Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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mercoledì 14 gennaio 2015

Paul Jenkins. The spectrum of light




WSI mag link: http://wsimag.com/it/arte/12726-paul-jenkins

Tra il turbinio delle lenzuola, scivolando i corpi danzano nel crepitio di un temporale, diluiti nell'atemporalitá i colori si infiammano, irraggiano e accadono nel perimetro di una canvas-body. Peripezie prismatiche nell'accadimento dell'azione e nell'accadere dello sguardo, sono le opere di Paul Jenkins.

Qualcuno diceva, probabilmente Magritte: "se si è sensibili, bisogna provare vertigini e angoscia". Avvicinandosi all'impero imponente e visivo di Jenkins, posso garantire che se intendiamo la sensibilità come una rilevazione di una percezione, esteticamente e filosoficamente parlando, allora sì, la fantasmagorica vertiginosa angoscia del colore si accanisce nella sospensione retinica.

The spectrum of light è il titolo della retrospettiva di lavori su tela e carta che la città di Prato ha dedicato al grande artista, svoltasi tra due sedi, la Galleria Open Art e il Museo di Pittura Murale in San Domenico dagli spazi suggestivi come il Salone delle Capriate mai presentato dopo il recente restauro. Se gli spazi della galleria hanno accolto le opere di più recente produzione, il Museo di San Domenico ha offerto dal punto di vista dell'allestimento un interessante e proficuo dialogo tra i lavori degli anni '60, '70, '80 dell'artista americano, con ad esempio le sinopie di Paolo Uccello.

Emerge l'eleganza della linea, che diviene "un sempre nel mai". Una linea che da contorno, si slega e si crepa attraverso i secoli per ristabilire i propri confini dell'essere. Una linea che non vuole più marcare, delimitare o contenere, ma al contrario una linea soggetto che diviene puro colore, una protagonista che esplode a ogni gesto. Una linea che si denuda per divenire altro.

Quella linea orientale che Jenkins tanto ammirava come nel caso dell'artista giapponese Hokusai, a tal proposito lo stesso affermava: "Essa aveva un significato autonomo e ha creato una sua forma significativa." e ancora a proposito delle ébauches di Gustave Moreau: "esperienze soggettive in pittura con enfasi sulla pittura." Se ci si vuole immergere, calare, nei mondi immaginari di Jenkins occorre dare corpo a quell'enfasi, occorre essere pronti a respirare, ( a pieni occhi) la pittura come Eros disciolto, freudianamente fantasticando.

E' necessario sottolineare anche l'influsso di un certo contesto culturale e la conoscenza e il legame con artisti quali, Mark Rothko, Jackson Pollock e Barnett Newman. Citando Renato Barilli, nell'introduzione all'informale, si può parlare di "arte concreta", "volta cioè a proporre elementi plastici e cromatici autonomi, che però sono figure anch'essi, anche se prive di un riferimento più o meno fedele al mondo esterno."

La stagione dell'informale o espressionismo astratto (se vogliamo usare la terminologia per gli accadimenti americani) è da sempre stata affiancata inevitabilmente alla seconda guerra mondiale che significò il crollo generale di fiducia verso il progresso tecnologico. Nell'ambito del pensiero Sartre rilesse Husserl padre della fenomenologia, e assieme al "fratello minore" Merleau-Ponty posero l'accento sulla presenza di una sfera primaria, fluida, dominata dalla logica del campo percettivo, sessuale, affettivo, uno spazio organico, uno spazio vissuto. Non è un caso se dal '59 fino alla fine della sua attività artistica, Jenkins inserì in tutti i titoli delle sue opere la parola "Phenomena".

Non esiste più un centro unico, il centro è dappertutto. Come sottolinea Barilli, "siamo molto vicini a una forma omologa dello spazio per scorso dalle onde elettromagnetiche; queste di regola hanno una sorgente, ma una volta ripartite, si diffondono ovunque, rimbalzano, si infrangono, si compenetrano."

E cosa sono i colori se non questo, onde elettromagnetiche, nei lavori di Jenkins? Bios fluido mai uguale a se stesso, concreto e autonomo nel suo esistere. Quei colori che sono "patimenti di luce" come afferma l'artista. Goethe e Kant mentori del creatore americano, guardano attraverso il prisma di Newton. La rifrazione, l'incertezza, la moltitudine, "lo spettro è visibile sono lì" come afferma nel catalogo Beatrice Buscaroli. E ancora "Fenomeni, manifestazioni, non delle cose o della luce che le investe come richiederebbe il programma dell'Impressionismo che l'artista vede come una illustrazione di un evento nella natura, ma piuttosto emergono dall'atto della loro creazione ad opera dell'artista stesso."

