Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

venerdì 14 febbraio 2014

David Casini. Un pensiero in altezza

Ultimo articolo uscito sul Wall Street International Magazine.
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http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/le-opere-di-david-casini_20140212110212.html#.Uv5yhWJ5M_c

REPORT - Italy, Arte

Le opere di David Casini

Un pensiero in altezza

Le opere di David Casini

Agrodolce. Un pensiero in altezza, al marmo e miele, frutta candita e ottone, un violino e grandine. Si tratta di soffici ed eleganti dicotomie, ma anche di composizioni alchemiche. Le opere dell’artista David Casini si adagiano su bianchi, cristalli e accostamenti delicati, segreti da schiudere a ogni sguardo per la bellezza complessa alla quale sono legate. Casini, nativo di Montevarchi, può vantare nel frastagliato panorama contemporaneo di una sostanziale artigianalità e manualità, qualità che si sono un po’ perdute a discapito dell’emergere di altre idee e movimenti artistici nel XXI secolo, tecniche e materiali originari di quel cuore aspro e dolce della Toscana custoditi e trattati dall’artista anche a distanza.
Di fondamentale importanza è infatti il periodo trascorso nella sobria Ginevra che determinerà la nascita di nuove idee estetiche portando l’artista a diverse espressioni: da questa terra erediterà le tradizioni rielaborandole e ispirandosi ai paesaggi svizzeri, e riverserà nelle sue opere un maggior impiego di freddezza e luce. Attention del 2003 è un esempio di lavoro nel quale l’artista ha rielaborato una leggenda, il mito dell’eroe svizzero Guglielmo Tell, e lo fa in maniera decisamente personale e interattiva, facendo dialogare due parti di un’unica scena disegnandone una parte sul muro e l’altra (riprendendo una tradizionale tecnica toscana) cucendola su una poltrona di design.

Il periodo che va dal 2003 al 2013 è costellato da varie opere, diverse tra loro con il comune denominatore di un amore crudele, ma romantico come la volontà di ricreare la realtà pur rimanendone legato. Casini osserva e si ispira a un qualcosa che appartiene a tutti ma che puntualmente viene visto e non guardato, lo spazio. Trasfigurare l’ambiente assorbendone, come una carta non sazia di inchiostro, le forme e le peculiarità. Espax, installazione ambientale presentata a Napoli nel 2006, prevede una grossa apertura nel soffitto da cui esce maestosa una forte, azzerante luce bianca rinforzata dall’utilizzo di neon: l’opera in questo caso assume l’aspetto di una soglia, di un passaggio a un altro ambiente, a un altro spazio, a un altro tempo. Questo concetto, di trasformazione e di passaggio, di sospensione, ritornerà sovente nella poetica dell’artista. L’esplorazione di spazi anacronistici e astratti continua in Corruptible matter, un titolo già esplicativo, che volge a sottolineare la materia, la carne e il verbo attraverso cui si esprime quello che ci circonda.

Casini si serve della prospettiva come di una amante, rivolgendosi ai vate del rinascimento italiano, quali Piero della Francesca, l’Alberti e Mantegna; pesca dal passato, dalle radici di una terra e di una cultura e li riinnesta come un regista in ambientazioni cinematografiche futuristiche, in un continuo dialogo tra passato e futuro. Casini è il caos del presente, è quello che accade, che si mischia però in un silenzioso ordine trascendentale che acceca come le nervature di marmo bianche, il tromp l’oeil sulla pavimentazione della galleria ginevrina faro dell’artista, l’Analix Forever. Questa illusione prospettica ci inganna e ci fa cadere nel sorriso beffardo di chi vuole aprire allo sguardo possibilità. Un fuori tempo che ha i suoi battiti, anche se sono caldi come il rumore dei passi nella neve. Ecco ancora dicotomie e ossimori. Casini è anche abile scultore, con propulsione tattile e tridimensionale (anche nella scelta di fili metallici per la cucitura rafforzando il valore di matericità) crea architetture in ceramica riguardando l’architettura anni Venti del futurista italiano Antonio Sant’Elia, e come tacchi, quelle altezze gotiche sono altezze di idee che si gettano in un altrove immaginato, sono slanci che mirano a un ascetismo in continua ascensione.

