Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
Visualizzazione post con etichetta Illustrazione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Illustrazione. Mostra tutti i post

martedì 8 agosto 2017

Debora Guidi - Attimi @ Officina15







“Solo una cosa non è vana: la perfezione sensuale dell’istante.”
(Nicolás Gómez Dávila, “In margine a un testo implicito”, 1977/92)

Le illustrazioni di Debora Guidi, che questa volta gli spazi di Officina 15 accolgono, sono tratte dalla serie “Attimi”. La Guidi comincia la propria ricerca con supporti e mezzi semplici, da matita su carta, per scansionare poi digitalmente carte trovate in rete o antiche.
In “Attimi” un’atmosfera evanescente, tenue dai toni pastello, per lo più carne, rosati ci attende in un susseguirsi di azioni sognanti, dove personaggi femminili a matita, privi di colore, audaci, si susseguono in rocambolesche pose.
La stessa Guidi definisce con queste parole la serie di lavori, con un’intuizione, una brevità semantica concisa e malinconica:
“Alcune sensazioni passano in un attimo,
quasi fatichi a riconoscerle.
Altre mettono radici
e ti parlano,
per giorni,
sottovoce.”

“Attimi” è proprio costellato da un tratto leggero, sottile, elegante, esile che sottovoce si muove nella profondità di un racconto che oscilla tra un’interiorità soffice e un’alterità talvolta ostica.
Con una precisione quasi zen, le illustrazioni della Guidi traggono spunto da un’armonia e una leggerezza di matrice orientale, senza troppi dettagli o disturbi visivi, senza prospettive complesse, i protagonisti si ritrovano letteralmente a fluttuare in un ambiente che è puro colore, puro essere, pura cosmogonia ineffabile.
“Attimi” promette di raccontarci qualcosa non svelandocene la fine, sono impressioni, coincidenze dello sguardo, istanti, appunti e appuntamenti con il proprio sé e il mondo, sono dichiarazioni in un taccuino ricamato tra gli interstizi di un’attesa, che essa sia una crescita personale, un incontro, un amore disilluso.
Bolle di sapone, piante, abbracci, farfalle, luna, lampade, meduse, struzzi, panni appesi, pietre, rubinetti, foglie, finestre, barchette, clessidre. L’enumerazione di oggetti irrisolti si fondono ad altrettanti corpi giovani, adolescenziali, femminili pronti ad una continua ed infinita mutazione del sé in relazioni agli altri.
Tutti i (s) – oggetti coinvolti però hanno una comune origine nel rapporto con il tempo, con il cambiamento, con lo scorrere infinito dell’esistenza. Un rapporto con la natura e conseguentemente con la proporzione delle cose e dei sentimenti.  I personaggi muliebri di “Attimi” si misurano letteralmente ibridandosi confondendosi con entità quotidiane. “Attimi” incontra dapprima il tempo che se ne va, e poi l’impercettibile ostinazione con la quale cerchiamo di comprendere questa eterna mancanza.
Fitte trame trasparenti si alternano in piccoli segni a matita che diventano corpo nebuloso, cosmico, alla Guidi affascina un ricamo esistenziale fluttuante, sospeso, che esso sia il pattern di una abat-jour, di un indumento, di ali di farfalle, piume o membrane di meduse, non ha importanza, tutto fa parte di un decoro invisibile, intimo e delicato, come una carezza su una pagina di carta pregiata.
La Guidi con il suo tratto sfiora le intense brevità di un’ esistenza sospesa tra un surrealismo di matrice ‘magrittiana’ divertente e trasognante e un surrealismo più intenso, più reale, più acuto, crudo e femminile, tagliente alla Frida Kahlo.
La peculiarità risiede nell’osservare e osservarsi riuscendo a fondere educatamente realtà e finzione, concretezza e astrazione, realtà ed illusione.
“Attimi” diviene un diario femminile irrisolto, complesso, prismatico, con la volontà e la promessa di abbandonarsi a questo alone di mistero e fascino proprio dell’incerto che nell’illustrazione diviene il colore di una carta antica, incontrata quasi per caso.
L’erotismo e la sensualità accennata in questi attimi illustrati, mettono appunto in luce, l’importanza di un corpo vivo, di una vibrante bios in perenne mutazione, di una fragilità umana che da urgenza intima diviene un manifesto decantato a filo di voce, sussurrato per non disturbare questi micro-macro sogni ad occhi aperti.
“Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, - pensa Palomar, - e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine.” (Italo Calvino, “Palomar”, 1983)

