Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

sabato 14 marzo 2015

Altrimenti che essere

Link:http://wsimag.com/it/arte/13535-altrimenti-che-essere





Altrimenti che essere
Dal 22.01.2015 al 04.04.2015 alla GalleriaPiú - also known as Oltredimore - 
A cura di Andrea Bruciati

"Raccontami le storie che ami inventare spaventami 
raccontami le nuove esaltanti vittorie 
Conquistami inventami 
dammi un'altra identità 
stordiscimi disarmami e infine colpisci 
abbracciami ed ubriacami 
di ironia e sensualità."
Carmen Consoli - Parole di Burro - 

Spesso quando mi sono trovata a scrivere su opere o artisti che hanno avuto a che fare con il tema dell'identità, mi sono servita, o meglio ancorata, come tasche piene di sassi, alle parole di burro di Carmen Consoli. 
Il suo esorto all'invenzione, alla creazione, al racconto, allo stordimento e disarmo si allineano bene a mio parere alla volontà dell'arte di essere critica e disturbante. Mai uguale a se stessa e perennemente mutevole. 
La mostra curata da Andrea Bruciati alla GalleriaPiú - also known as Oltredimore -  riflette sul tema dell'alteritá partendo da un saggio del filosofo lituano Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere.
Allievo di Husserl, incontró Derrida e lesse Heidegger.
Imprenscindibile infatti il seme filosofico di natura fenomenologica, la proiezione dell'essere appunto Da-sein, Esser-ci Heideggeriano, l'uomo é sempre in relazione alla situazione nella quale si trova. L'essenza dell'esserci secondo Lévinas consiste nella sua esistenza, l'uomo é dinamico e può scegliere, perdendosi o conquistandosi.
L'essere é la condizione più privata che ci possa essere, per cui diventa inscindibile la solitudine che ne deriva. Lo stesso filosofo afferma: 
" siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con il lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l'altro, ma non sono l'altro. Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l'esistere ".
La mostra infatti confuta la tesi di Freud secondo la quale l'Alteritá non é che una proiezione dell'io, essa invece diventa totalmente estranea all'Ego, perché ogni esperienza é unica e irripetibile.
Lo specchio di Narciso si é spezzato e l'immagine riflessa non può che essere l'eco di tanti frammenti tutti diversi.
Gli artisti in mostra interpretano il sentimento e l'emotività in chiave antiromantica, non c'è fusione, identità totale o possesso, ma mistero vero l'altro. 
Non vi é inglobo e sopraffazione ma una comprensione paritaria.
Una mostra estremamente internazionale che vede coinvolte numerose collaborazioni con gallerie straniere. Si ringraziano infatti Fabio Cherstich; Freymond-Guth Fine Arts, Zurigo; Monitor, Roma/New York; MICHEL REIN, Parigi/Brussels; Anna Siccardi; WHATIFTHEWORLD Gallery, Cape Town; Galerie Jocelyn Wolff, Parigi.
Patrick Angus, Tomaso De Luca, Didier Faustino, Joanna Piotrowska / Nefeli Skarmea, Elodie Pong, Prinz Gholam, Athi-Patra Ruga, Davide Savorani, Paul Mpagi Sepuya, Namsal Siedlecki, questi gli artisti scelti.

Come una fetta d'arancia immersa nel latte, l'esposizione si bagna di sapori che pur convivendo tra loro mantengono una loro personale forza.
Un respiro corale come nell'opera video Breathing, Vunlerability di Piotrowska e Skarmea. 
Il bianco labile del burro, sul quale fare scivolare le convinzioni diventa il fil rouge della mostra, e lo si ritrova nella grafite su carta e fotografia in bianco e nero della coppia di artisti Prinz Gholam. 
Si é sempre in bilico tra presenza e essenza dell'assenza. Questo vuoto pieno che convive e non si prevalica l'un con l'altro. Bianca anche la scultura da stampa 3D con struttura in acciaio di Didier Faustino, Doppelgänger, letteralmente '"un doppio che va", un'interfaccia che mostra l'impossibilità di fusione nell'altro, come una protesi di unione, l'oggetto, come viene mostrato nelle foto esposte, convoglia come un imbuto il bacio - respiro verso l'altro, é punto di raccordo ma nello stesso momento di impedimento e divisione. Risucchio e rilascio. 
Bianco é lo sfondo-ambiente scelto per i lavori video Smoke di Elodie Pong che The body is the question IV...La mamma morta di Athi-Patra Ruga. Nel primo una coppia immersa in un'atmosfera apatica ed evanescente riscatta soltanto verso il finale l'uscita da uno speen esistenziale, un cerchio di fumo creato dal protagonista uomo fa scattare nella donna un impulso sensuale, facendole venir voglia di infilare la lingua nell'anello grigiastro. Metafore viziose di rapporti naufraganti nel nulla del tempo.
Athi-Patra Ruga invece inscena la famosa aria La mamma morta, per un memento mori interpretato dal baritono e film maker greco Telemachos Alexiou, modellato su ritratto della struggente Callas. L'ambiguità trapelante mi ha ricordato gli autoritratti fotografici di Urs Lüthi che proprio nel magistrale "Body art e altre storie simili. Il corpo come linguaggio" curato da Lea Vergine, affermava l'importanza dell'ambivalenza nel suo lavoro: "Il risultato di questa mi indagine é il ritratto. Un ritratto che ha una sua propria esistenza e che vive al di fuori di me, appena si spengono i riflettori. Chiunque lo osservi lo paragona alla sua propria esistenza, fino a modificarsi, e sdoppiarsi.. Questo é il mio contributo alla coscienza del sé, dei propri limiti, dei propri eccessi, delle proprie possibilità...e anche delle diverse realtà che vivono nella stessa realtà."
Sempre nello stesso libro Lea Vergine riporta una frase di Husserl: "Fra i corpi di questa natura ridotta a ciò che mi appartiene io trovo il mio proprio corpo che si distingue da tutti gli altri per una particolarità unica: é il solo corpo che non é soltanto un corpo ma il mio; é il solo corpo all'interno dello strato astratto, ritagliato da me nel mondo nel quale, conformemente all'esperienza, io coordino, in modi diversi, campi di sensazioni; é il solo corpo di cui dispongo in modo immediato come dispongo dei suoi organi."
E allora c'è il corpo erotico e performativo di Nefali Skarmea in Tabledance, o il corpo effimero e caduco di Namsal Siedlecki con la scultura Volver, in salgemma e ghiaccio. Entrambe le opere echi di un sentire identitario all'Amodovar.
Ci sono i corpi di grafite impressi sulla carta di Davide Savorani, di passaggio, di schizzo, che si sovrappongono come trasparenze o quelli aniamelier, con uno sguardo accecante e accecato á gouaches di Tomaso De Luca.
Poi ci sono le solitudini acquerellate dei numeri primi del Toulouse-Lautrec di Times Square, Patrick Angus che nella sua carriera di pittore ha creato numerosi lavori attigendo dal Gaiety Theater regalandocene una visione acuta, da spett-attore.
Paul Mpagi Sepuya decide invece di entrare fisicamente nei suoi lavori fotografici, in punta di mano, come una presenza indiscreta e silensiosa, ancorata alla vita stessa, accarezza e sostiene le immagini di ricordi vissuti, é così che sfiora Alex, Sam e Brian o A.K and Katie, tra gambe, corpi e mani. 
Il bianco sensuale, che ci ha accompagnato in questa esposizione, si celebra metaforicamente nella schiuma del mare, l'acqua si ricongiunge nell'opera di Siedlecki alla conchiglia dalle curve materne, accoglienti, come l'origine du monde.
All'origine dell'identità questo viaggio tra parole di burro.

