Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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martedì 17 gennaio 2017

Sissi. Motivi Ossei

link: http://formeuniche.org/sissi-motivi-ossei/


 


Il mio corpo è anche il corpo di Violette. L’odore di Violette è come la mia seconda pelle. Il mio corpo è anche il corpo di papà, il corpo di Dodo, il corpo di Manès […] Il nostro corpo è anche il corpo degli altri.
Daniel Pennac, Storia di un corpo

Parlare del lavoro di Daniela Olivieri in arte Sissi, significa parlare del nostro corpo attraverso il corpo dell’artista. La ricerca di Sissi, così viscerale, volta da sempre a indagare gli aspetti emotivi e identitari, fanno dell’artista un’archeologa, un’anatomista ma prima di tutto una persona appassionata alla costituzione infinitesimale dell’essere umano e delle cose.
La creazione per Sissi è architettura, è necessario scovare una struttura, un sistema, che sia esso nervoso od osseo, che sia trama e ordito, occorre trovare e incontrare qualcosa che sostenga e dia forma a un divenire.
“Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole”. Questo scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. E il linguaggio artistico di Sissi, che comprende le più svariate tecniche, dal disegno, all’installazione, alla tessitura, al libro d’artista, alla performance, alla fotografia, alla scultura, è un linguaggio che diviene pelle, profondamente superficiale, dicotomico, in grado di rivelare e rilevare ogni vibrazione tellurica organica e psico-emotiva. Vibrazioni che in punta di dita si trasformano e si compiono nel gesto dell’artista, in questa mostra ad esempio, una grande installazione scultorea, tentacolare ci accoglie.

In Motivi Ossei, ospitata alla G.A.M. Galleria d’Arte Maggiore di Bologna a cura di Maura Pozzati, il paesaggio di germinazioni ossee è composto dal servizio di piatti (ossei) del banchetto dell’ultima performance L’imbandita tenutasi presso il suggestivo oratorio di San Filippo Neri e da opere appositamente realizzate presso la storica Bottega Gatti di Faenza. Ci troviamo dinanzi a ossa che divengono stucchi settecenteschi, dove il servizio di piatti in ceramica – come sottolinea bene Maura Pozzati nel delizioso catalogo –  smette di essere solo contenitore di cibo per assumere le sembianze di un paesaggio naturalistico tardo barocco. Il riferimento e l’ispirazione tratti dalla visione della Cripta dei Cappuccini di Roma, è forte ed evocativo. Le sculture in ceramica sono autentiche e originarie pulsazioni, la materia vibra sotto i nostri occhi, così candida e tormentata, nei tornanti della forma trasuda con quanto ardore e minuzia il corpo dell’artista abbia fecondato l’opera, l’abbia abbracciata, schiaffeggiata, palpeggiata, resa respiro e movimento. Come una sinfonia, una danza, una materia da masticare e inglobare. Sissi seduce attraverso la sua manualità e si distingue per sensibilità in un panorama contemporaneo spesso puntellato di anonimia e distacco. L’immaginario di Sissi è un meraviglioso ibrido tra rigore scientifico e un’immaginazione feconda quasi dannunziana, carroliana, barocca e fantastica, che trova attraverso il piacere, e i sensi, la più alta forma di espressione. Basta pensare ai primi lavori con gli abiti, alle lezioni nei teatri anatomici facenti parti di un progetto plurimo e ambizioso come quello di Anatomia Parallela per comprendere quanto il corpo sia luogo di scambio e di passaggio, un oggetto mitico e rituale attraverso il quale l’esterno e l’interno sono in continuo dialogo osmotico. Superficie e viscere in un solo tango.
La ricerca di Sissi, chiede tempo al tempo, lo sottrae e lo dilata. Le ore passare nei vari studi e atelier è quasi palpabile, tattile e lo si capisce e lo si comprende dalla cura che l’artista rivolge a ogni aspetto della creazione.
A sostegno del dinamismo espressivo dell’artista, in mostra si trovano anche i disegni dal virtuosismo pulsionale, Motivi ossei e Nodo Osseo, nei quali il segno diviene struttura portante di un’interazione sospesa tra lo scientifico e il fantastico, appunto. Nel menù dell’imbandita, la gastronomia barocca, decorativa e opulenta, proposta, si palesa negli eccessi e nella follia di confessioni trasparenti in gelatina.

Il cibo lussureggiante e beffardo, volto a deliziare e soddisfare, a divenire godimento estetico, sia visivo, olfattivo che gustativo, pronto a entrare in corpi sognanti e affamati fa dell’artista una regista famelica e bizzarra in grado di farci condividere sensazioni reali, di connetterci in un gesto antico, laddove oggi, in una realtà sempre più orientata a piaceri inconsistenti, virtuali ed effimeri tutto ciò sembra distante.
Delle performance gastronomiche rimangono anche scatti notevoli (Cene, Aiuola delle delizie), nature morte iperrealiste nelle quali forme, colori, odori e sapori si sovrappongono orgiasticamente e dionisicamente, i quali vengono resi eterni e attraenti, le tavole imbandite distillate in due dimensioni, quelle della superficie fotografica ci proiettano in una fantasia dilatata, eccentrica, fascinosa, malinconicamente decadente, provocante, trasbordante, assordante, ridondante, appartenente a un qui, lontano, a un accadimento consumato in punta di dita.
Così riesco a vedere, e a percepire, l’arte di Sissi, della quale ho potuto apprendere durante i miei anni di studio in Accademia avendola avuta come insegnante, come un’arte in punta di dita, che vibra, che pulsa tra interno ed esterno attraverso un corpo immerso nel più microscopico e incandescente granello di vita.

