'artista che solitamente studia il rapporto che intercorre tra utenti e interfacce, trasforma testi estrapolati da pagine Facebook dedicati a grandi pensatori e filosofi come Barthes, McLuhan, Foucault, Lacan, in tracce audio riportate su audiocassette, ciascuna avente per copertina la grafica del social prima menzionato. Viene così attivato un confronto tra analogico e digitale affascinante e su diverse dimensioni.

In File_món numerose immagini in bianco e nero tra le più comuni, molte delle quali hanno costellato l'immaginario comune, una storia universale, sono usate come sfondo del desktop di un computer, e alcuni elementi vengono sostituiti da collage di icone digitali. Da banali e asettici segni, le icone ritornano a fungere come elementi costitutivi della figurazione. Interessante la citazione di Georges - Didi Huberman nel sito dell'artista stesso: "The information offer us much, through the proliferation of images. We are inclined to believe nothing of what we see". La vecchia immagine fotografica in bianco e nero diventa una tela sulla quale si depositano come in alveari stratificazioni di icone, un patchwork plurisemantico, veri e propri nidi di senso (O non-senso?).

Matteo Guidi e Giuliana Racco con i lavori Representation, Between Camps e You only feel good wher You are si posizionano in un delicato limbo, perché è anche di limbi che ci parla questa mostra, tra antropologia culturale e arte. In Between Camps gli artisti hanno documentato un cammino di tre giorni compiuto da loro stessi lungo le rovine di un antico acquedotto romano che nell'antichità portava a Gerusalemme l'acqua che derivava dalle piscine di Solimano vicino a Betlemme. Fu costruito da antichi colonizzatori e oggi l'acquedotto collega due campi profughi attraversando terre non praticabili agli abitanti originari, viene pertanto utilizzato come cava di marmo dalla popolazione locale, ciò dimostra in maniera palese il sentimento di non appartenenza di questi ultimi. Appartenenza, appropriazione, memoria, confini, geografia, barriere culturali, questi, i temi esposti da duo Guidi-Racco. Quanto è labile e doloroso e precario l'orizzonte. Una linea evanescente e tagliente, un profilo sul quale l'uomo è costretto e attratto a percorrerlo. Una lontananza che solo la memoria forse può colmare. Come si evince nello scatto di Between Camps.

Intensi i lavori olio su tela e bomboletta spray di Massimo Ricciardo. In Expropriation ritrae dei luoghi squarcianti da un fucsia shocking che aggredisce lo sguardo. La città soggetto è Kashgar, città cinese della provincia autonoma dello Xinjiang, storico punto di scambio e incontro lungo la via della Seta, dove l'artista trascorse un periodo. Il centro storico ottomano venne abbattuto in seguito a un radicale riassetto come segno di sottomissione del popolo degli Uiguri, una piccola minoranza locale di etnia turcomanna con fede musulmana in opposizione al governo vigente. La distruzione e l'espropriazione sono rese manifeste dallo spruzzo arrogante e invasivo, quasi autoritario e demolitore dello spray fucsia. Avvicinandosi ai lavori si scorge quasi in opposizione una pastosità, matericitá densa e importante. In Permanent Vacation, installazione site-specific, tessuti tradizionali di un'etnia vengono confrontati con il tessuto del potere, l'immagine dell'accappatoio che Mao indossava in alcune fotografie ufficiali. La migrazione e lo scambio sono in movimento permanente, e questa è una condizione indissolubile della frammentarietà che caratterizza la vita, ancora prima della storia.

Time topographies trilogy, lavoro che "chiude" l'esposizione, opera video dell'artista Amanda Gutiérrez, è una trilogia video che dá voce ai luoghi, nessuna figura umana compare, solo tre sguardi su fette di pianeta si alternano calibrate, alcune voci fuori campo diverse per etnia, età e genere raccontano storie di migrazione e clandestinità, lasciandoci e facendoci riflettere sulla moltitudine della storia che trova vita nell'impalpabilità dei confini, nell'inutilmente indispensabile dell'arte e nel narrare in maniera plurima.

La storia, un distillato di rumori.

(Thomas Carlyle)

Federica Fiumelli













lunedì 25 maggio 2015

The Opening. Sanja Iveković e Franco Vaccari


link: http://wsimag.com/it/arte/15134-the-opening 







C'è un bellissimo disegno del 1492 di Leonardo Da Vinci che rappresenta in sezione il corpo di un uomo e di una donna durante un coito. Quello che ne deriva è di come i due corpi nel momento del contatto si trovino profondamente legati, gli organi assumono la forma di una mappatura stradale strettamente interconnessa. La locuzione latina Inter nos, tradotta letteralmente significa "fra di noi".