"Non c'è nulla da capire, c'è solo da essere" 
Piero Manzoni

Federica Fiumelli







martedì 3 febbraio 2015

Oggetti su piano @ Fondazione del Monte, Bologna


link wsi mag: http://wsimag.com/it/arte/13105-oggetti-su-piano


Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
(Ungaretti)

Dal principio la mia personale definizione di piano sarebbe quella di un confine tra la profondità e la superficie, lì tra l'abisso e la pelle. Ho un'immagine instabile e sismica del piano. Un piano in perenne oscillazione come nella scena del film Il pianista sull'oceano, nel bel mezzo di una tempesta in pieno oceano, Novecento continuava a suonare il suo pianoforte su un pavimento danzante, e si spostava seguendo il movimento dell'acqua e della musica, lì sul quel piano mobile. A dispetto della fissità che paiono assumere gli oggetti sulla tela, questi provocano in noi un antico tremore. Anche Glissant nel "pensée du tremblement" ovvero il "pensiero sismico del mondo che trema in noi e attorno a noi" suggeriva il tremore non come paura o debolezza, ma come la speranza di avvicinarsi al caos. Il caos della bios.

La pittura non è morta, la natura morta non è morta. Solo dio lo è. Forse. Speculazioni religiose a parte, Oggetti su pianoè laicamente intima. Antonio Grulli, curatore di questa mostra accolta negli spazi della Fondazione del Monte, come un abile couturier ha saputo tessere una trama visiva mobile pittorica vivida e maieutica. E lo fa con quattordici opere di haute-couture firmate e partorite da Riccardo Baruzzi, Pierpaolo Campanini, Paolo Chiasera, Leonardo Cremonini, Pirro Cuniberti, Cuoghi Corsello, Flavio Favelli, Piero Manai, Giorgio Morandi, Alessandro Pessoli, Comcetto Pozzati, Sergio Romiti, Vincenzo Simone, Sissi.

Il metodo praticato dal saggio e quantomai vicino Socrate prevedeva appunto una natura dialettica, in un'indagine filosofica basata sul dialogo e quindi intriso fino al midollo di spirito critico. La pittura come critica, ed eterna portatrice dell'inesprimibile, Grulli, coraggioso quanto studioso, controvento ha saputo scegliere, quasi eleggere, in via del tutto meritocratica, una rosa purpurea di artisti, facendoli sfilare in uno spazio atemporale, in un silenzioso dibattito fra generazioni. Una scuola di pittura bolognese. Una Pittura di oggetti. Quegli stessi oggetti con i quali Duchamp fece sterzare per sempre la direzione dell'arte a venire. L'uomo si è sempre confrontato dapprima con la rappresentazione e poi con la presentazione degli oggetti della vita quotidiana.

In un saggio contenuto in Semiotiche della pittura Lucia Corrain e Paolo Fabbri riprendono un passo da All'ombra delle fanciulle in fiore di Proust, a proposito del genere still-leven, cito come segue: "Cercando di trovare la bellezza dove non mi ero mai immaginato che fosse, nelle cose più usuali, nella vita profonda delle "nature morte". E ancora prendo in prestito un altro pensiero da Pascal che affermava: "Quanta vanità nella pittura che suscita ammirazione per la rassomiglianza con cose di cui non ammiriamo affatto gli originali". Straordinaria pure la definizione di De Chirico con la quale definiva questo linguaggio delle cose come "segni passionali di un alfabeto metafisico".