Ma questa elevazione è pur sempre ancorata a qualcosa, a nuvole di corallo, ed ecco nuovamente il contrasto e la differenza che si fanno presente; il basamento delle sculture in ceramica è infatti di puro corallo. E cosa sono i coralli se non le briciole del cuore della terra? Altra parola chiave nel lavoro di Casini è Krystallos, nonché titolo di una mostra del 2008. Dal greco antico (nuovamente un sguardo alla storia) la parola cristallo rimanda all’acqua ghiacciata per l’eternità dagli dei e conserva in sé quindi un concetto di infinito fermo e deciso, un legame con l’universo. Marmo, cristallo, ceramica, sculture di ghiaccio, quarzi, verticalismi, un’enumerazione materica sofisticata, da leggere per la complessità di stratificazioni alle quali appartengono, quella di Casini è una wunderkammer di ricordi profumati liberati da qualche armadio vintage ma proiettati in visioni che devono ancora accadere, in momenti che non sono stati ancora inventati.

Nel 2009 con l’opera Genera l’artista vince il Talent Prize, un riccio di mare, vetro, quarzo, il titolo del lavoro semanticamente valido, accentua sull’importanza del generare. Quello di Casini, è un simbolismo composto da costruzioni a più livelli, perché l’antico, la biologia, gli oggetti preziosi si mischiano sotto l’immaginazione dell’artista che crea e detta mondi rispettandone le radici e le profondità, generando frozen theatre di antica e futura memoria. Da stilista ridefinisce le fisionomie non trascurandone le essenze.E viene alla mente un passaggio di Calvino, da Le città invisibili:
Guardato il fiume, valicato il passo, l'uomo si trova di fronte tutt'a un tratto la città di Moriana, con le porte d'alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l'uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un diritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.
Un rovescio, e si avrà la faccia nascosta di un qualcosa di altro, perché l’immaginazione ridisegna la realtà. Le opere di Casini sono nascite e morti, racchiuse in container trasparenti, rendono visibile la loro invisibilità perdendosi in uno spazio-tempo congelati. Ma se l’opera d’arte è sempre una ferita e apertura, quelle dell’artista si presentano appunto come riti e porte di passaggio per l’altrove tanto agognato. Rito di passaggio, un caminetto che diviene appunto metafora di un viaggio immaginato per chissà dove, Casini non ha valigie ha solo percorsi sognati.
E sopra al camino, ecco souvenir onirici e surreali che si mischiano tra loro in un cocktail di organico e inorganico, i cubetti di ghiaccio non sono che dicotomie. Altro lavoro interessante, è L’illogica abitudine del 2011 che riflette sulle costruzioni abusive sul Mediterraneo: ed ecco ancora una sfilata di microsistemi, coralli, resina, ferro e vetro, uno skyline di architetture nascenti da coralli, che puntualmente generano, e generano, immaginando, pensieri che plasticamente si traducono in altezze ed esoscheletri architettonici.

Con Back Home del 2012 allo Spazio Morris di Milano, l’artista ha affrontato da vero amante il rapporto tra lo spazio e la vita, e nel mezzo l’arte. Casini infatti ha vissuto fisicamente per alcuni mesi lo spazio della galleria, accarezzandolo, a volte ferendolo, amandolo o prendendosene gioco, ha dialogato e sedotto quell’ambiente. La galleria divenendo lenzuola di un letto disfatto è diventata vita vissuta, vita vera, un laboratorio di creazione e archivio di memoria, stratificazione di odori e pensieri, uno spazio vivo a immaginazione sciolta, disciolta e aperta. Casini torna a casa, riutilizza tutto ciò che è fisicamente suo, nella mente e sulle mani, coniugando il suo gusto tra passato e un futuro da inventare, così specchiere vintage, vernici sintetiche, ottone, spugne marine, coralli si incontrano per dare vita a riflessi di vibranti forme neonate, partorite da visioni immaginate, ma legate all’idea di riflesso, di una riflessione attraverso lo specchio, una ricerca profonda su un’identità reale e antica. Un dejà vu, perché di sicuro da qualche parte si sono già viste, quelle forme si sono già incontrate, e allora sono impronte di attimi vissuti, sono orme e tracce.

Tu non mi conosci sdogana dai cliché delle convinzioni, perché se di primo impatto crediamo di trovarci di fronte a una testa di cinghiale tassedermizzata, beh, ci sbagliamo. Basta ruotargli attorno per rimanere estraniati. La cavità della testa è infatti divenuta una grotta piena di cristalli di quarzo, inganno e preziosità; l’animale e il minerale che innestandosi secondo energiche fantasie diventano qualcosa di altro, mischiandosi non si definiscono, e quella diventa una cavità profonda di pensieri affilati. Come quando fuori piove invece è una poesia plastica, un mash-up visivo, un dj set di oggetti, un’installazione che fa incontrare pietra minerale, un trasformatore, una pompa elettrica, un nebulizzatore, vetro, ferro, plastica, ottone, silicone, legno e acqua. Gli oggetti di Casini si incontrano sempre, non per vanità, ma per coincidenze fortuite, generando sempre qualcosa di altro. Si tratta di microcosmi, e vengono alla mente le poesie di Sanguineti, non a caso la raccolta delle poesie che vanno dal 1951 al 2004 si intitola appunto Mikrokosmos, densa di frammenti e montaggio, ritrovano affinità nei lavori di Casini per le ascendenze matematico-scientifico, sovrapposizioni, universi autonomi, e per l’uso di un linguaggio ben radicato nella realtà materiale.