E Inter Nos è esattamente il titolo di una performance del 1978 dell'artista croata Sanja Iveković esposta insieme a Franco Vaccari nella mostra The Opening alla Galleria P420 di Bologna, curata da Marco Scotini. The Opening perché entrambi gli artisti, già attivi negli anni Settanta, hanno superato il tradizionale concetto di performance sviluppando una nuova definizione di happening basato sul dialogo, sulla relazione tra artista e spettatore. Lo spazio diventa quello della galleria, il tempo quello dell'Opening appunto della mostra, in cui tutto diviene processo, dal momento della creazione, all'esposizione, alla fruizione definitiva dell'opera. L'opening che diviene coito.

Entrambi gli artisti, dopo quasi quarant'anni dall'ultima esposizione insieme, hanno sempre lavorato contro la passività della fruizione del pubblico volendo innescare dinamiche relazionali in grado di "riattivare i processi della socialità e della relazione". Contro ogni volontà aprioristica lo studio dei due artisti si rivolge alla continua mutazione delle relazioni, potenzialmente infinite e sempre diverse.

Franco Vaccari, classe 1936, attraverso la sua esplorazione a livello sia teorico che operativo, grazie al concetto di Esposizione in tempo reale detronizza la passività contemplativa fotografica per donarle invece lo spazio dell'azione. Da una dichiarazione dell'artista allegata all'opera Viaggio + Rito del 1971: "Il pubblico è chiamato a distruggere lo spazio della contemplazione per aprire quello dell'azione". Come scrive Claudio Marra in Fotografia e pittura del Novecento - una storia senza combattimento il concetto di esposizione reale richiama l'"immagine atto" che Philippe Dubois definì all'inizio degli anni Ottanta. Un'immagine che "permette la presentazione di atti, esperienze e tranches de vie, che obbligatoriamente richiedono partecipazione". Non è difficile ricondursi a una delle più grandi correnti filosofiche, la fenomenologia indetta da Husserl, il quale assunto principale era appunto quello che alla base di ogni conoscenza ci fosse relazione con l'alterità. Se le fotografie mantengono una strettissima imprescindibile relazione col proprio referente, non è un caso che Vaccari lavori con i concetti di indizi, tracce e segni. Occorre qui aprire una parentesi semiotica cara a Pierce.

Come anche Marra ricorda nel testo sopra citato, Pierce stabilì che un indice è "un segno o una rappresentazione che rinvia al suo oggetto non tanto perché è associato con i caratteri generali che questo oggetto si trova a possedere, ma perché è in connessione dinamica (compresa quella spaziale) e con l'oggetto individuale da una parte e con i sensi o la memoria della persona per la quale serve da segno, dall'altra". Umberto Eco sintetizzò successivamente affermando: "Pierce chiama talora indici anche le fotografie (che parrebbero rientrare tra le icone): infatti una foto non solo rappresenta un oggetto, come può farlo un disegno, ma ne costituisce anche la traccia e funziona come il cerchio di vino rimasto sul tavolo che testimonia la presenza (passata) di un bicchiere".

In mostra, di Vaccari, sono esposte Esposizione in tempo reale num.1, Maschere (1969), Esposizione in tempo reale num.5, Spazio privato in spazio pubblico (1973), Esposizione in tempo reale num.6, Il cieco elettronico (1973) e Esposizione in tempo reale num.7, Mito Istantaneo (1974). In Maschere, presentata alla Galleria Civica di Modena, l'artista fece distribuire centinaia di maschere che recavano impressa la fotografia di un uomo qualunque. In seguito venne fatto buio in sala. Vaccari si mise a girare tra il pubblico con una pila e una macchina fotografica. Ogni tanto illuminava qualche persona e cercava di fotografarla, ma questa in quel preciso momento si nascondeva sorpresa o seccata dietro la maschera, usandola come scudo, come corazza, barriera, come mezzo per rientrare in una dimensione totalmente privata e anonima, come difesa e protezione dall'eccesso di individuazione che l'uso del mezzo fotografico può portare.