In questa mostra differenti generazioni vengono poste sullo stesso piano, come se stessero dipingendo tutti quanti insieme nello stesso atelier, in una totale mobilità oscillatoria, in dialogo, in un tempo ucronico e circolare dalla durata bergsoniana. Concetto Pozzati ad esempio fu maestro e incontro fondamentale di numerosi artisti presenti in mostra tra cui Campanini, Monica Cuoghi, Claudio Corsello, Alessandro Pessoli, Paolo Chiasera, Sissi e Vincenzo Simone.

Figli e padri si confrontano quindi, qui, a radici di colore e pennelli. Perché di una riflessione geopolitica si tratta. Oggi dove è così difficile trovare una mostra integrale di pura pittura, oggi dove è così complicato curare e dare attenzione alla realtà locale nella quale viviamo. E' più facile pensare alla pittura come una signorona datata senza alcun sex appeal o ricercare l'artista più impronunciabile oltreoceano. Al contrario è estremamente interessante, risalire il torrente degli eventi, guardare appena oltre, proprio sotto la punta del proprio naso e respirare a pieni polmoni l'aria che tira intorno e tra di noi. Un Grulli esploratore che utilizza le opere pittoriche alla stregua di una lente di ingrandimento per setacciare le sfumature autoctone. Una collezione di pittura così lontana, così vicina, perché l'eco non è che un ritorno che differisce dall'origine, nello spazio del tempo. E lo spazio di questa esposizione sono i piani. Molteplici. La mostra è una continua schiusa dentro una chiusa, alla stregua di una scatola cinese, si trova una cura dentro una cura. La mostra si prende cura della pittura, la pittura si prende cura del mondo. Una cura attenta, una cura critica.

Il piano pittorico altro non è che un non-confine, labile, concettuale, violabile, ambiguo, prezioso e intenso, drammatico, gli oggetti attori senza fissa dimora nel tempo del colore. Il piano curatoriale, altro non è che un limite fisico dato dallo spazio del luogo, su cui poggiano come orizzonti indomabili, le opere degli artisti. Quindi similitudini e rimandi. Siamo risospinti in una meta riflessione continua. Notevole il display curato dall'artista Flavio Favelli, uno splendido fil rouge, sul quale le opere si dipanano senza orpelli cronologici. E' così che in una fioritura corporale, rosso sangue, si ritrova a dialogare face to face Morandi con Flavelli. Gli oggetti morandiani, avvolti nel loro manto polveroso di vita si riflettono nelle due bottiglie bolognesi, in una speculazione temporale, la vecchia Romagna si è riversata in un sguardo alcolico, accolto dal fluire rosso á plat dello stesso artista. La pittura si appoggia, si aggrappa, si affida alla pittura stessa, il sapore, liquore e languore bolognese si lascia andare a vaghezze orientali. Un rapporto sismico tra zolle di pittura.

E' così che all'angolo della sala uno straordinario scorcio italiano anni '90, una fotografia dipinta ad olio su cartoncino di Cuoghi e Corsello affianca e chiacchiera con due straordinari compagni, tra la scomposizione scogliosa di Romiti e la metafisica liquida di Campanini. Nell'ultima sala, il Sergente che non può calpestare le margherite di Cuniberti scivola straordinario tra i piani sensuali e organici, linguali, capillari, dell'Indice Madre di Sissi e la shakespeariana buia pittura di Cremonini, con Un cranio di montone. Tra dettagli anatomici e vanitas sintetiche e solitarie.

Lo slittamento dell'essere pittura si fa sempre più danzante tra l'esistenziale Testa di Manai, dalla quale emergono come naufraghe impastate di bianco parole di giornali, e la sinestetica stop motion di Pessoli, dove un energico e solitamente irriverente Petrolini ci accompagna tra i pastelli, l'acrilico e il suono. La nota solitaria e stridente per la sopraffine fitta eleganza desertica è l'altra opera di Cuoghi e Corsello, Bambini morti nel giardino dei bucintori. Pitture polifoniche si adagiano sullo stesso piano, quello che ne fuoriesce non è un baccano ma un rispettoso soppesarsi di sguardi che si sono depositati in eterni gesti trattenuti dalla tela.

Da questa fragile malinconia fotografica ad olio riporto l'attenzione a ritroso nella sala precedente per cogliere i piani dall'equilibrio sintetico, e senza peso di Baruzzi, Sinistra Destra verso l'alto che ben dialogano a bassa voce con le Choreography of Species: Rosa Tannenzapfen di Paolo Chiasera, che pone sui propri piani atmosferici e oltrefisici, nature opulescenti come muliebri fantasmagorici perni. Statuette della fertilità arcaiche che riflettono con ombre scure il loro incidere sullo spazio tempo che altro non è che un cielo capovolto. La coreografia contenuta nel titolo fa pensare alla mostra stessa come una danza su piano. Oggetti su piano è un movimento che scivola piano.

Ma esplode pastosa e corporea questa pittura nelle Collezioni di fiori di Vincenzo Simone, una turbolenta espressiva gettata di colore in tempesta, dove la natura non lascia alla cultura che un fiorente sanguinoso distacco. Atemporale mi muovo al principio della prima sala. Il corpo della mostra può essere percorso facendo avanti e indietro tra le stanze, balzando da parete a parete proprio per la flessibilità di confronto che la metodologia espositiva offre, il corpo dell'esposizione come quello di un amante da esplorare da cima a fondo con estrema pazienza, curiosità e sensibilità sismografica. Rileviamo tutte le oscillazioni di colore.