Tutto sembra funzionare del 2012 ribadisce l’idea di macchine celibi, installazioni da piccolo alchimista, si passa anche dal pensare a un’opera come prodotto di una macchina (da un’artigianalità da cui l’artista era partito) a una concezione di macchina come opera. L’aspetto erotico della macchina inoltre viene correlato ai meccanismi del sesso libero, rappresentato visivamente dai fumi e dai fluidi, immateriali ed evanescenti come il godimento. Casini è un trasformatore, un catalizzatore di energie, un traduttore di fantasie erotiche e non, creando così mondi celibi ma esteticamente fruibili. La questione temporale e quella spaziale emerse si affermano ulteriormente con il titolo dell’opera Momento in cui tutto questo ha uno spazio esposta alla quarta Biennale D’arte Contemporanea a Salonicco.

Le opere di Casini accadono qui e ora, nel caos del presente che si fa spazio, legandosi a un filo di raso al passato e al futuro. Un lavoro estremamente dialogante ed elegante che vede appunto la dicotomia tra artificiale e organico, connettendo il museo archeologico, luogo d’esposizione, alle spugne di mare e ai minerali che leggiadre vibrano esili, ricordando vagamente l’evanescenza appesa e sospesa di Calder oltre alla concezione di aleatorietà. Casini ci riporta a una frase significativa: “Arte torna Arte”, espressione coniata dall’artista Luciano Fabro, un pensiero rivolto all’arte come un continuum che si rinnova e si rigenera traendo forza da se stessa e dalla propria storia, mantenendo come Sanguineti scriveva “Uno sguardo vergine sulla realtà: ecco ciò ch'io chiamo poesia.”

Pubblicato: Mercoledì, 12 Febbraio 2014
Articolo di:  Federica Fiumelli










giovedì 16 gennaio 2014

Thierry De Cordier

Ecco l'ultimo articolo pubblicato su
Frattura Scomposta:
www.fratturascomposta.it

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Thierry De Cordier

“La poesia, che non è un’arte di arrangiare i fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.”
Erri De Luca, Sulla traccia di Nives, 2005

Stavo passeggiando per la Biennale quando ritrovatami in una sala, all’improvviso il mio sguardo è stato letteralmente attratto, prosciugato vorticosamente dalla pittura oscura, funerea, glaciale di Thierry De Cordier.
Filosofo, performer, scultore, scrittore e poeta, con un vita nomade alla spalle, l’artista è nato e lavora tutt’ora in Belgio.

Tele maestose, oli e pastelli o su tela o su tavola.
La pittura di De Cordier è una pittura tormentata, dominata da una furia iconoclasta, sembra voler spazzar via lo stesso sguardo che attira su di sé.
È prepotente, troppo forte, ribelle, il mare in tempesta sfugge anche alla pennellata.

E’ anche una pittura analitica, attenta al dettaglio dell’informità marina, talmente reale da sembrare più vera del vero, ma perturbante, sul filo di un certo iperrealismo magico.

I freddi mari nordici sembrano sfondare la tela, non si contengono, sono gelidi a tal punto che feriscono, strozzano la visione, bloccano il fiato proprio lì come prima di buttarsi da un’altissima scogliera.
Ricordano i naufragi Shakespeariani, perdite di identità per un risorgimento successivo; e poi spifferi, fantasmi, ricordi perduti, spazzati via da una furia corrosiva e demolitrice.

Atmosfere sfumate e leggere invadono lo spazio della tela, aprendosi come finestre in microcosmi perduti e dimenticati da chissà quale Dio.
Le creste spumose delle onde pallide e diafane sono ritratti di anime sperdute e angosciose, sembrano quasi ricordare “La donna del Mare” di Ibsen dal sapore dei fiordi Norvegesi, una storia di attrazione mistica verso l’origine delle acque gelide e tormentate.

I moti marini, i movimenti ondosi rappresentati da De Cordier hanno una potenza pervasiva, esplosiva, invasiva e indomabile, hanno una carica espressiva si gelida ma allo stesso tempo ricordano la forza demoniaca legata al caso nel dripping alla Pollock.