Federica Fiumelli


#ArtOFF è un progetto di promozione artistica nato all’interno dell’ Ass.ne culturale Officina15 che ha l’intento di avvicinare e sensibilizzare la comunità nei confronti dell’arte e della fruizione delle opere. Attraverso una programmazione di dieci mesi che vedrà susseguirsi una serie di mostre su artisti differenti. Vogliamo innescare la curiosità di osservare, di scoprire, di interagire con l’arte attraverso laboratori, discussioni con gli artisti, visite guidate, video ed eventi.


ass.ne culturale Officina15
Via Aldo Moro, 31
40035 Castiglione dei Pepoli (BO)
info@ofcn15.com - officina15@pec.ofcn15.com








lunedì 13 aprile 2015

Loris Dogana. Fantasia a ore.

link: http://wsimag.com/it/arte/14364-loris-dogana






Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro.
(Lewis Carroll)

Illustratore, attore, tatuatore. Fantasia a ore. Un cappello senza testa, perché di teste nei suoi disegni non ce ne sono mai. Sono perse chissà dove senza fissa dimora. I grandi maestri sono stati Magritte, Klimt e Gong Xian. 
Non è difficile immaginare la pioggia di uomini che cadono dal cielo. E come René affermava "La realtà non è mai come la si vede: la verità è soprattutto immaginazione". Una linea sottile, decisa ed elegante, la sua fedeltà. Senza troppe profondità, ereditata da uno sguardo verso l'Oriente. Un mondo surreale e capovolto, dove "Tutti chiedono a Cappellosenzatesta perché disegna degli uomini con la testa sostituita da oggetti, ma nessuno gli chiede perché disegna degli oggetti con degli uomini attaccati sopra".

Le nostre abitudini e costrizioni sociali si sostituiscono alla nostra testa per mostrare le cose che siamo. E cosa siamo? Elucubrazioni da Brucaliffo a parte, Dogana elegge i suoi personaggi protagonisti assoluti in uno spazio completamente bianco, vuoto, pulito, terso, sono pochi gli oggetti tra gli oggetti. Oggetti pesanti e pensanti, corpi manichini svuotati e ripetitivi come prodotti di consumo su larga scala. Torna alla mente il famigerato video The Wall dei Pink Floyd dove umani in serie marciavano sincronizzati verso la fine. Gli eroi di Dogana non sono che sconfitti del sistema inglobante, tra malinconia e rassegnazione, ritrovano riscatto nell'assurdità dell'esistenza bidimensionale della fantasia su carta, che scricchiola come assi di legno di un palco teatrale.

I drammi ironici inscenati dal nero grafite non sono in realtà (sempre che si possa usare questo termine) che acute critiche sociali, dalla speculazione del tempo, del denaro, delle abitudini tecnologiche, dal capitalismo, alla religione. Dal potere e del controllo al quale veniamo sottoposti come dentro un frullatore sadico e spietato. Come in Loop, corriamo nel riflesso ripetuto di un giro autoreferenziale. Tutto torna incessante senza il tempo del pensiero. Come automi senza critica. E se la differenza può innescare più esplosioni, ben venga, come in Be different #2 tra un esercito ben allineato di teste di bombe spunta accesa la testa di un cerino incravattato e pronto a distinguersi o estinguersi, solo ai posteri coraggiosi l'arduo finale.

E Alice oggi, riesce ancora a oltrepassare lo specchio? Vede aldilà di ciò che trova? L'infanzia crede ancora a sei cose impossibili a colazione? E' così che in La Gabbia una bambina in punta di piedi sul bianco di un'idea libera i volatili dalla testa-gabbia. Quanto costa un sogno? O meglio il risveglio da esso? Quanto è dura vivere una vita non propria? Quanto è difficile assomigliare a ciò che si vorrebbe essere? Alzandosi sul precipizio di una tazza di tè, ( il tè dei matti?) l'uomo dalla testa di zolletta zuccherata è sul Patibolo pronto a lanciarsi dalla punta di un cucchiaino ancorato a una bustina. Una triste, folle storia di milioni di momenti quotidiani, che almeno ognuno di noi ha passato, tra la stretta di una tazza, l'attesa e un soffio per sbollire la bevanda.