Di fondamentale importanza per comprendere la poetica Jenkinsiana è il modus operandi con il quale l'artista produceva i propri lavori. Una vera danza. Una coreografia come descritto da Bosquet: "l'intervento esterno era di due tipi: l'uno il più originale, consisteva nel versare i colori nel cavo del foglio o della tela preparata dopo averla curvata. Poi, dondolata, spostata, ripiegata leggermente o spiegata, essa stessa obbligava i colori a concentrarsi, a stendersi, a trovare il loro letto e perciò la loro forma. L'altro intervento è meno rivoluzionario, benché indispensabile alla comprensione dell'opera di Jenkins. Si riferisce alla direzione che egli dà ai suoi colori e alle sue masse, attraverso uno strumento, una bacchetta che fa le veci di un pennello, o un coltello d'Avorio, il cui ruolo è quello di correggere la parte - certo considerevole - del caso in questa danza."

Mi è impossibile non pensare a Loie Fuller, danzatrice e attrice americana, che pur non avendo mai studiato danza, insieme alla Duncan e St. Denis fu una delle pioniere del balletto moderno statunitense. La Fuller attraverso il movimento di lunghi drappi che altro non erano che estensioni corporali e l'uso performativo di luci, creava danze vorticose, risucchiando lo sguardo in un inafferrabile accadere. Quell'accadere inafferabile che attraverso gli smalti e acrilici su tela trova percorso sulle superfici eteree e fluttuanti di Jenkins.

Si tratta per me di un essere "profondamente superficiale". Un binomio contrastante che diventa emblema di una poetica sublimata nel puro esistere. Una poetica che si snocciola su tele di grandi dimensioni per la maggior parte, la retrospettiva ci conduce ad ammirare il colore come un organismo a sé stante, che si sviluppa e si avviluppa dinanzi a noi, attraverso il tempo. Il tempo diviene coscienza attraverso la metamorfosi del colore. E' palpabile notare come siano diversi i primi lavori dagli ultimi. Jenkins sembra con lo scorrere degli anni trovare una razionalizzazione della pennellata, che si fa più quadrata o dalla larga e invasiva campitura. Abbandona, o meglio matura, le filamenta intrepide e caotiche, a schizzo esuberanti degli anni cinquanta e sessanta.

Quindi, filamenti organici, polifonici e talvolta fragili, talvolta più ingombranti e ampi, altisonanti e lunatici, porzioni di colore o compatte o trasparenti come velari. Colate, compenetrazioni che divengono metafore, quasi radiografie dell'atto sessuale che corona la fusione di due corpi. In ogni caso è un'esplosione all'origine, poi calibrata e direzionata da un corpo mosso da profonda cura. Una cura che diviene attenzione mentale, il caso viene accompagnato da una volontà.

Come in Zabriskie Point, capolavoro Antonioniano, durante la scena finale, i Pink Floyd musicano il big ben tra le cose, Jenkins segna e orchestra l'inizio del caos tra i pensieri. Noumeni cromatici. Prendo in prestito con la stessa cura Jenkinsiana le parole di Alda Merini per concludere così: "Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irrisolvibile, vitale spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici 'perché' del mio respiro."

Federica Fiumelli











lunedì 30 dicembre 2013

Jean-Paul Bourdier. Vivere, soltanto vivere

Ecco il mio ultimo pezzo pubblicato 
sul Wall Street International Magazine:


Enjoy! 
:)






Jean-Paul Bourdier

Vivere, soltanto vivere

Jean-Paul Bourdier

“Vivere soltanto vivere, in quel momento in quel luogo. Senza mappe, senza orologio senza niente. 
Montagne innevate, fiumi, cieli stellati. Solo io e la natura selvaggia.” (Into the Wild)

Nella natura selvaggia, tra paesaggi amari e infiniti, quasi metafisici, alla De Chirico, si perdono e si stagliano corpi colorati, così impastati di colore che sembrano nascere dalle polveri corpuscolari dell’artista indiano Kapoor. Nelle opere di Jean-Paul Bourdier la fotografia si mischia alla bodypainting più sofisticata e teatrale, quasi ricordando una delle perfomance Les gens de couleurdella compagnia francese poliedrica, Ilotopie.