Cinque le opere di Chiasera che per questa volta indaga interni di ambienti da diversi punti di vista o svista, qualdirsivoglia, libri, una scultura del grande cardinale di Manzú, altre opere d'arte, i piani si succedono a diversi tempi, negli stessi luoghi, che divengono altri. Chiasera dipinge mostre che accadranno, potrebbero accadere al di là della tela e del colore. Al di là della superficie. La curatela come pittura al di là del piano. E poi chiude a ritroso e accoglie all'arrivo, Sottochiave di Pozzati, su piccolo formato, si mescolano pirografia, acrilico e smalto, ecco che abbiamo trovato, forse, la chiave di volta di tutto, di questa scatola orientale, amante di una pittura tra padri e figli, che si fa scambio e critica delle proprie radici.

Sentirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po' folle, un po' saggio
nello spendere sempre ugualmente paura e coraggio,
la paura e il coraggio di vivere come un peso che ognuno ha portato,
la paura e il coraggio di dire: " io ho sempre tentato."
(Guccini)

Federica Fiumelli












mercoledì 28 gennaio 2015

Grosse Fatigue, Camille Henrot al MUSEO GUCCI


link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12967-camille-henrot



So di non sapere. Socrate ci illuminò secoli orsono, con uno degli assunti filosofici più conosciuti di sempre. Dalla Grecia classica ancora questa presa di coscienza vive e interroga. Nel cuore della Firenze rinascimentale, il Museo Gucci che si affaccia invidiabilmente su Piazza della Signoria ospita negli spazi del suo contemporary art space l'opera video del 2013, Grosse Fatigue della giovane artista francese Camille Henrot a cura di Martin Bethenod. Meritatamente, dal mio personale punto di vista, premiato con il Leone d'Argento all'ultima Biennale d'arte di Venezia, la 55a, era stata fortemente voluta dal curatore Massimo Gioni e se ne desume anche il perché.

La Biennale Endiclopedica e Utopica gioniana trova una perfetta e corrispettiva, calzante anima gemella nel lavoro dell'artista francese. Grosse Fatigue è l'impossibile utopica presa di coscienza del saper di non sapere. E' l'infinito e bulimico succedersi di immagini. Un immenso e fagocitante lavoro di ricerca svolto non a caso al più grande complesso museale scientifico al mondo, lo Smithsonian Institute di Washington, che può vantare ben circa 142 milioni di pezzi nelle sue collezioni. Un film di 13 minuti che si muove a ritmo ancestrale di rap musicato dal compositore Joakim e dalla voce dello slammer Akwetey Orraca - Tetteh, che declama in "spoken word" una lunga poesia scritta in collaborazione con lo scrittore Jacob Bromberg. Dal sito dell'artista un breve ma significativo passo:

In the beginning there was no earth, no water – nothing. There was a single hill called Nunne Chaha.
In the beginning everything was dead.
In the beginning there was nothing; nothing at all. No light, no life, no movement no breath.
In the beginning there was an immense unit of energy.
In the beginning there was nothing but shadow and only darkness and water and the great god Bumba.
In the beginning were quantum fluctuations.

Genesi, evoluzione e probabilmente la fine del mondo. L'ambiziosa volontà di voler sovrapporre tutti i racconti scientifici, storici, mitologici, artistici, antropologici, la stessa artista racconta: "Nel mio video la volontà di universalizzare le conoscenze si accompagna alla coscienza che ho di questo atto. Vale a dire che nel momento stesso in cui aspiro a rendere il mondo abitabile mediante una totalizzazione soggettiva, sono anche consapevole della follia di questo tentativo è dei suoi limiti intrinseci".

Grosse Fatigue è sensorialmente affaticante. Davanti a noi si apre un desktop di computer e di pari passo alla declamazione vocale quasi sempre più pressante, in the beginning, in the beginning, in the beginning, si generano e si aprono molteplici finestre, quelle che il digitale ci insegna ad aprire con estrema velocità e facilita, che allo stesso tempo non permettono, diventano un limite fisico nell'assorbimento, nel porre attenzione a ciò che si sta manifestando.

E' allora che si viene travolti dal flusso inarrestabile, di suono, voce e immagine. Mani smaltate ad hoc, tartarughe, onde, biglie, pitture trecentesche, pagine di Wikipedia o libri illustrati scientifici, si mischiano a porzioni di corpi intenti a farsi una doccia, e ancora, animali imbalsamati, custoditi in maniera tassonomica, schedati, inquietanti, sinistri, vengono ripresi con ammirazione e sgomento al Museo di storia naturale parigino. In alcuni frame, soprattutto quelli dove le protagoniste sono mani femminili, talvolta con arance, uova o bulbi oculari, la regia visiva adottata mi ricorda come un flash l'immaginario pop surreale acido del duo Cattelan-Ferrari in Toilet Paper.

L'Henrot colleziona saperi, li sedimenta, li stratifica in maniera del tutto evanescente e digitale, è come se gli studioli, le wunderkammer cinquecentesche venissero proiettate fluidamente nello spazio immateriale della rete. E poi un click ed è un colpo di spugna, tutto quello assorbito fino a quel momento si dissolve e ricomincia l'aprirsi di nuove finestre. Un Mash Up visivo e sonoro stremante, faticoso, frenetico, estenuante. Un remix che diviene apologia dell'impotenza. Un'ossessione isterica. L'accumulo opulescente e virale. Non si può contenere il contenibile, la sensazione che si ha è quella di un eterno infrangersi, un irrompere più grande del grande, una diga spezzata, e il flusso non si può contenere, ci sovrasta folle. Non c'è fine, lo sguardo non può domare, e si china all'orizzonte dell'utopia.

