Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

giovedì 16 gennaio 2014

Thierry De Cordier

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Enjoy!
:)



Thierry De Cordier

“La poesia, che non è un’arte di arrangiare i fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.”
Erri De Luca, Sulla traccia di Nives, 2005

Stavo passeggiando per la Biennale quando ritrovatami in una sala, all’improvviso il mio sguardo è stato letteralmente attratto, prosciugato vorticosamente dalla pittura oscura, funerea, glaciale di Thierry De Cordier.
Filosofo, performer, scultore, scrittore e poeta, con un vita nomade alla spalle, l’artista è nato e lavora tutt’ora in Belgio.

Tele maestose, oli e pastelli o su tela o su tavola.
La pittura di De Cordier è una pittura tormentata, dominata da una furia iconoclasta, sembra voler spazzar via lo stesso sguardo che attira su di sé.
È prepotente, troppo forte, ribelle, il mare in tempesta sfugge anche alla pennellata.

E’ anche una pittura analitica, attenta al dettaglio dell’informità marina, talmente reale da sembrare più vera del vero, ma perturbante, sul filo di un certo iperrealismo magico.

I freddi mari nordici sembrano sfondare la tela, non si contengono, sono gelidi a tal punto che feriscono, strozzano la visione, bloccano il fiato proprio lì come prima di buttarsi da un’altissima scogliera.
Ricordano i naufragi Shakespeariani, perdite di identità per un risorgimento successivo; e poi spifferi, fantasmi, ricordi perduti, spazzati via da una furia corrosiva e demolitrice.

Atmosfere sfumate e leggere invadono lo spazio della tela, aprendosi come finestre in microcosmi perduti e dimenticati da chissà quale Dio.
Le creste spumose delle onde pallide e diafane sono ritratti di anime sperdute e angosciose, sembrano quasi ricordare “La donna del Mare” di Ibsen dal sapore dei fiordi Norvegesi, una storia di attrazione mistica verso l’origine delle acque gelide e tormentate.

I moti marini, i movimenti ondosi rappresentati da De Cordier hanno una potenza pervasiva, esplosiva, invasiva e indomabile, hanno una carica espressiva si gelida ma allo stesso tempo ricordano la forza demoniaca legata al caso nel dripping alla Pollock.

Una potenza espressiva coinvolgente e liberatoria.
Quelle acque chissà quali coste hanno bagnato con le loro lacrime di dolore?
E chissà quali scenari e orizzonti hanno guardato? Chissà da quanti velieri carichi di speranze sono state cavalcate e chissà quali volti, di amanti e non, hanno riflesso nelle loro trasparenze marine.

Le onde bianche sono gli echi lontani di amori tragici e maledetti come in “Cime Tempestose”, sono apici drammatici, lembi di lenzuola in cui qualcuno si è promesso d’amare per sempre, anche oltre la tempesta della morte, come nelle tormente di neve che accompagnavano gli spiriti di Heathcliff e Catherine.
“Io amo Heathcliff, Io odio Heathcliff, Io sono Heathcliff.”
Una maledizione d’amore che annega nella perdita del sé.
La pittura di De Cordier, ha il retrogusto di favole antiche, di memorie sbavate di trucco, di fredde e tormentose storie che hanno segreti ancorati nel’oscurità.

I mari del nord che l’artista elegge come muse inarrivabili sono l’altra faccia della luna e irrompono nel nostro immaginario come le sinfonie di Mendelssohn. L’onda come la sinfonia butta giù con un fragoroso calcio la porta anestetizzata della nostra percezione.

Non si può porre resistenza, si viene travolti e basta, come i velieri che hanno tentato inconsciamente di vagare nella tempesta.
Tempeste che sono battaglie di demoni e tristezze interiori, mai uguali a sé stesse ci cacciano alla deriva, su spiagge ipotetiche, rocciose come nel “Naufragio vicino alle rocce” del 1870 di Ajvazovskij.

E ai bordi, ai margini di quelle stesse tempeste, scopriamo che ci si aggrappa anche la poesia, che si era persa leggera tra i venti taglienti e taciturni.
Le ostilità smaltate delle correnti del nord sono ritratte nelle grandi tele che diventano così oblò, rendendo lo spazio espositivo il sotto ventre di una nave e noi i viaggiatori di mari che sono cupe fantasie squarcianti.

Federica Fiumelli












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