Bodyscapes è il titolo di una delle serie fotografiche più stupefacenti e famose dell’artista, ed è infatti proprio di paesaggi corporei di cui si parla, in questi scatti infatti il corpo fisico dei personaggi si mischia, si ibrida, si confonde alla natura selvaggia e aspra. L’artista è docente di disegno, design e fotografia al dipartimento di architettura alla UC Berkeley in California. Fotografie rigorosamente analogiche che si discostano dall’uso di Photoshop (precisazione presente sul sito ufficiale dell’artista), formalmente perfette, incantano da subito l’occhio per la perfezione armonica e cosmica che emanano.

Tutto è squisitamente proporzionato e in linea, un meticoloso set da tableaux-vivants viene ricreato tra gli anfratti dei paesaggi più sconfinatamente vasti e incontaminati da ogni soluzione architettonica artificiale. Specchi d’acqua che si perdono all’infinito, cieli talmente tersi da spiegarci l’immenso in una pennellata di cielo. E poi sorgono, emergono i corpi, riflettendosi, in maniera speculare, con i corpi nudi ma ricoperti interamente di colore, talvolta metallici da rendere la muscolatura qualcosa di talmente perfetto da non poter essere colto.

Sono uomini, donne, probabilmente tribali, dalle usanze ancestrali, il sesso non diventa che metafora dei pigmenti colorati. Seni, cosce, piedi, si confondono a pietre, deserti e rami, ma anche ghiacciai e montagne rocciose. È questione di rime baciate, Bourdier diventa poeta dello sguardo, accostando le curve dei fianchi femminili a insenature terrose, o i seni e i sederi alle curvature della terra. Viene quasi la voglia di palparli questi corpi, viene la voglia di strusciarsi a terra, di mischiarsi e mescolarsi all’origine. Corpi-paesaggio che sono origini, saltano, si allungano, rimangono sospesi tra la terra il vuoto e il cielo, mimetizzandosi a esso perché tinti di azzurro o blu.

I personaggi sembrano danzatori cristallizzati nell’attimo dell’eternità dell’infinito naturale, esiste un ritmo biologico armonico in questo accoppiamento. Perpendicolari o piegati, i corpi sono cadenza e apostrofi, scandiscono il colore del silenzio nel cuore delle terre selvagge e indomabili, cercando di non essere trovati, tra le loro solitudini ampie. Ed ecco che un corpo dal bianco farinoso e desertico e raggomitolato su se stesso sopra un enorme stesa di sassi rotondeggianti e sinuosi biancastri anch’essi, la spina dorsale diventa un solco roccioso, un scalata di vita, fragile ma determinante, da percorrere a mani nude, o in punta di piedi, perché l’eco di una parola può far vibrare quell’essere luogo. E la carne diventa luogo e silenzio come la terra madre, si arricchisce di colore per aspirare al rito, un ritmo primordiale, antico, che esiste da prima di tutto.

Rossi, gialli e blu, muscolature umane, disciolte a un sole cocente, si plasmano rassegnate e sopite in una cavità desertica naturale, la natura beve, inghiottisce la carne, sembra non esserne sazia, e l’uomo si aggrappa alla pelle del mondo con i palmi della mani colorate. A volte l’artista sceglie di far emergere dal suolo solo alcune porzioni di corpo, come busti o teste completamente di bianco, un bianco che azzera e cancella le identità, anche i capelli di imbiancano e si mischiano con l’organicità di qualche nuvola all’orizzonte, sono vanità statuarie, immobili ma caduche, metafisiche.

Accoccolati in un manto di neve, talmente alla deriva del loro essere altrove, i corpi si rannicchiano in un gesto di infinito avente per sfondi tanti esili rami secchi, neri, partiture di inchiostro solitarie. E poi la nascita di un corpo brillante, e rosso da far male, da una frattura naturale, è questa l’origine del dolore? I corpi disposti nel teatro di Bourdier sono nascite continue e perpetue, corpi che si dilatano fino a farsi penetrare dal cielo o dall’atmosfera, tesi e allungati, in tensione evolutiva verso un compimento che raggiunga l’orgasmo cosmico, sempre sotto una luce pulita e abbagliante, di quella perfezione formale cara all’artista, lucida e plastica. Viene celebrata la bellezza, selvaggia, ribelle, colorata e terribilmente immensa.

Ma che ne sappiamo noi dell’immensità? Tu che stai leggendo queste righe, tu che ne sai dell’immensità? Il vento saggio sibilante tra quelle montagne rocciose e tra quelle insenature di corpi blu o gialli sembra rispondere: "…tu chiedi alla polvere".