Le immagini continuano sovrane aprendosi a enumerati saperi, e mi colpisce una che eleggerei quasi a emblema, un ranocchio è posto su un'iphone, ecco delicato irrompere il fragile e teso limen tra natura e cultura, la tecnologia ruba all'infazia l'antica fiaba naturale, se si bacia il ranocchio, c'è l'alto rischio che l'amore si proietti nel virtuale anziché nel reale. Quasi una burla, una beffa dei tempi post moderni. E poi l'atto masturbatorio, ma sempre delicato, l'Henrot ha una grande purezza e finezza formale in tutte le immagini che "spara" a ritmo di rap sono proiettili ad alta definizione. La storia a colpi di click. Una guerra all'ultimo sapere e il piacere sensuale dell'impossibilità di un godimento totalitario. Un piacere voyeuristico, che si declina in voyeur-ostico. Tra le infinite finestre compare l'inquadratura su un bacino femminile, e lentamente la mano candida scivola nelle mutandine.

Poi nuovamente un click e un colpo di spugna. Ecco altri interstizi di scibile che si aprono a noi. Alla fine tutte le finestre sono chiuse, e la cartella sul desktop troneggia minimale, una piccola voragine che prova a contenere l'incontenibile. Una matrioska virtuale che assume le sembianze di un archivio infinito, in continuo processo organico. Quello stesso infinito che si ritrova nell'unica scultura esposta, Tevau del 2009. Manichette antincendio arrotolate in un 8 rovesciato, appunto il simbolo del continuum. L'Henrot è poliedrica e ama sperimentare i più diversi materiali e tecniche. Tevau è il nome di un oggetto rituale melanesiano che simboleggia lo scambio in occasione di transazioni importanti come il matrimonio, destinato a ristabilire l'equilibrio. Nell'opera la natura diventa lo stesso flusso inarrestabile di Grosse Fatigue, in un continuo scorrere incessante di passato, presente e futuro. Mi viene alla mente il video La Pluie, project pour un texte del 1969 di Marcel Broodthaers.

Da capo, scrivere, sotto una pioggia incessante. Nuovamente, nell'impossibilità.
In the beginning.

Fino all’8 Febbraio 2015 al Museo Gucci di Firenze.

Federica Fiumelli













mercoledì 21 gennaio 2015

Alessandra Spranzi. Maraviglia @ P420 arte contemporanea, Bologna


Link WSI mag: http://wsimag.com/it/arte/12831-alessandra-spranzi-maraviglia




"E' mattina. Dalla mia finestra vedo un'altra finestra. Ogni mattina una vecchia donna dai capelli bianchi si affaccia, aspetta che succeda qualcosa, qualcosa di bello, che io non so e non vedo, e dà degli abbracci e dei baci dalla sua finestra aperta. Poi la chiude e il giorno inizia. E il giorno inizia anche per me."

Queste sono le parole che utilizza l'artista Alessandra Spranzi per raccontare il suo lavoro Ogni mattina del 2006, unico video esposto alla galleria p420 di Bologna che le dedica la personale Maraviglia visitabile fino al 31 gennaio. E' proprio una signora dai capelli bianco neve che ci accoglie all'entrata dell'esposizione, questa immagine di questa anziana che potrebbe essere la vicina di casa di ciascuno di noi mi ha riportato alla mente la scena della busta di plastica che danzava nel vento nel film American Beauty, in entrambi i casi viene cioè celebrata l'epifania dell'ordinario, quello a cui non dedichiamo più tempo perché di tempo sembra non essercene più.

Uno dei protagonisti del film di Mendes esordiva così: "Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita, dietro a ogni cosa. E un'incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare. "

"C'era una vita intera dietro ogni cosa", con questo assunto come non ricordare il maestro bolognese Morandi? Chi meglio di lui ha saputo dare tempo e sguardo profondo alle cose, e voglio sottolineare il sostantivo "cose" alla Remo Bodei, cose sulle quali viene sedimentato del significato, non oggetti, meri oggetti privi di attribuzioni. Trovo quindi in perfetto dialogo la poetica della Spranzi con il grembo morandiano bolognese. Bologna è la città perfetta per comprendere il lavoro dell'artista.

Le opere che la Galleria P420 ospita appartengono a vari cicli: Io? (1992-93), Vendesi (dal 2007), Dizionario Moderno (2012-14), Sortilegio (dal 2012), Obsoleto (dal 2012). Alla Spranzi interessa una bellezza già esistente, non vista, per questo motivo è una grande collezionista e riciclatrice di immagini preesistenti che provengono da manuali pratici, libri scientifici, o riviste di annunci economici. Lei rifotografa, ritaglia, ingrandisce, stampa con tecniche diverse come in Sortilegio, dove illustrazioni di manuali pratici in cui si vedono mani al lavoro su materiali e oggetti sono rifotografate e stampate con la tecnica della fotoincisione. L'immagine esistente viene rimaneggiata per diventare altro. Perfino la propria.