Una potenza espressiva coinvolgente e liberatoria.
Quelle acque chissà quali coste hanno bagnato con le loro lacrime di dolore?
E chissà quali scenari e orizzonti hanno guardato? Chissà da quanti velieri carichi di speranze sono state cavalcate e chissà quali volti, di amanti e non, hanno riflesso nelle loro trasparenze marine.

Le onde bianche sono gli echi lontani di amori tragici e maledetti come in “Cime Tempestose”, sono apici drammatici, lembi di lenzuola in cui qualcuno si è promesso d’amare per sempre, anche oltre la tempesta della morte, come nelle tormente di neve che accompagnavano gli spiriti di Heathcliff e Catherine.
“Io amo Heathcliff, Io odio Heathcliff, Io sono Heathcliff.”
Una maledizione d’amore che annega nella perdita del sé.
La pittura di De Cordier, ha il retrogusto di favole antiche, di memorie sbavate di trucco, di fredde e tormentose storie che hanno segreti ancorati nel’oscurità.

I mari del nord che l’artista elegge come muse inarrivabili sono l’altra faccia della luna e irrompono nel nostro immaginario come le sinfonie di Mendelssohn. L’onda come la sinfonia butta giù con un fragoroso calcio la porta anestetizzata della nostra percezione.

Non si può porre resistenza, si viene travolti e basta, come i velieri che hanno tentato inconsciamente di vagare nella tempesta.
Tempeste che sono battaglie di demoni e tristezze interiori, mai uguali a sé stesse ci cacciano alla deriva, su spiagge ipotetiche, rocciose come nel “Naufragio vicino alle rocce” del 1870 di Ajvazovskij.

E ai bordi, ai margini di quelle stesse tempeste, scopriamo che ci si aggrappa anche la poesia, che si era persa leggera tra i venti taglienti e taciturni.
Le ostilità smaltate delle correnti del nord sono ritratte nelle grandi tele che diventano così oblò, rendendo lo spazio espositivo il sotto ventre di una nave e noi i viaggiatori di mari che sono cupe fantasie squarcianti.

Federica Fiumelli












La Porta dei Sogni, Raimondo Galeano Artist @ SPAZIO SAN GIORGIO, Bologna

La Porta dei Sogni
Raimondo Galeano
 dal 11 Gennaio al 8 Febbraio 2014





"La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori.” Alda Merini
Il colore non esiste. E’ questa l’affermazione che ha spinto lo studio e la ricerca scientifica, artistica ed estetica di anni e anni dell’artista bolognese Raimondo Galeano.
La luce dà forma e colore a tutte le cose, io dò forma e colore alla luce”, queste le parole chiave della poetica di Galeano formatosi inizialmente a Roma con la Scuola di Piazza del Popolo. 
L’artista supera i limiti della pittura e va oltre, si affida direttamente a qualcosa di più complesso e   maestoso, all’uso della luce.
Lo studio di Galeano si concretizza in un sorta di camera oscura, un modus operandi affine alla fotografia e alla cinematografia. 
Grafia della luce. 
Luce che scrive, luce che dipinge. Una luce attiva che disvela il suo fascino come la più bella e seducente delle amanti. La pittura si spoglia del colore e si dona alla verità formale della luce. 
Appena il buio scende, si viene sedotti da opere luminescenti e ci si trova dinnanzi ad immagini che entrano in scena: l’immagine diventa verbo, irrompe nell’apparire della visione, diventa  protagonista galoppante e si fa attrice del momento. Come una diva, icona dell’immaginario collettivo. 
E proprio di icone si vestono le opere in esposizione, simboli cult dell’immaginario cinematografico fantastico e surreale.
Peter Pan, Trilly, Mary Poppins e altri personaggi fantasy saranno i protagonisti di qualcosa che va oltre una semplice mostra.  
Cosa di più fantastico di una pittura di luce? Cosa di ancor più fantastico, quando la fantasia dei personaggi del cinema brilla incandescente rendendo preziosa l’oscurità? Galeano “stilista”, veste di luce le icone del cinema ponendole letteralmente sotto il riflettore. 
L’artista diviene faro, unico nel suo genere e unico nella storia dell’arte.
Galeano si serve della luce per donarci immagini splendide e splendenti, quasi ritratti fotografici in negativo fluo. Di fronte ad una sua opera, come all'interno di una sala cinematografica buia, meraviglia e attesa ricordano momenti emozionanti di scene proiettate che possono cambiare la storia del cinema, commuoverci o farci sorridere.
La pittura di Galeano è una pittura dialettica e performativa, attiva. 
Mai uguale a se stessa, nè di giorno, nè di notte. Come una scia di stelle, di giorno tele lattee quasi scremate e monocrome si trasformano di notte, al buio, in qualcosa d'altro, regalandoci le immagini che si nascondono alla luce. Ecco la trasformazione, la metamorfosi, il passaggio.
Il bruco diventa farfalla, e la pittura si accende, si va in azione. 
Ciak si gira.  La tela come un set cinematografico sfavillante.
Una pittura quindi in costante rinnovo che si allinea straordinariamente all’ideologia contemporanea: luce quale soggetto informe, ineffabile e immateriale che richiama perfettamente la concezione di tecnologia.  
Una pittura quindi tecnologica quella di Galeano.
Galeano artista, performer, drammaturgo, regista e scultore di quella creatura libera, bizzarra, indefinibile, priva di limiti che è la luce.
Più che una mostra, una vera e propria esperienza sensoriale.
Spazio San Giorgio
Federica Fiumelli 