“Lei apparteneva alle colline, ora, e le colline l'avrebbero nascosta. Dovevo lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada.”
Dal libro Chiedi alla polvere di John Fante.

Articolo di:  Federica Fiumelli












martedì 13 agosto 2013

Avery K. Singer. Architetta e regista di misé en scene silenziose, meccaniche e agrodolci.

Ecco pubblicato il mio ultimo articolo su una giovanissima e bravissima 
(vai di superlativi) artista newyorkese:

Avery K Singer sul Wall Street International Magazine.

Versione Italiana e versione inglese.

Enjoy!

:)

Link:

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/avery-k-singer_20130813152634.html#.UgrZ2tI9OSo

http://www.wsimagazine.com/uk/diaries/report/art/avery-k-singer_20130813153436.html#.Ugraa9I9OSo





REPORT - United States, Art

Avery K. Singer

She plans and register quiet mechanical and bittersweet mises-en-scene.

Avery K. Singer

It happened a few months ago, when I was reading an article published on Vogue, which it was dealing with a weekend in Berlin, that I found the work of a young artist from New York, Avery K Singer.
Born in 1987, Avery K Singer has gained a place for an art exhibition in a State-of-art gallery in Berlin, called The Kraupa – Tuskany Zeidler. The artist's works represent a mix of Cubism, neo-Plasticism, Constructivism and 3D animation, from the abstract to the concrete. It seems a “Tale of Ordinary Madness”, like Bukowski would have said. The Saturday Night scene releases a little bit of an early nostalgic flavour which comes out from a bottle full of Morandian echos. The protagonist falls on a counter. Everything seems a loneliness made of volumes and shadows, white, black and greycolors, conflicting dichotomies, alcohol and happy memories which are believed to be presumed. Everything is sculpture, a sculpture full of pain which turns into tired and rainy shadows. It seems to hear from afar the Tom Waits' rough voice that sings Blue Valentines, like a heart-rending echo.
Avery K Singer has been given us some acrylic paintings on canvas, on a black and white background, until now. She gives her works of art a suspension effect, like it was a mute film of the 30s. She realized some astonishing works, entitled “Performance Artists”, “The Great Muses”, “Interrogation Spotlight”, “Dancers around an Effegy to Modernism”. They are real constructions, mise-en-scenes, that seem to dialogue, instead of hailing from the past.
It is an authentic reconstruction of a true story, located at the present time. Avery K Singer let her artsubmit towards the primitive and mechanic, the antiquity and the future.
It wasn't impossible to avoid devisiting the angularity of the great Picassian masterpiece “Demoiselles d'Avignon”, the cubist plasticity, or the reconstructional conception of the Universe in a rational and geometrical way. In addition, it wasn't impossible to forget finding back the classical puppets, the dummies, the typical muses of the Dechirichian memory, in those standardized frozen and metaphysical situations which only Avery K Singer is able to create.
The influence of the black masks, the multiple points of view, the treatment of the geometricized and mechanomorphous bodies, plastical and independent shapes which descend from the psychical and logical perceptions.
Everything is oriented towards this concreteness, which is loved and eulogized by the cubist painters. The version represented by Avery K Singer is an instance of a substituted life, it can be described as the alcoholic side of dreams and visions. The young artist from New York is inspired by the great historical Avant-garde, she treasures this kind of artistic tendency, she takes care of her secrets, she reelaborates them, she gives her secrets a new and contemporary scent.
The Singer's painting is a nostalgic, but at the same time ever-functioning music box. The characters are usually crossed by grilled shadows. Horizontal and vertical lines meet each other like they were secret and contorted jails, or prisons full of memory from whom come out fleeting looks. Those who love admirating these masterpieces are, for sure, gorgeous and jealous of these visionary microcosms.
Moreover, in works like “Fellow Travelers, Flaming Creatures”, it seems that a talented new fashion photographer or a geometricized Avedon takes pictures of iconic models whose hair turns into real rungs and it seems that their heights keep on leading towards a gravityless lack of though. Everything is located in a crazy photographic set, obviously. What counts is the shape.
Her works realized in 2012 and 2011 are characterized by the presence of an inspiration, descending from the classical Picassian primitivism, surrounded by several solitary and naked geometrical muses. The blacks and the whites are fused on greyscales, between volumes and abstractions, which give us a transcendental and sober atmosphere, fashionable, like we were behind a vodka Martini olive juice, the typical cosmopolitan New York City cocktail, that is elegant and light, with nuanced colors and a bit of ash, fade and as a consequence a rational and plastical depot.
She plans and register quiet mechanical and bittersweet mises-en-scene. Avery K Singer will continue to wonder us, for sure.
Published: Tuesday, 13 August 2013
Author: Federica Fiumelli

Avery K. SingerAvery K. SingerAvery K. Singer

Avery K. Singer

Architetta e regista di misé en scene silenziose, meccaniche e agrodolci.