In Io? fotocopie di collage nei quali l'artista ha sostituito il proprio viso a quelli di diversi personaggi tratti da libri e riviste. Ecco allora la Spranzi astronauta. Metafora interessante, l'artista che esplora i crateri dell'invisibile. Non fare attenzione alle cose ci rende profondamente lacunosi nei confronti della scoperta dell'ordinario. Cosa c'è di più trascurato delle fotografie delle offerte? Quasi le bypassiamo irritati, con totale disinteresse e voluta cecità. In Vendesi le immagini di annunci economici di oggetti messi in vendita, originalmente poco più grandi di francobolli, sono rifotografati e ingranditi fino a svelare la loro grana tipografica, un autentico zoom sulla pelle delle cose. La Spranzi, con il proprio modo di lavorare apre a una questione ormai obsoleta, obso-lenta, ma in questo caso interessante, risalenti agli anni Settanta. L'artista non è una fotografa, ma un'artista che utilizza la fotografia. E' necessaria questa distinzione?

Come anche Claudio Marra in Fotografia e pittura nel Novecento sottolinea, "È proprio negli Settanta che si assiste al clamoroso ribaltamento della vecchia formula "fotografia come arte" in quella di "arte come fotografia", dal momento che non è più l'invenzione di Daguerre a chiedere accoglienza nella palazzo dell'arte, vestendo ossequiosamente i panni della pittoricità, ma è l'arte stessa a uscire dalle proprie stanze sostituendo la mono-identità pittorica con tutta una serie di identità decisamente prossime alle categorie messe in gioco dal medium fotografico." E ancora sento di citare una frase faro di Marra "Di fatto la fotografia funziona come un ready-made."

E la Spranzi ama partire proprio dal già fatto. Risposte dogmatiche quindi non ce ne servono, sicuramente la fotografia più che mai negli ultimi decenni ha dimostrato di uscire da se stessa. E anche l'artista lo fa, la Spranzi ama profondamente l'immagine fotografica soprattutto se abbandonata, solo una persona che nutre profondo amore e cura può farci godere così dell'ordinario. La fotografia diviene un corpo palpato, toccato, rimanipolato, mischiato, accarezzato e tagliato, ingrandito. La Spranzi sveste e riveste. Sgualcisce e rende presente ciò che era stato bandito all'angolo. Il banale smette di essere tale.

La capacità del conservare uno sguardo vergine sulle cose ordinarie rimane il punto saldo dell'arte della Spranzi che dimostra anche nelle proprie parole una poetica ricca e potente: "Da anni rifletto sul potenziale, spesso addormentato o consumato, presente nelle immagini, tornando a guardare e utilizzare materiale anacronistico o povero con progetti ogni volta diversi, che portano alla luce, o svelano, il lato nascosto e irrazionale delle cose e delle immagini. Raccogliere, avvicinare, mettere insieme, far incontrare è un modo per riorganizzare, o sorprendere, la visione e il pensiero, per rimettere in gioco la natura enigmatica dell'immagine fotografica che continuamente ci interroga."

Nella serie Obsoleto, più che mai, secondo me, l'artista attua questa modalità di "far incontrare per sorprendere". Numerosi fotomontaggi che mettono insieme pagine di vecchi libri o riviste di vari argomenti (scienze naturali, geografia, astronomia, arredamento, botanica) a delle polaroid scattate dall'artista. Il soggetto delle polaroid sono oggetti raccolti per strada, o ritagli di fotografie, messi in scena su un tavolo. Come non ripensare a Morandi? Il tavolo diviene un set per gli oggetti orfani che vengono adottati, scelti o trovati, e ai quali viene soprattutto riconsegnata fascinazione e maraviglia.

Maraviglia, la parola scelta dalla Spranzi per questa mostra: "Maraviglia, la ripetizione della a come uno stupore ripetuto, o uno stupore del secondo sguardo. Chiudo gli occhi, li riapro, riguardo o ritrovo qualcosa che appare inaspettatamente nuovo." Maraviglia, l'opera, che fa da arciere-guida di tutta l'esposizione, una fotografia di dettagli di una copia del Dizionario Moderno trovata dall'artista in un mercato dell'usato. L'ignoto proprietario aveva arricchito il libro con definizioni ritagliate da altri dizionari e incollate sulle pagine. Una delle definizioni aggiunte era appunto "maraviglia".

Ecco allora la Spranzi ricercatrice funambola, attenta, che con cura cerca, trova, sceglie i propri preziosi fossili, sedimentati, scava l'immagine fotografica, qualunque essa sia, ci va a fondo e le restituisce "maraviglia", dal latino mirabilia, appunto, significante "cose ammirevoli". 
E allora, ogni cosa è illuminata.

Federica Fiumelli














Zed1, Willow e Guaia, curated by Spazio San Giorgio Arte Contemporanea, Bologna

Ecco tre artisti ed eventi da non perdere, 
curati da Spazio San Giorgio Arte Contemporanea

http://www.spaziosangiorgio.it/






SECOND SKIN PROJECT
ZED1
Opening Sabato 24 Dicembre 2015 h. 20.00
Live Performance h. 21.30 
ART CITY White Night | Arte Fiera 2015


"Che la vita possa essere considerata una caduta è connaturato alla facoltà umana di immaginare. Immaginare significa concepire l'altezza da cui avviene la caduta."