Federica Fiumelli






martedì 3 febbraio 2015

Oggetti su piano @ Fondazione del Monte, Bologna


link wsi mag: http://wsimag.com/it/arte/13105-oggetti-su-piano


Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
(Ungaretti)

Dal principio la mia personale definizione di piano sarebbe quella di un confine tra la profondità e la superficie, lì tra l'abisso e la pelle. Ho un'immagine instabile e sismica del piano. Un piano in perenne oscillazione come nella scena del film Il pianista sull'oceano, nel bel mezzo di una tempesta in pieno oceano, Novecento continuava a suonare il suo pianoforte su un pavimento danzante, e si spostava seguendo il movimento dell'acqua e della musica, lì sul quel piano mobile. A dispetto della fissità che paiono assumere gli oggetti sulla tela, questi provocano in noi un antico tremore. Anche Glissant nel "pensée du tremblement" ovvero il "pensiero sismico del mondo che trema in noi e attorno a noi" suggeriva il tremore non come paura o debolezza, ma come la speranza di avvicinarsi al caos. Il caos della bios.

La pittura non è morta, la natura morta non è morta. Solo dio lo è. Forse. Speculazioni religiose a parte, Oggetti su pianoè laicamente intima. Antonio Grulli, curatore di questa mostra accolta negli spazi della Fondazione del Monte, come un abile couturier ha saputo tessere una trama visiva mobile pittorica vivida e maieutica. E lo fa con quattordici opere di haute-couture firmate e partorite da Riccardo Baruzzi, Pierpaolo Campanini, Paolo Chiasera, Leonardo Cremonini, Pirro Cuniberti, Cuoghi Corsello, Flavio Favelli, Piero Manai, Giorgio Morandi, Alessandro Pessoli, Comcetto Pozzati, Sergio Romiti, Vincenzo Simone, Sissi.

Il metodo praticato dal saggio e quantomai vicino Socrate prevedeva appunto una natura dialettica, in un'indagine filosofica basata sul dialogo e quindi intriso fino al midollo di spirito critico. La pittura come critica, ed eterna portatrice dell'inesprimibile, Grulli, coraggioso quanto studioso, controvento ha saputo scegliere, quasi eleggere, in via del tutto meritocratica, una rosa purpurea di artisti, facendoli sfilare in uno spazio atemporale, in un silenzioso dibattito fra generazioni. Una scuola di pittura bolognese. Una Pittura di oggetti. Quegli stessi oggetti con i quali Duchamp fece sterzare per sempre la direzione dell'arte a venire. L'uomo si è sempre confrontato dapprima con la rappresentazione e poi con la presentazione degli oggetti della vita quotidiana.

In un saggio contenuto in Semiotiche della pittura Lucia Corrain e Paolo Fabbri riprendono un passo da All'ombra delle fanciulle in fiore di Proust, a proposito del genere still-leven, cito come segue: "Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle "nature morte". E ancora prendo in prestito un altro pensiero da Pascal che affermava: "Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali". Straordinaria pure la definizione di De Chirico con la quale definiva questo linguaggio delle cose come "segni passionali di un alfabeto metafisico".

In questa mostra differenti generazioni vengono poste sullo stesso piano, come se stessero dipingendo tutti quanti insieme nello stesso atelier, in una totale mobilità oscillatoria, in dialogo, in un tempo ucronico e circolare dalla durata bergsoniana. Concetto Pozzati ad esempio fu maestro e incontro fondamentale di numerosi artisti presenti in mostra tra cui Campanini, Monica Cuoghi, Claudio Corsello, Alessandro Pessoli, Paolo Chiasera, Sissi e Vincenzo Simone.

Figli e padri si confrontano quindi, qui, a radici di colore e pennelli. Perché di una riflessione geopolitica si tratta. Oggi dove è così difficile trovare una mostra integrale di pura pittura, oggi dove è così complicato curare e dare attenzione alla realtà locale nella quale viviamo. E' più facile pensare alla pittura come una signorona datata senza alcun sex appeal o ricercare l'artista più impronunciabile oltreoceano. Al contrario è estremamente interessante, risalire il torrente degli eventi, guardare appena oltre, proprio sotto la punta del proprio naso e respirare a pieni polmoni l'aria che tira intorno e tra di noi. Un Grulli esploratore che utilizza le opere pittoriche alla stregua di una lente di ingrandimento per setacciare le sfumature autoctone. Una collezione di pittura così lontana, così vicina, perché l'eco non è che un ritorno che differisce dall'origine, nello spazio del tempo. E lo spazio di questa esposizione sono i piani. Molteplici. La mostra è una continua schiusa dentro una chiusa, alla stregua di una scatola cinese, si trova una cura dentro una cura. La mostra si prende cura della pittura, la pittura si prende cura del mondo. Una cura attenta, una cura critica.