Sabato 11 e 18 Gennaio e sabato 1 e 8 Febbraio 2014 h. 16.00-18.00, Workshop con l'artista nell'ambito del programma Pop for Kids - Arte a Misura di Bambino. Per info e prenotazioni: INFO@SPAZIOSANGIORGIO.IT 

 Orari di apertura:
Martedì-Mercoledì-Giovedì 9.30-15.30 
Venerdì 10.00-13.00 / 17.00-19.00 
Sabato 16.00-19.00 
in altri orari su appuntamento / chiuso Domenica e Lunedì

Spazio San Giorgio – Via San Giorgio 12/A - Bologna - 3495509403
Ingresso Libero



lunedì 30 dicembre 2013

Jean-Paul Bourdier. Vivere, soltanto vivere

Ecco il mio ultimo pezzo pubblicato 
sul Wall Street International Magazine:


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Jean-Paul Bourdier

Vivere, soltanto vivere

Jean-Paul Bourdier

“Vivere soltanto vivere, in quel momento in quel luogo. Senza mappe, senza orologio senza niente. 
Montagne innevate, fiumi, cieli stellati. Solo io e la natura selvaggia.” (Into the Wild)

Nella natura selvaggia, tra paesaggi amari e infiniti, quasi metafisici, alla De Chirico, si perdono e si stagliano corpi colorati, così impastati di colore che sembrano nascere dalle polveri corpuscolari dell’artista indiano Kapoor. Nelle opere di Jean-Paul Bourdier la fotografia si mischia alla bodypainting più sofisticata e teatrale, quasi ricordando una delle perfomance Les gens de couleurdella compagnia francese poliedrica, Ilotopie.

Bodyscapes è il titolo di una delle serie fotografiche più stupefacenti e famose dell’artista, ed è infatti proprio di paesaggi corporei di cui si parla, in questi scatti infatti il corpo fisico dei personaggi si mischia, si ibrida, si confonde alla natura selvaggia e aspra. L’artista è docente di disegno, design e fotografia al dipartimento di architettura alla UC Berkeley in California. Fotografie rigorosamente analogiche che si discostano dall’uso di Photoshop (precisazione presente sul sito ufficiale dell’artista), formalmente perfette, incantano da subito l’occhio per la perfezione armonica e cosmica che emanano.

Tutto è squisitamente proporzionato e in linea, un meticoloso set da tableaux-vivants viene ricreato tra gli anfratti dei paesaggi più sconfinatamente vasti e incontaminati da ogni soluzione architettonica artificiale. Specchi d’acqua che si perdono all’infinito, cieli talmente tersi da spiegarci l’immenso in una pennellata di cielo. E poi sorgono, emergono i corpi, riflettendosi, in maniera speculare, con i corpi nudi ma ricoperti interamente di colore, talvolta metallici da rendere la muscolatura qualcosa di talmente perfetto da non poter essere colto.

Sono uomini, donne, probabilmente tribali, dalle usanze ancestrali, il sesso non diventa che metafora dei pigmenti colorati. Seni, cosce, piedi, si confondono a pietre, deserti e rami, ma anche ghiacciai e montagne rocciose. È questione di rime baciate, Bourdier diventa poeta dello sguardo, accostando le curve dei fianchi femminili a insenature terrose, o i seni e i sederi alle curvature della terra. Viene quasi la voglia di palparli questi corpi, viene la voglia di strusciarsi a terra, di mischiarsi e mescolarsi all’origine. Corpi-paesaggio che sono origini, saltano, si allungano, rimangono sospesi tra la terra il vuoto e il cielo, mimetizzandosi a esso perché tinti di azzurro o blu.