John Berger

Uno splendido disincanto dal sapore felliniano. Una pellicola smaltata, un carillon circense stridente. L'odore di vecchi libri, pagine polverose, custodite nei segreti di una soffita si schiudono a noi come sogni alati. I personaggi dello streetartist Marco Burresi, in arte Zed1 popolano già da tempo molte zone italiane dal Nord a sud, interventi pubblici, su pareti di muri che ci appaiono come pagine di un libro illustrato. Disincantati. Si perché l'immaginario seppur fantastico rimane critico, vagheggia fluttuante con una cinica rilettura di temi che scuotono profondamente l'animo umano. Dal cambiamento, alla speculazione, alla solitudine, al tempo, alla monetizzazione di esso, al potere, al sesso, all'infazia.
Una metamorfosi delicata, i personaggi vivono nell'aria, in un mondo di carta e vetro raffinato. Anche se la distinzione tra fiaba e favola é ormai nota, il lavoro di Zed1 può affermarsi come uno scivolare tra i confini di questi due generi, la favola é quel racconto magico che ha solitamente come protagonisti animali come accade nelle favole di Fedro, di Esopo, di La Fontaine ed un preciso scopo di educazione morale, ovvero ci sono i buoni e ci sono i cattivi, a quelli scorretti é garantita solitamente una punizione finale. La fiaba al contrario non si dimostra da subito esplicita, ma lascia aperta una riflessione critica, lascia che sia l'ascoltatore a decidere da quale parte schierarsi.
Le opere di Zed1 nascono favole ma agiscono sicuramente come fiabe urbane.
Il mondo illustrato dell'artista attarverso la moltitudine di graffiti drawing mantiene un tratto raffinato, una linea elegante che si srotola come una narrazione magica, talvolta perturbante, tra animali, elfi, clown, burattini, al limite, folli, outsiders, freaks, eccentrici, equilibristi.
Instabili vaganti. Sinceramente precari. Teatranti.
Nonostante la tecnica spray, la bravura dell'artista porta le nuances utilizzate a campiture compatte quasi pastello sospese in un colore che può essere solo immaginato.
La serena gamma cromatica sembra collidere con la stridente anima sordida dei protagonisti, ed é questa la chiave di forza, che apra la soffitta dell'immaginario libresco di Zed1.
Rotondità volanti che riecheggiano in romanticismi melanconici della donna cannone sognata da DeGregori, burrositá in volti tondeggianti e cosmici, solitari e sensibili. Ricordi quasi boteriani.
Poi i corpi scivolano in curve, tra schiene e addomi, volumi di ovatta che si chiudono in piedi sopraffini, come antenne, in grado di vibrarsi lirici e affusolati. Sono vuoti pieni. Vuoti a perdere. Hanno inglobato il possibile, and finally full. Troppo vuoto. Che sia un allarme? L'eccesso deve essere scavato.
Ma i soggetti restano in punta di piedi sul nulla. In caduta libera.
Per concepire l'altezza di quelle cadute, non ci resta che immaginare.
E poi ci sono gli sguardi, asserrandati, consapevoli di non essere mai lì dove si posa l'occhio di chi osserva, ma altrove, lontano. Sparati in aria da chissàquale cannone.
Sguardi attoniti tra la presa di coscienza e l'abbandono. Ambigui e di minor ingombro rispetto ai volti che li contengono.
Piedi fasciati in calzature dalle snellezze medievali, gli esserini dell'artista sono raccontastorie perduti. Lussuriosi o opulescenti? Sono menestrelli attenti al dettaglio, quasi dal sapore lontano di un gotico internazionale, fiabesco non a caso. Minuzioso, puntiglioso.
Dalle miniature di un racconto silenzioso, i personaggi come bolle di sapone e ceramica si ingrandiscono e si impadroniscono di grandi dimensioni e spazi pubblici.
Zed1 gioca in una teatralità mascherata, un tableau vivant che sussurra: "datemi una maschera e sarò sincero." Ma ci sarà un tempo anche per spogliarsi delle foglie di un autunno di apparenze.
Zed1 pensa tramite il disegno che rende macro, in versione ambientale, dal taccuino al muro, la sua poliedricità é messa in evidenza come quando la dimostra passando dalla grafica, alla tela al Wall painting.
Il disegno come arma per agire sulla pelle del mondo, profondamente, in superificie.
Quella pelle che diventa un vero e proprio modus operandi.
Il progetto dell'artista "Second Skin" presenta infatti doppi strati di disegno, doppi strati di pittura, doppi strati di carta, solo l'interazione del fruitore, del passante, o lo scorrere del tempo potranno rivelarci questo profondo scavare in superficie. Un'erosione dell'immagine introspettiva.
Una mutazione che filtra attarverso la caducità della materia. Perché tutto può cambiare.
Strappi una pagine ed ecco un'altra vita, ecco un'altra illustrazione.
Depura, sbuccia, scarta, spoglia l'immagine per regalarcene le interiora, lo scheletro, la struttura portante, il tuorlo.
Una vita a brandelli, perché é negli interstizi che si trova una silenziosa verità distillata, e come anche Calvino scriveva nel "Visconte dimezzato": " bellezza, sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che é fatto a brani."

Zed1 archeologo di essenze, scavando a sud del cuore, nel profondo tempo dello sguardo.

Federica Fiumelli  




Orari di apertura / Opening Times :

Martedì - Venerdì  10.00 - 13.00 /  16.00 - 19.00
Tuesday - Friday   10am - 1pm / 4pm - 7pm

Sabato 16.00 - 19.00
Saturday 4pm - 7pm



In altri orari su appuntamento.
Any other time on appointment.