Riportata anche nel famigerato libro Body art e storie simili - il corpo come linguaggio di Lea Vergine, a proposito di "maschere" l'artista stesso affermava: "Io uso la fotografia come azione e non come contemplazione e questo comporta una negazione dello spazio ottico a favore dello spazio delle relazioni. Mi interessa sparire come autore per assumere il nuovo ruolo di innescato re e regista di processi. Gli ambienti dove opero devono essere luoghi dove le cose accadono realmente e il dopo è sempre diverso dal prima. In altre parole sono interessato alla riscoperta del rischio, inteso come rifiuto di ogni tipo di garanzia aprioristica; si può infatti affermare che le manifestazioni artistiche assolvono il compito di essere le nicchie della rassicurazione dove si ha la certezza che non succederà assolutamente niente".

In Il mendicante elettronico Vaccari registrò in una piazza vicino alla fermata dei tram un mendicante nell'atto di chiedere l'elemosina. Successivamente al posto di questo lasciò un televisore che trasmetteva la registrazione appena fatta: sullo schermo appariva la scritta "Il cieco torna subito". Parafrasando McLuhan, il medium diviene potere, l'uso di quel tipo di mezzo solitamente gestito da grossi gruppi di potere ha determinato un effetto di "mitizzazione istantanea" del mendicante.In Comunicazione Segreta, presentata alla Trigon 73 Neue Galerie a Graz, l'artista ricavò una nicchia privata all'interno dello spazio della mostra. Quella nicchia era composta da due ambienti in comunicazione audiovisiva fra loro. La comunicazione purché prendesse vita in pubblico era sottratta al controllo pubblico stesso. Il momento della documentazione si trovava così davanti a indizi, tracce e segni, limiti di fronte ai quali la curiosità doveva arrestarsi e interpretare. In Mito istantaneo, presentata alla Galleria 291 a Milano, l'artista aveva a disposizione due ambienti, in uno fotografava con la polaroid i visitatori, nell'altro faceva proiettare sulle pareti la foto appena scattata, che in questa maniera risultava ingigantita. Chi era stato fotografato, quando scopriva la propria immagine proiettata, veniva illuminato e rifotografato insieme a questa.

Sanja Iveković, classe 1949, si è formata presso l'Accademia di Belle Arti di Zagabria; sin dagli anni Settanta la sua produzione artistica ha abbracciato vari tipi di media, quali la fotografia, il video, l'installazione, la performance, l'azione in pubblico. Da sempre ha indagato criticamente l'uso delle immagini e dei corpi, ha analizzato la costruzione dell'identità nei media e nella politica, ed è stata protagonista di un attivismo soprattutto di origine femminista. Il coinvolgimento del pubblico è alla base della ricerca artistica della Iveković, determinando una relazione con i fruitori, stretta a un livello intimo ed emozionale.

La mostra si apre appunto con Inter Nos, quattro foto in bianco e nero, un disegno con testo e un video. L'installazione prevedeva un dialogo privato tra l'artista e il visitatore. E ciò avveniva tramite l'interazione della Iveković con l'immagine sul monitor del fruitore che suscitava ogni volta una reazione individuale e diversa. Le due stanze erano messe in collegamento tramite un circuito chiuso composto da due apparecchi video senza connessione audio, e un ambiente dove la performance veniva videotrasmessa al pubblico che poteva vedere la sola immagine del partecipante. Nella 1st Belgrade performance la performance iniziava nel momento in cui l'artista entrava in galleria insieme al curatore. Continuava a camminare formando cerchi a ritmo di musica affinché la distanza tra l'Iveković e il pubblico diminuiva riducendosi ogni volta di 1 metro; la velocità della camminata diminuiva fino a quando arrivava in una posizione in cui con l'aiuto del curatore si presentava e stringeva la mano a ogni persona, iniziando una conversazione con ogni visitatore della galleria. Gradualmente scompariva come performer, mentre l'azione performativa continuava come spontanea azione del pubblico.

Meeting-points era una performance composta in due parti. Il primo giorno l'artista eseguiva la performance all'interno della galleria vuota con solo una videocamera come testimone. L'azione nello spazio corrispondeva nell'anticipazione di dove il pubblico si sarebbe trovato e in come la comunicazione fra di loro si sarebbe sviluppata. Il giorno seguente un monitor venne posizionato in un angolo della galleria e il video trasmesso mentre l'azione vera iniziava. In quell'istante le anticipazioni dell'artista cercavano di trasformarsi in realtà, ad esempio ripetendo la performance alla presenza del pubblico.