Il piano pittorico altro non è che un non-confine, labile, concettuale, violabile, ambiguo, prezioso e intenso, drammatico, gli oggetti attori senza fissa dimora nel tempo del colore. Il piano curatoriale, altro non è che un limite fisico dato dallo spazio del luogo, su cui poggiano come orizzonti indomabili, le opere degli artisti. Quindi similitudini e rimandi. Siamo risospinti in una meta riflessione continua. Notevole il display curato dall'artista Flavio Favelli, uno splendido fil rouge, sul quale le opere si dipanano senza orpelli cronologici. E' così che in una fioritura corporale, rosso sangue, si ritrova a dialogare face to face Morandi con Flavelli. Gli oggetti morandiani, avvolti nel loro manto polveroso di vita si riflettono nelle due bottiglie bolognesi, in una speculazione temporale, la vecchia Romagna si è riversata in un sguardo alcolico, accolto dal fluire rosso á plat dello stesso artista. La pittura si appoggia, si aggrappa, si affida alla pittura stessa, il sapore, liquore e languore bolognese si lascia andare a vaghezze orientali. Un rapporto sismico tra zolle di pittura.

E' così che all'angolo della sala uno straordinario scorcio italiano anni '90, una fotografia dipinta ad olio su cartoncino di Cuoghi e Corsello affianca e chiacchiera con due straordinari compagni, tra la scomposizione scogliosa di Romiti e la metafisica liquida di Campanini. Nell'ultima sala, il Sergente che non può calpestare le margherite di Cuniberti scivola straordinario tra i piani sensuali e organici, linguali, capillari, dell'Indice Madre di Sissi e la shakespeariana buia pittura di Cremonini, con Un cranio di montone. Tra dettagli anatomici e vanitas sintetiche e solitarie.

Lo slittamento dell'essere pittura si fa sempre più danzante tra l'esistenziale Testa di Manai, dalla quale emergono come naufraghe impastate di bianco parole di giornali, e la sinestetica stop motion di Pessoli, dove un energico e solitamente irriverente Petrolini ci accompagna tra i pastelli, l'acrilico e il suono. La nota solitaria e stridente per la sopraffine fitta eleganza desertica è l'altra opera di Cuoghi e Corsello, Bambini morti nel giardino dei bucintori. Pitture polifoniche si adagiano sullo stesso piano, quello che ne fuoriesce non è un baccano ma un rispettoso soppesarsi di sguardi che si sono depositati in eterni gesti trattenuti dalla tela.

Da questa fragile malinconia fotografica ad olio riporto l'attenzione a ritroso nella sala precedente per cogliere i piani dall'equilibrio sintetico, e senza peso di Baruzzi, Sinistra Destra verso l'alto che ben dialogano a bassa voce con le Choreography of Species: Rosa Tannenzapfen di Paolo Chiasera, che pone sui propri piani atmosferici e oltrefisici, nature opulescenti come muliebri fantasmagorici perni. Statuette della fertilità arcaiche che riflettono con ombre scure il loro incidere sullo spazio tempo che altro non è che un cielo capovolto. La coreografia contenuta nel titolo fa pensare alla mostra stessa come una danza su piano. Oggetti su piano è un movimento che scivola piano.

Ma esplode pastosa e corporea questa pittura nelle Collezioni di fiori di Vincenzo Simone, una turbolenta espressiva gettata di colore in tempesta, dove la natura non lascia alla cultura che un fiorente sanguinoso distacco. Atemporale mi muovo al principio della prima sala. Il corpo della mostra può essere percorso facendo avanti e indietro tra le stanze, balzando da parete a parete proprio per la flessibilità di confronto che la metodologia espositiva offre, il corpo dell'esposizione come quello di un amante da esplorare da cima a fondo con estrema pazienza, curiosità e sensibilità sismografica. Rileviamo tutte le oscillazioni di colore.

Cinque le opere di Chiasera che per questa volta indaga interni di ambienti da diversi punti di vista o svista, qualdirsivoglia, libri, una scultura del grande cardinale di Manzú, altre opere d'arte, i piani si succedono a diversi tempi, negli stessi luoghi, che divengono altri. Chiasera dipinge mostre che accadranno, potrebbero accadere al di là della tela e del colore. Al di là della superficie. La curatela come pittura al di là del piano. E poi chiude a ritroso e accoglie all'arrivo, Sottochiave di Pozzati, su piccolo formato, si mescolano pirografia, acrilico e smalto, ecco che abbiamo trovato, forse, la chiave di volta di tutto, di questa scatola orientale, amante di una pittura tra padri e figli, che si fa scambio e critica delle proprie radici.

Sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po' folle, un po' saggio
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio,
la paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: " io ho sempre tentato."
(Guccini)

Federica Fiumelli