Dogana sa anche intingere la propria ironia noir in un angolare, se non singolare romanticismo, come in Fatta l'una per l'altra. Una panchina è il non luogo per questa volta, agli estremi due timidi personaggi, la donna testa di sigaretta e l'uomo testa di accendino. E' giusto bruciarsi per i propri vizi, e cosa di più vizioso, dell'amore? Cosa di più soddisfacente, di fumo d'amore che consuma e nuoce? In Per Rick l'uomo dalla testa annaffiatoio è impiccato al ramo di un albero che lui stesso sta innaffiando, che il progresso sia il regresso? Che la continua crescita sia sinonimo a un certo punto dello sviluppo umano della decrescita?

Tante domande. E vedo in chi sta leggendo queste righe non più teste ma punti interrogativi. Da qualche parte chissà dove, insieme alla testa ho perso le risposte. L'effetto Dogana contagia a macchia d'inchiostro, sempre chiaro in bianco e nero. Mescolando in uno sciroppo surreale due poesie, concludo con una parte di Montale e una di De Gregori, per una conclusione-ritratto dell'artista.

Spesso il male di vivere ho incontrato e me ne sono andato con la mia valigia d'attore...

Federica Fiumelli








martedì 21 ottobre 2014

The Monsters Mash @ Spazio San Giorgio, Bologna








Art of Sool
Opening Saturday 27th September 2014 - 7pm
27th September - 1st November 2014

La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.
Chuck Palahniuk, Cavie, 2005