Il lavoro che ho preferito insieme a Inter Nos è sicuramente Inaugurazione alla Tommaseo presentata a Trieste nel dicembre del '77. Durante l'inaugurazione della mostra, l'artista rimase chiusa nel piccolo spazio riservato all'ufficio, con la bocca sigillata da nastro adesivo. Un amplificatore trasmetteva il rumore del battito cardiaco in tutti gli ambienti della galleria, mentre l'artista incontrava singolarmente ogni visitatore. L'inizio di ogni incontro veniva scandito da un determinato suono e poi fotografato. Il giorno seguente, le immagini vennero appese in galleria insieme all'audio corrispondente. Lo spettatore aveva la possibilità di riascoltare il suono durante l'opening. Riascoltare il suono del battito dei cuori di quei visitatori in mostra ha annullato il senso del tempo e ha riattivato oggi come ieri quella volontà Inter Nos di partecipazione attiva nello spazio di relazione.


Una riflessione intima mi ha portato alla convinzione di quanto sia importante oggi riguardare con attenzione questa tipologia di interventi artistici mirati a renderci responsabili dell'essere presenti a noi stessi e all'altro, qui e ora. In una logica di abbandono del preconcetto. Quell'esserci così atrofizzato che nell'era della super comunicazione ritrova a spalleggiarsi tra individualismi atomizzati e non comunicanti. La molti-solitudine è divenuta un'attitudine contemporanea emblema della grande alienazione. Vige un'estraneità al contatto, un'impurità che fa dell'assenza non elemento attivo ma disertore. Per questo è necessario ripristinare uno spazio di relazione attivo nel quale corpi e pensieri siano legati in un coito, nel tempo di un Opening.


Federica Fiumelli








mercoledì 18 dicembre 2013

Willow. Bianco, Rosso, VERDI Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna


Last article on Wall Street International Magazine:


Enjoy!
:)

AGENDA - Italy, Arti

Willow. Bianco, Rosso, VERDI

Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna

Willow. Bianco, Rosso, VERDI

In occasione del bicentenario, l'artista neopop Willow dedica un omaggio al grande Maestro Giuseppe Verdi che ha saputo avvicinare la lirica e il teatro in un modo nuovo al grande pubblico.
Un poeta, un patriota del Risorgimento che ha veicolato un ideale, un pensiero attraverso la sua opera in un periodo in cui l'Italia era alla ricerca di una vera e propria identità di Paese. Un uomo semplice, un italiano conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo e di cui ognuno di noi dovrebbe essere fiero di esserne conterraneo.

La cifra stilistica che Willow propone nelle sue opere sa di ottimismo e colore. Di stile Neopop, le tele che ci regala sono virus di gioia e sorrisi, antibiotici contro la pioggia, il malumore e la tristezza, sono esplosioni alcoliche inebrianti, spumeggianti e frizzanti, un continuo cin-cin visivo, e i personaggi e le forme che popolano la superficie sembrano tante bollicine di spumante. It’s always a party, a pop party!

Lo stile di Willow mescola grafica, design e fumetto, i personaggini si elevano a icone pop, semplici, dirette, immediate. Cuoricini, lettere, smile super positivi invadono da veri combattenti il nostro sguardo, che ne rimane rallegrato e sorridente. Far sorridere lo sguardo, ecco una mission importante. Guardando le sue tele si ha l’impressione di trovarsi in una bolgia colorata di tanti piccoli esseri comunicativi, con cuori rampanti e vogliosi di amare. Willow ci regala un momento di relax e gioia. Il suo grafismo leggero ma conciso, anche nei bianchi e neri, ci trasporta in un’atmosfera di tutto pieno, di un caos fumoso, una metropoli di inchiostri, piccoli grumi espressivi.

Spicchi di gelatina colorata, i piccoli personaggi sono come una cascata di canditi dalle tonalità accese, hanno umori incandescenti. Gialli, rossi, arancioni, blu, azzurri, verdi e viola, una parata festosa e caramellata corredata da una forte impronta onomatopeica tipica del fumetto, “UOP”, “B”, “PA”, “PE”, “HI”, “EB”, “Z”, “:D”, “SBU”, “LA”... sembra quasi di sentirli goffamente. Le fantasie di Willow sono invasioni di positività, e non ci resta che cantare allegramente sotto una pioggia di colore.

Pubblicato: Giovedì, 12 Dicembre 2013

Articolo di:  Federica Fiumelli