SEDICI MODI DI DIRE VERDE

Poliambulatorio Giardini Margherita, struttura sanitaria privata di alto livello e con una particolare attenzione al benessere psicofisico dei propri pazienti, proporrà in occasione di ArteFiera 2015, in collaborazione con Spazio San Giorgio arte contemporanea "Sedici Modi di Dire Verde" mostra dell’artista neo-pop Willow.

"...e tutti camminano sempre ma poi per dove 
tanto un albero è come un ombrello se piove."
Da "16 modi di dire verde" di Niccolò Fabi

Leitmotiv di questa esposizione firmata Willow è sicuramente il verde. Un verde che accoglie, protegge e si disperde come liquido sulle tele. Un verde che invoglia, abbaglia e risuona, glorioso e ottimista. Un verde più verde del vero. Un verde jazz. 
Un Willow che trama colore per appunti di un viaggio nei ricordi di una natura naturans.
Come edera il suo colore cresce e nasce sugli spazi di una tela. 
Dapprima bianca poi vinta da queste energiche tempeste verdi.
I mondi di Willow eterei, fluttuanti, atemporali sono tutt'un caos di colore. Non hanno peso specifico, data od ora. 
Solo flusso e passaggio, solo ritmo, dal momento in cui ci capiti davanti.
Tra il fumetto e l'illustrazione i personaggi si disperdono in un non-sense di gettate di colore. 
Gli smalti su tela sono storie che finiscono nella curva di un sorriso. 
Sicuramente erede di un neopop giapponese alla Takashi Murakami, le invasioni di esserini ci comunicano attraverso onomatopee da fumetto, per un fraseggio muto, che nutre di visioni e colore i suoni. 
Smile, :D, dz, wuuup. Punti esclamativi. A! E!
"Verde te quiero verde", un romanticismo nostalgico e agrodolce, frizzante alla García Lorca, tutto verte in un amabile cocktail all'à plat. Come girovaghi gitani, i "polipetti" dell'artista fluttuano in oceani di informe, nell'incertezza liquida di un sogno distratto, in assenzi assenti.
Si aggrappano alla tela per non gocciolare in una realtà troppo monotono.
Willow da botanico atelierista ci crea con le sue opere varchi - finestre, organiche, bios in punta di pennello, tutto esplode a ritmo di verde, polifonicamente.
Come suggerirebbe Baricco:
"A volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni."
Testo : Federica Fiumelli


Brevi cenni biografici: Nato nel 1978 a Milano si diploma presso la Scuola del Fumetto e Illustrazione di Milano nel 2000. Collabora da 12 anni con case editrici, agenzie pubblicitarie e aziende produttrici di gadgets e articoli da collezione e design. Con lo pseudonimo W i l l o w realizza tele, grafiche, murales e vinyl toys vicine allo stile POP, collaborando con gallerie, aziende e designers in Italia e all’estero. Tra le principali collaborazioni:Comix, Motta, Borsalino. Weissestal, Ariete, Boffi.



don'tnedd(ART)

Incucina bistrot, in collaborazione con Spazio San Giorgio arte contemporanea, nel periodo di Artefiera 2015, ospiterà la mostra “don’tneed(ART)." dell’artista Lorenzo Guaia. 
In occasione di Art City White Night sabato 24 gennaio, per l’inaugurazione dell’esposizione, Lorenzo Guaia vestirà i panni di CIBARTISTA e a fianco del padrone di casa, lo chef Giorgio Salterini, cucinerà per gli ospiti un menù degustazione.

Il tratto distintivo dell'artista Bolognese Lorenzo Guaia é sicuramente quello di un grafismo lineare e preciso, un segno deciso e pulito, che si impone leggero, senza alcuna pesantezza al di là del concetto. Tagliente e ordinato. L'essere umano nelle sua figurativitá é totalmente assente, solo oggetti del quotidiano, da tazze a strumenti musicali o seggiovie, manifestano la loro presenza tramite silhouette che si impongono ben definite su sfondi decisamente contrapposti. Pochi protagonisti per supporti variegati. La dicotomia in Guaia si fa sempre ascoltare.
I soggetti tracciati dall'artista si vestono di contorni puntuali, zen, senza alcuna ombra o profondità fluttuano su supporti estremi. Un'estremità declinata ad una bizzarria visiva.
Estremi nella loro composizione, il Guaia collezionista si schiude ai suoi osservatori, é così che ad esempio dopo la fortunata serie delle bustine da té, uno ski-lift dai contorni netti e total white si staglia in una prospettiva fotografica su una campitura patchwork di santini e madonne.
Una moltitudine sacrale si offre come sfondo ad un soggetto distante.
Al limite dell'assurdità metafisica le opzioni di interpretazione sono vaste tante quanti i santini utilizzati per il collage.Sacro e profano. All'artista interessa accorpare icone, simboli sedimentati nell'immaginario comune, apparentemente disconnessi fra loro. In realtà oggi più che mai, il flusso non stop di immagini bulimiche soprattutto nelle pubblicità ci propone accostamenti più che improbabili, il vero problema é che l'occhio abituato a ciò non ne é più consapevole.
É allora che Guaia ripara al guaio, con la sua solita linearità evanescente scava a fondo di questioni antitetiche e dicotomiche, mescolando con grande sobrietà religione, musica rock, paesaggio, medicina.
Più che di un gesto iconoclasta, Guaia si diverte a produrre altre nuove immagini che interrogano il fruitore sulle possibili conciliazioni proposte. Annunciazioni che si fanno carico di rileggere il senso delle icone nel rockeggiante panorama ibrido contemporaneo.

Federica Fiumelli