Un mash up mostruoso, ecco che cos’è “Monster Mash”.
Sia mash che mostro sono parole che vogliono porre l’accento sulla mescolanza, sull’ibridazione, sul melting pot, sul mescolone, sul cocktail, sull’infuso, sulla contaminazione di mostruosità mostruose.
Forse si tratta di un’ apologia del mostro?
Ma prima di farne una celebrazione è giusto porsi: che cos’è un mostro?
È per il senso comune definito come un personaggio reale o immaginario cui vengono attribuite caratteristiche straordinarie per i quali ci si discosta dalla norma, si trascende quindi il normale e l’ordinario. (Ma cos’è poi definito normale?)
Spesso usato con accezione negativa, mostro viene definito anche chi deforme o chi presenta anomalie estetiche.
Ma è venuto prima il mostro o l’uomo?
Antico come questa domanda probabilmente retorica, di mostri se ne parla fin dalle origini, allora scappa un’enumerazione che farà sicuramente eco nella memoria di tutti: dal mondo egizio a quello greco basta pensare a Cerbero, alle gorgoni, al minotauro, a polifemo, al ciclope, e ancora in altre civiltà e culture, ai troll agli orchi, alle loscuste, alle bestie del mare, a Satana stesso, al floklore e alle fiabe, dai golem, alla mandragola, la bestia della Bella e la Bestia, a Quasimodo nel gobbo di Notre Dame, ai folletti agli gnomi, ai lupi mannari, ai vampiri, alle streghe che hanno popolato libri o film, a Dracula, a Frankestein, Freddy Krueger, a King Kong, a Mr. Hide, all’uomo che ride di Victor Hugo, alle mummie, alle fantasmagorie allucinate del cinema espressionista tedesco dei primi decenni del Novecento (da Nosferatu al Dott. Caligari), al più recente immaginario che va dagli alieni ai cyborg, ai post-human, agli esseri biomorfi e neo tecnologici che hanno popolato l’immaginario di Floria Sigismondi con i celebri videoclip per Marilyn Manson o David Bowie.
Sembra proprio che l’essere umano li generi e li crei per confrontarsi e interrogarsi in qualche modo su se stesso.
L’essere mostruoso ha da sempre infatti ispirato tutte le arti visive, dalla pittura alla scultura, al cinema, alla musica, come non ricordare uno su tutti, il padre dei moderni visionari, Goya, il quale affermava proprio che:
“Il sonno della ragione genera mostri.”
E allora ecco che irrazionalmente e ironicamente, in taglio super neo-pop, il collettivo degli “Art of Sool” ci sforna una generazione di mostri ad hoc.
Confezionati in vero stile sool, dal grafismo famelico e preciso, leggero e vivace, la banda di mostri che ci sguinzagliano è tutto sommato confortante e per niente spaventosa.
Si perché se la società vigente ci vuole tutti bell’impacchettati con lo stesso fiocco, in questa età della super iper comunicazione, in piena globalizzazione, dove la standardizzazione sembra la nostra vera ombra, quest’ombra tanto vale perderla come faceva Peter Pan.
E i Sool lo sanno bene, tant’è che i loro mostri sono realmente diversi, sono dei freak, outsiders, dei mash-up visivi altisonanti, sono differenti perché probabilmente riconoscono le loro paure e cacciano via la maschera dell’omologazione e delle finte e buoniste velleità “umane”.
I cliché se li mangiano a colazione.
I mostri del giovane collettivo bergamasco attingono dal più vasto e folle immaginario, si cibano di ogni cosa o idea facendo sbarcare l’estro collettivo della gang dalla strada, al fumetto, dal wall painting, all’illustrazione, questi ragazzi si nutrono di pane e fantasia, lavorano a più mani, e la loro polifonica bravura e passione rischiara chiassosamente su qualsiasi supporto prendano in considerazione: dal muro alla tela, non c’è pietà per questa invasione salvifica mostruosa. Le immagini di fatto sono caotiche e rumorose, un vero rave visivo.
Un baccano pazzesco, accentuato dalle scritte a fumetto, dalle onomatopee e dalla scelta di composizione a patchwork.
Plastici e volumetrici e i personaggi riempiono tutto lo spazio, ove ce ne sia, la mostruosità è virale, dai colori caramellosi, e rotondi, sembrano intonsi a qualsiasi pioggia acida. Anche nei bianchi e neri tutto è gommoso.
Sono già di per sé corrosivi al punto giusto. Geneticamente modificati sono troppo indie per far veramente paura, sono underground, o al massimo vivono di notte, alla deriva, dei clown situazionisti acronici. Sono maschere di loro stessi e hanno superato Pirandello, non hanno bisogno di nascondersene dietro una vera di maschera, perché loro sono così, tutti diversi divisi dall’uguale.
Originari più che originali, un po’ come ferite aperte, uniche e irripetibili, pullulano e schizzano di vita, pian piano cicatrizzano il dolore e ne fanno un’identità. DNA ad alto tasso di sballatura.
Una parata di flâneur grotteschi, dall’umorismo smaltato che scivola tra le rotondità abbondantemente presenti.
Sembrano urlarci: mostrate i vostri mostri.
L’etimologia di mostrare non a caso, significa: far vedere, presentare ad altri perché veda, esamini, osservi. Rivelare, lasciare vedere. Offrirsi alla vista.
Quindi vuol dire anche un po’ donarsi, e questo soprattutto oggi fa paura.
Fa paura vedere, e allora ci si accontenta di guardare.
Abbiate perciò coraggio di scendere dalla giostrina felice della perfezione apparente.
Mica facile però quando ti s’incolla l’etichetta sul volto.
Un elogio al disagio e alla bruttezza, qualcuno se ne frega della grande bellezza. Decadenti da ridere, un brutto rock, perfino Ensor si farebbe un selfie tra la monster walking targata Sool.
Comicità a parte, i Sool con questa new generation, ci fanno riflettere sulla paura dell’essere diverso, perché è più facile omologarsi che mostrarsi veramente. Ed oggi il mondo è pieno zeppo di paura e l’uomo preferisce giudicare ed escludere piuttosto che capire e integrare.
Chi sono allora i veri mostri?
Prendendo a prestito una cara frase dal film “Forrest Gump” viene quasi da dire:
“Mostro è chi mostro fa.” O forse ancora più opportuno apportando una lieve modifica: “Mostro è chi mostra di sé non fa.”

Federica Fiumelli - Spazio San Giorgio