I personaggi sembrano danzatori cristallizzati nell’attimo dell’eternità dell’infinito naturale, esiste un ritmo biologico armonico in questo accoppiamento. Perpendicolari o piegati, i corpi sono cadenza e apostrofi, scandiscono il colore del silenzio nel cuore delle terre selvagge e indomabili, cercando di non essere trovati, tra le loro solitudini ampie. Ed ecco che un corpo dal bianco farinoso e desertico e raggomitolato su se stesso sopra un enorme stesa di sassi rotondeggianti e sinuosi biancastri anch’essi, la spina dorsale diventa un solco roccioso, un scalata di vita, fragile ma determinante, da percorrere a mani nude, o in punta di piedi, perché l’eco di una parola può far vibrare quell’essere luogo. E la carne diventa luogo e silenzio come la terra madre, si arricchisce di colore per aspirare al rito, un ritmo primordiale, antico, che esiste da prima di tutto.

Rossi, gialli e blu, muscolature umane, disciolte a un sole cocente, si plasmano rassegnate e sopite in una cavità desertica naturale, la natura beve, inghiottisce la carne, sembra non esserne sazia, e l’uomo si aggrappa alla pelle del mondo con i palmi della mani colorate. A volte l’artista sceglie di far emergere dal suolo solo alcune porzioni di corpo, come busti o teste completamente di bianco, un bianco che azzera e cancella le identità, anche i capelli di imbiancano e si mischiano con l’organicità di qualche nuvola all’orizzonte, sono vanità statuarie, immobili ma caduche, metafisiche.

Accoccolati in un manto di neve, talmente alla deriva del loro essere altrove, i corpi si rannicchiano in un gesto di infinito avente per sfondi tanti esili rami secchi, neri, partiture di inchiostro solitarie. E poi la nascita di un corpo brillante, e rosso da far male, da una frattura naturale, è questa l’origine del dolore? I corpi disposti nel teatro di Bourdier sono nascite continue e perpetue, corpi che si dilatano fino a farsi penetrare dal cielo o dall’atmosfera, tesi e allungati, in tensione evolutiva verso un compimento che raggiunga l’orgasmo cosmico, sempre sotto una luce pulita e abbagliante, di quella perfezione formale cara all’artista, lucida e plastica. Viene celebrata la bellezza, selvaggia, ribelle, colorata e terribilmente immensa.

Ma che ne sappiamo noi dell’immensità? Tu che stai leggendo queste righe, tu che ne sai dell’immensità? Il vento saggio sibilante tra quelle montagne rocciose e tra quelle insenature di corpi blu o gialli sembra rispondere: "…tu chiedi alla polvere".

“Lei apparteneva alle colline, ora, e le colline l'avrebbero nascosta. Dovevo lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada.”
Dal libro Chiedi alla polvere di John Fante.

Articolo di:  Federica Fiumelli












mercoledì 18 dicembre 2013

Willow. Bianco, Rosso, VERDI Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna


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AGENDA - Italy, Arti

Willow. Bianco, Rosso, VERDI

Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna

Willow. Bianco, Rosso, VERDI

In occasione del bicentenario, l'artista neopop Willow dedica un omaggio al grande Maestro Giuseppe Verdi che ha saputo avvicinare la lirica e il teatro in un modo nuovo al grande pubblico.
Un poeta, un patriota del Risorgimento che ha veicolato un ideale, un pensiero attraverso la sua opera in un periodo in cui l'Italia era alla ricerca di una vera e propria identità di Paese. Un uomo semplice, un italiano conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo e di cui ognuno di noi dovrebbe essere fiero di esserne conterraneo.

La cifra stilistica che Willow propone nelle sue opere sa di ottimismo e colore. Di stile Neopop, le tele che ci regala sono virus di gioia e sorrisi, antibiotici contro la pioggia, il malumore e la tristezza, sono esplosioni alcoliche inebrianti, spumeggianti e frizzanti, un continuo cin-cin visivo, e i personaggi e le forme che popolano la superficie sembrano tante bollicine di spumante. It’s always a party, a pop party!

Lo stile di Willow mescola grafica, design e fumetto, i personaggini si elevano a icone pop, semplici, dirette, immediate. Cuoricini, lettere, smile super positivi invadono da veri combattenti il nostro sguardo, che ne rimane rallegrato e sorridente. Far sorridere lo sguardo, ecco una mission importante. Guardando le sue tele si ha l’impressione di trovarsi in una bolgia colorata di tanti piccoli esseri comunicativi, con cuori rampanti e vogliosi di amare. Willow ci regala un momento di relax e gioia. Il suo grafismo leggero ma conciso, anche nei bianchi e neri, ci trasporta in un’atmosfera di tutto pieno, di un caos fumoso, una metropoli di inchiostri, piccoli grumi espressivi.