Avery K. Singer

E’ stato sfogliando Vogue qualche mese fa, leggendo un articolo su un weekend a Berlino che ho scoperto il lavoro della giovanissima artista newyorkese Avery K. Singer.

Nata nel 1987 Avery K. Singer ha avuto una personale in una delle gallerie berlinesi di ultima generazione, la Kraupa – Tuskany Zeidler. Tra astratto e concreto i lavori dell’artista sono un cocktail di cubismo, neoplasticismo, costruttivismo e animazione 3D. Sembra una storia di ordinaria follia, per dirla alla Bukowski, dal sapore nostalgico e primitivo la scena di “Saturday Night” con una bottiglia dagli echi morandiani, il protagonista si accascia su un bancone, una solitudine fatta di volumi e ombre, di bianchi e neri, di grigi, dicotomie contrastanti, alcool e presunti ricordi felici. Scolpito dai suoi stessi dolori che divengono ombre pioventi e stanche. Sembra quasi di sentire in lontananza, come un eco struggente e malinconico, graffiante la ruvida voce di Tom Waits cantare Blue Valentines.

Avery K Singer ci ha regalato fin ora acrilici su tela in bianco e nero, dando un effetto di sospensione, da film muto anni trenta.
“Performance artists”, “The Great Muses”, “Interrogation Spotlight”, “Dancers around an Effegy to Modernism”, titoli dei lavori del 2013, costruzioni, messe in scena, che sembrano dialogare piuttosto che derivare dal passato.

Una ricostruzione della storia innestata nel contemporaneo. Tra primitivo e meccanico, tra antico e futuro si perde l’arte della Singer.

Come non ritrovare le spigolosità delle forme care alle Demoiselles d’Avignon, o le plasticità cubiste, o la concezione di ricostruzione dell’universo in maniera geometrica e razionale? Come non ritrovare i fantocci, i manichini, le muse di Dechirichiana memoria, nelle situazioni congelate e metafisiche della Singer?

L’influsso delle maschere negre, la molteplicità di punti di vista, il trattamento dei corpi geometrizzante e meccanomorfo, forme plastiche autonome derivanti da percezioni psichiche o logiche, il tutto verso quella concretezza che fu cara ai cubisti. Un surrogato alla realtà, la versione un po’ alcolica di sogni e visioni, quella di Avery.

La giovane artista newyorkese si lascia ispirare dalle grandi Avanguardie storiche, ne fa tesoro, ne custodisce i segreti, li fa suoi, e li rielabora, ne da un nuovo aspetto con occhio e profumo contemporaneo, un carillon nostalgico ma sempre funzionante la pittura della Singer. I personaggi spesse volte sono attraversati da ombre a griglia, linee orizzontali e verticali si incontrano quasi a dare l’idea di una prigionia tortuosa e segreta, carceri di sguardi o di memoria, chi guarda è sicuramente un voyeur goloso e geloso di questi piccoli mondi visionari. In “Fellow Travelers, Flaming Creatures” sembra che un fotografo magari di moda, un Avedon geometrizzato scatti foto su un folle set fotografico a modelle non bioniche ma iconiche, capelli che sono gradini, altezze che portano ad assenza di gravità di pensiero. Quello che conta è la forma.

Nei lavori del 2012 e 2011 è ancora più forte la presenza di un ispirazione derivante dal primitivismo di origine picassiana, di muse solitarie dai nudi geometrici. I bianchi e i neri, fusi nell’intermezzo del grigio, tra volumi e astrazioni ci donano un’atmosfera trascendentale e sobria, chic, da martini bianco e olive, da aperitivo newyorkese cosmopolita, elegante e leggero, colori da fumo e cenere, dissolvenza e poi deposito razionale e plastico.

Architetta e regista di misé en scene silenziose, meccaniche e agrodolci Avery K Singer sicuramente ci stupirà ancora.
Pubblicato: Martedì, 13 Agosto 2013
Autore: Federica Fiumelli

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