Spicchi di gelatina colorata, i piccoli personaggi sono come una cascata di canditi dalle tonalità accese, hanno umori incandescenti. Gialli, rossi, arancioni, blu, azzurri, verdi e viola, una parata festosa e caramellata corredata da una forte impronta onomatopeica tipica del fumetto, “UOP”, “B”, “PA”, “PE”, “HI”, “EB”, “Z”, “:D”, “SBU”, “LA”... sembra quasi di sentirli goffamente. Le fantasie di Willow sono invasioni di positività, e non ci resta che cantare allegramente sotto una pioggia di colore.

Pubblicato: Giovedì, 12 Dicembre 2013

Articolo di:  Federica Fiumelli








sabato 30 novembre 2013

La Grande Magia Dal 20 Ottobre 2013 al 16 Febbraio 2014 presso MamBO, Bologna

Ecco pubblicato sul 
Wall Street International Magazine:

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/agenda/arti/la-grande-magia_20131127115038.html#.Upn4xtLuI_c

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AGENDA - Italy, Arti

La Grande Magia

Dal 20 Ottobre 2013 al 16 Febbraio 2014 presso MamBO, Bologna

La Grande Magia

Alice rise: «È inutile che ci provi» disse, «non si può credere a una cosa impossibile». «Oserei dire che non ti sei allenata molto», ribatté la Regina. «Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz'ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.»


Visitare la mostra La grande magia è un po’ come vestire i panni dell’Alice di Carroll almeno per qualche ora. Il percorso espositivo si srotola come se fosse un piccolo paese delle meraviglie, un sentiero costellato di pensieri impossibili, fantastici, che hanno assunto valenza plastica e visiva grazie a persone speciali, quelle persone dalla sensibilità fanciullesca che sono gli artisti. Le opere scelte appartengono alla Collezione Unicredit, una delle collezioni più importanti e prestigiose d’Europa, veri e propri capolavori che attraversano la magia come trama nella storia dell’arte.

Quando gli artisti trasformano la materia in opera d’arte assumono sempre un po’ la valenza di alchimisti o maghi, riescono a impastare il pensiero alla forma, e se questa non è una magia, che altro può essere? Tutto ciò che seduce, che fascina lo sguardo ha un potere e l’opera d’arte diventa così una pozione contro l’apatia. Credere all’impossibile. È questo che vi si chiede all’inizio di ogni viaggio, che sia fisico o mentale, che sia visivo o uditivo.

La mostra si apre con dipinti importanti come il Capriccio Architettonico di Marco Ricci del 1700,Psiche abbandonata da Amore di Dosso Dossi del 1525, Aracne tesse la tela di Antonio Carneo del 1660, Il lamento dell’ora di Greuze del 1775. Ci si ritrova così in viaggio attraverso l’età moderna, tra leggende e miti, e ci si sente un vero viandante come nella foto esposta di Elina Brotherus, che fotografa se stessa affacciata su un vasto orizzonte paesaggistico, una ripescata dalla storia dell’arte, una reinterpretazione fotografica del Viaggiatore sopra il mare di nebbia di Caspar David Friedrich.

Una citazione di Massimo Bontempelli recita: “La magia non è che arte allo stato grossolano”. Ed ecco che ai nostri occhi appare il Bosco silente del 1925 di De Chirico e a fianco Pesci d’argento (Ninfe) del 1902 di Gustav Klimt, silhouette muliebri si stagliano su uno sfondo verdastro, fluttuano come in una pozione, sono irraggiungibili, effimere e seducenti, sono avvolte nel loro manto informe, come in una nube scura, cariche di mistero che sta per farsi pioggia.

La mostra prosegue facendo riferimento al cinema come atto magico. Una frase ricorrente, come il filo di Arianna ci lega… Il etait une fois di Jean Cocteau come un eco sordido ci accompagna. Tre proiezioni, tre estratti, La belle e la bête di Groit, Voyage dans la lune, di Georges Mélies del 1902 e il celebre Arrivée d’un train à la ciotat di Louis Lumiére del 1897, famoso per aver fatto sussultare i primi spettatori all’arrivo di quel treno che sembrava sfondare veramente lo schermo per entrare in sala. Lo stupore, la magia, l’incanto, il sogno, tutti elementi che caratterizzarono i primi esperimenti cinematografici.

Interessanti le tele di Bernard Schultze che indaga il processo magico come formazione dell’immagine dettata dall’inconscio, un concetto tanto caro al padre del movimento surrealista, André Breton. Surreale anche lo scatto di Clare Strand, Sospensione Aerea del 2008 che congela un corpo sospeso a mezza luna, in assenza di spazio e gravità e tempo. Con Col passare del tempo del 2005 opera di Vea Lewandosky, si ha veramente l’impressione di essere nel paese delle meraviglie, un orologio rotondo Siemens, dalle lancette marcate nere, viaggia all’impazzata all’incontrario, a ritroso nelle spiagge della memoria, in un non-luogo, in un'atemporalità suggestiva.

E sempre per confondere la percezione, Jeppe Hein propone un grande specchio rotante a due piani inclinati, 360° Illusione II, dove si viene inghiottiti in una centrifuga visiva a più piani: la sensazione di roteare in questo riflesso assieme alle opere esposte vicino crea una distorsione percettiva di grande effetto che incanta chiunque passi davanti.

Arthur Duff invece si diverte a proiettare con un laser, parole in corsivo dal colore rosso flash che si muovono su una parete bianca, who see himleaving, J, S, alone, in space, in total, stillness, see someone, far off, in the distance. Barbara Probst propone diversi punti di vista, fotografando quattro diverse prospettive di un unico evento. E ancora Peter Blake ci propone L’uomo farfalla, 2010, un uomo sognante capace di emanare tante farfalle color pastello libere in giro in uno spazio urbano, la donna di Shirin Neshat invece è un grande ritratto fotografico silenzioso, in bianco e nero, ricoperto da cima a fondo di scritte, di parole arabe: il titolo è Senza parole, del 1996. Il silenzio della Neshat, è un silenzio che urla e denuncia, e di urlo si parla anche nell’opera di Günther Schrei del 1991, Urlo Bianco, una grande tela costellata da una tempesta fitta e vorticosa di chiodi, contaminati da una colata di pittura total white densa, che fa male allo sguardo pungendolo.

Importanti nomi continuano a costellare la mostra, come Leger, Tinguely, Richter, Schwitters con i collage su carta del ’24, ’36, ’47, autentici non-sense degni dell’artista dada. E poi uno dei capolavori futuristi di Giacomo Balla, La guerra del 1916, manifesto dell’Italia interventista. La mostra presenta anche una ricca sezione fotografica, da Fischli e Weiss, Florence Henri, Bayer, Tim Gidal, ad Arthur Benda con La Danza dei dischi d’oro del 1931, Duchenne, Cameron, Weston, Mimmo Jodice, e i grafismi espressionisti di Rainer.

Christin Marclay presenta un curioso video, Telephones del 1995 un mixaggio di spezzoni di film hollywoodiani che hanno come filo conduttore la chiamata telefonica, dallo squillo all’Hello, alla chiusura. In mezzo il nulla, l’epifania di un gesto che noi non consideriamo neanche, vista l’automaticità con il quale lo compiamo, ecco che viene posto l’accento su un atto banale che rivisitato assume un’altra valenza estetica. Quale sarà veramente il contenuto della chiamata?

Il percorso espositivo continua con un’opera di Yves klein, Le monochrome, una scultura di spugna completamente blu, quel blu infinitesimale, impalpabile, invasivo che Klein rese concetto. Stefano Arienti invece coniuga il neon a un materiale povero come il polistirolo, arricchendolo non solo di luce ma anche di preziosità narrativa e manuale resa dalle abilissime incisioni di scene. E ancora compaiono, Ghirri, Zorio, Penone e Paolini con 3X3 Ognuno è l’altro o nessuno ognuno sembra guardare se stesso nell’atto di un fare, un calco in gesso che prevede un dialogo immaginato con Canova. Ci sono anche le impronte di piedi nel fango del fiume su un cartone di Richard Long, dell’87, che denunciano una presenza ora assente, un passaggio fugace di un tempo lontano.

E per credere nell’impossibile chi meglio di Christo, che con i bozzetti progetti delle Isole impacchettate di Biscayne Bay Greather Miami dell’83, rende possibile il sogno di scoprire il visibile celandolo. La grande magia consiste proprio in questo, nel disvelamento dell’ordinario, nell’epifania del fenomeno più banale, dobbiamo prestare attenzione e cura e particolare sguardo a tutto quello che ci circonda, perché siamo particelle in perpetua relazione con il mondo, e tutto può essere portatore di un messaggio caleidoscopico. Alla fine di questa mostra ci sentiamo un po’ come Topolino nell’Apprendista Stregone, curiosi e vogliosi di sperimentare, in cerca di una propria pozione, di una propria alchimia, di una magia.

Pubblicato: Mercoledì, 27 Novembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli