Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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venerdì 11 dicembre 2015

Laura Guerinoni - TRAMA @ spazio MOO, Prato

 


Cos’è la memoria, se non l’ordito del nostro tempo?
Il tempo bugiardo, regalato, offeso, pregato, consumato, lacerato, dimenticato, annodato, annegato e amato. Il tempo perso, ma soprattutto quello che non ci diamo, perché non sappiamo aspettare.
Una sensualità e una tattilità che il tempo ha perduto. E allora occorre ritornare alla materia.
Una sosta alle origini alla ricerca della cima del filo.
La poetica di Laura Guerinoni recupera una sensibilità perduta, verso un’esistenza primordiale, delicatamente rude. Un lavoro di tradizione e traduzione, manualità e memoria si ritrovano coinvolti in un dialogo imperfetto.
L’artista utilizza materiali grezzi, in particolare modo fili, tessuti e canapa.
La pazienza e l’artigianalitá domano le superfici selvagge e incolte che si piegano al gesto ossessivo e perentorio della maglia, del legame che ci parla di una fragilità complessa per la sua semplicità.
…E tesse “trame di un canto”. Epica, calda, mediterranea.
Il lavoro della Guerinoni é di composizione e ricomposizione dell’Io con la natura, con la bios, con l’organicità dell’esistenza. In ogni lavoro è forte il richiamo a qualcosa di lontano che ci appartiene, qualcosa che si antepone a noi, un’ancestralitá ereditaria. Un odore forte.
Come i processi di mitosi e meiosi, il cellularismo intrinseco alle opere dell’artista ci apre ad un respiro forte e deciso di ritmo vitale.
La caducità dei legami e della memoria diventano una lode alla fragilità dell’esistenza, della materia che si attacca nei pensieri e sotto le suole delle scarpe esattamente come fa la vita.
Le creature marine, le sospensioni, le cellule, tutto riconduce ad un’organicità imprenscindibile, l’attenzione all’infitesimale e al microbiotico, viene celebrata in spazi altri, come quelli della galleria dove le opere si trovano a dialogare in una dimensione archetipica con gli spettatori.
E allora occorre ricongiungersi alla memoria e perdersi tra quelle trame silenziose. Tra le pagine di un libro d’artista, tra riduzioni di segno che portano all’assenza e delicate pieghe di stoffa.
Perché i tempi della memoria, sono come la Merini scriveva a proposito dell’amore per i colori:
“… tempi di un anelito inquieto, irresolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici “perché” del “nostro” respiro.

Federica Fiumelli










mercoledì 14 gennaio 2015

Paul Jenkins. The spectrum of light




WSI mag link: http://wsimag.com/it/arte/12726-paul-jenkins

Tra il turbinio delle lenzuola, scivolando i corpi danzano nel crepitio di un temporale, diluiti nell'atemporalitá i colori si infiammano, irraggiano e accadono nel perimetro di una canvas-body. Peripezie prismatiche nell'accadimento dell'azione e nell'accadere dello sguardo, sono le opere di Paul Jenkins.

Qualcuno diceva, probabilmente Magritte: "se si è sensibili, bisogna provare vertigini e angoscia". Avvicinandosi all'impero imponente e visivo di Jenkins, posso garantire che se intendiamo la sensibilità come una rilevazione di una percezione, esteticamente e filosoficamente parlando, allora sì, la fantasmagorica vertiginosa angoscia del colore si accanisce nella sospensione retinica.

The spectrum of light è il titolo della retrospettiva di lavori su tela e carta che la città di Prato ha dedicato al grande artista, svoltasi tra due sedi, la Galleria Open Art e il Museo di Pittura Murale in San Domenico dagli spazi suggestivi come il Salone delle Capriate mai presentato dopo il recente restauro. Se gli spazi della galleria hanno accolto le opere di più recente produzione, il Museo di San Domenico ha offerto dal punto di vista dell'allestimento un interessante e proficuo dialogo tra i lavori degli anni '60, '70, '80 dell'artista americano, con ad esempio le sinopie di Paolo Uccello.

Emerge l'eleganza della linea, che diviene "un sempre nel mai". Una linea che da contorno, si slega e si crepa attraverso i secoli per ristabilire i propri confini dell'essere. Una linea che non vuole più marcare, delimitare o contenere, ma al contrario una linea soggetto che diviene puro colore, una protagonista che esplode a ogni gesto. Una linea che si denuda per divenire altro.

Quella linea orientale che Jenkins tanto ammirava come nel caso dell'artista giapponese Hokusai, a tal proposito lo stesso affermava: "Essa aveva un significato autonomo e ha creato una sua forma significativa." e ancora a proposito delle ébauches di Gustave Moreau: "esperienze soggettive in pittura con enfasi sulla pittura." Se ci si vuole immergere, calare, nei mondi immaginari di Jenkins occorre dare corpo a quell'enfasi, occorre essere pronti a respirare, ( a pieni occhi) la pittura come Eros disciolto, freudianamente fantasticando.

E' necessario sottolineare anche l'influsso di un certo contesto culturale e la conoscenza e il legame con artisti quali, Mark Rothko, Jackson Pollock e Barnett Newman. Citando Renato Barilli, nell'introduzione all'informale, si può parlare di "arte concreta", "volta cioè a proporre elementi plastici e cromatici autonomi, che però sono figure anch'essi, anche se prive di un riferimento più o meno fedele al mondo esterno."

La stagione dell'informale o espressionismo astratto (se vogliamo usare la terminologia per gli accadimenti americani) è da sempre stata affiancata inevitabilmente alla seconda guerra mondiale che significò il crollo generale di fiducia verso il progresso tecnologico. Nell'ambito del pensiero Sartre rilesse Husserl padre della fenomenologia, e assieme al "fratello minore" Merleau-Ponty posero l'accento sulla presenza di una sfera primaria, fluida, dominata dalla logica del campo percettivo, sessuale, affettivo, uno spazio organico, uno spazio vissuto. Non è un caso se dal '59 fino alla fine della sua attività artistica, Jenkins inserì in tutti i titoli delle sue opere la parola "Phenomena".

Non esiste più un centro unico, il centro è dappertutto. Come sottolinea Barilli, "siamo molto vicini a una forma omologa dello spazio per scorso dalle onde elettromagnetiche; queste di regola hanno una sorgente, ma una volta ripartite, si diffondono ovunque, rimbalzano, si infrangono, si compenetrano."

E cosa sono i colori se non questo, onde elettromagnetiche, nei lavori di Jenkins? Bios fluido mai uguale a se stesso, concreto e autonomo nel suo esistere. Quei colori che sono "patimenti di luce" come afferma l'artista. Goethe e Kant mentori del creatore americano, guardano attraverso il prisma di Newton. La rifrazione, l'incertezza, la moltitudine, "lo spettro è visibile sono lì" come afferma nel catalogo Beatrice Buscaroli. E ancora "Fenomeni, manifestazioni, non delle cose o della luce che le investe come richiederebbe il programma dell'Impressionismo che l'artista vede come una illustrazione di un evento nella natura, ma piuttosto emergono dall'atto della loro creazione ad opera dell'artista stesso."

Di fondamentale importanza per comprendere la poetica Jenkinsiana è il modus operandi con il quale l'artista produceva i propri lavori. Una vera danza. Una coreografia come descritto da Bosquet: "l'intervento esterno era di due tipi: l'uno il più originale, consisteva nel versare i colori nel cavo del foglio o della tela preparata dopo averla curvata. Poi, dondolata, spostata, ripiegata leggermente o spiegata, essa stessa obbligava i colori a concentrarsi, a stendersi, a trovare il loro letto e perciò la loro forma. L'altro intervento è meno rivoluzionario, benché indispensabile alla comprensione dell'opera di Jenkins. Si riferisce alla direzione che egli dà ai suoi colori e alle sue masse, attraverso uno strumento, una bacchetta che fa le veci di un pennello, o un coltello d'Avorio, il cui ruolo è quello di correggere la parte - certo considerevole - del caso in questa danza."

Mi è impossibile non pensare a Loie Fuller, danzatrice e attrice americana, che pur non avendo mai studiato danza, insieme alla Duncan e St. Denis fu una delle pioniere del balletto moderno statunitense. La Fuller attraverso il movimento di lunghi drappi che altro non erano che estensioni corporali e l'uso performativo di luci, creava danze vorticose, risucchiando lo sguardo in un inafferrabile accadere. Quell'accadere inafferabile che attraverso gli smalti e acrilici su tela trova percorso sulle superfici eteree e fluttuanti di Jenkins.

Si tratta per me di un essere "profondamente superficiale". Un binomio contrastante che diventa emblema di una poetica sublimata nel puro esistere. Una poetica che si snocciola su tele di grandi dimensioni per la maggior parte, la retrospettiva ci conduce ad ammirare il colore come un organismo a sé stante, che si sviluppa e si avviluppa dinanzi a noi, attraverso il tempo. Il tempo diviene coscienza attraverso la metamorfosi del colore. E' palpabile notare come siano diversi i primi lavori dagli ultimi. Jenkins sembra con lo scorrere degli anni trovare una razionalizzazione della pennellata, che si fa più quadrata o dalla larga e invasiva campitura. Abbandona, o meglio matura, le filamenta intrepide e caotiche, a schizzo esuberanti degli anni cinquanta e sessanta.

Quindi, filamenti organici, polifonici e talvolta fragili, talvolta più ingombranti e ampi, altisonanti e lunatici, porzioni di colore o compatte o trasparenti come velari. Colate, compenetrazioni che divengono metafore, quasi radiografie dell'atto sessuale che corona la fusione di due corpi. In ogni caso è un'esplosione all'origine, poi calibrata e direzionata da un corpo mosso da profonda cura. Una cura che diviene attenzione mentale, il caso viene accompagnato da una volontà.

Come in Zabriskie Point, capolavoro Antonioniano, durante la scena finale, i Pink Floyd musicano il big ben tra le cose, Jenkins segna e orchestra l'inizio del caos tra i pensieri. Noumeni cromatici. Prendo in prestito con la stessa cura Jenkinsiana le parole di Alda Merini per concludere così: "Amo i colori, tempi di un anelito inquieto, irrisolvibile, vitale spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici 'perché' del mio respiro."

Federica Fiumelli











lunedì 5 gennaio 2015

Ipotesi di struggente bellezza



link on WSI MAG: http://wsimag.com/it/arte/12618-ipotesi-di-struggente-bellezza





Piuma e tabasco

«All’inizio è stupore, ed è stupore alla fine, eppure questa è una via non inutile. Se io contemplo con stupore del muschio, un cristallo un fiore, uno scarabeo dorato, o un cielo nuvoloso, un mare nei calmi, giganteschi respiri delle sue risacche, un'ala di farfalla nelle sue nervature cristalline, il taglio e le guarniture colorate dei suoi orli, la complessa scrittura e ornamentazione del suo disegno, e le innumerevoli, dolci, magicamente soffuse gamme e sfumature dei colori, ogni qualvolta, con gli occhi o con un altro senso, ho esperienza di una parte della natura, ne sono attratto e affascinato, e per un istante mi apro alla sua esistenza e alla sua rivelazione, e allora, in quel medesimo istante, io ho dimenticato l'intero avido cieco mondo della necessità umana, e invece di pensare a dare ordini, invece di acquistare o sfruttare, di combattere o di organizzare, per un istante io non faccio altro che "stupire" e sono entrato nel mondo dell'unità, dove una cosa dice all'altra, una creatura dice all'altra: tat twan asi (questo sei tu)».
Mi sono servita di queste dense parole di Herman Hesse estratte da La natura ci parla per introdurre il lavoro di grande bellezza che mette in atto l'artista Virginia Zanetti. A volte capita di farsi proprie parole che fluttuano nello spazio tempo dell'eternità, assunti che diventano fibre di un proprio organico pensare, nel mio personale caso, adatto sovente un lampo di Dostoevskij: «la bellezza salverà il mondo».
Breve, conciso, un proiettile intriso di immensità.

Non si tratta più di edonismo ma di politica.
Si tratta di entrare attivamente nel bios.
Hillman non a caso scrisse un libro dal titolo Politica della bellezza, nel quale egli si interroga sul perché la bellezza come valore sia stata eliminata, non soltanto nella sfera quotidiana ma persino nell'arte. Molta arte contemporanea più che introdurre ha fondato uno dei propri credo sul concetto di bruttezza, sottolineando la funzione della sublimazione artistica, ovvero il passaggio dal mostruoso al mostrabile. Ritornando a Hillman, anche Dallari lo cita nel libro Dimensione estetica della paideia sottolineando l'importanza del riconoscere il bello di Venere, il bello afroditico, il bello come sentimento e come vissuto. Bellezza non come tassonomia e filologia ma come fenomenologia ed estetica. Come respiro e sudore, voce e ambiente.
Virginia Zanetti attraverso i lavori che hanno conquistato in me più di una porzione di cuore, Vissi d'Arte e l’ultima ricerca, inedita, se non per ciò che trapela dagli Studi diffusi per la città di Prato, agisce come una perfetta poeta fenomenologa. Fa letteralmente accadere la poesia, le dona tempo vissuto. La fenomenologia pone il suo statuto su un concetto fondamentale: non c'è conoscenza senza relazione. Citando un altro illustre pensatore, Antonio di Benedetto nel suo Prima della parola, l'ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte afferma: «L’opera d'arte è stimolo di conoscenza tramite la bellezza. Facendo leva su un indubbio premio di seduzione evoca emozioni e fantasie inconsce, attiva funzioni cognitive radicate nelle aree più oscure della nostra esperienza sensoriale».
La poetica della Zanetti è un continuo riflettere sullo spazio, l'opera, il fruitore, senza confini.

Dove finisce uno, comincia l'altro. Sempre che si finisca mai qualcosa.
L'artista invitata dal direttore del Pecci Fabio Cavallucci, si prepara alla Biennale di Monza provando con alcuni musicisti in mezzo al fiume Bisenzio. L’artista usa il fiume come uno studio a cielo aperto per una performance che può metaforicamente funzionare alla stregua di un organo disseminato. Un'azione che indaga l'anatomia del quotidiano.
Evoluzione del precedente progetto Vissi d’arte realizzato in occasione della mostra 8+1 presso gli spazi Lato e BBS a cura di Matteo Innocenti, poi sviluppato per la manifestazione Prato/Sarajevo, curata dal CAC Luigi Pecci- Dryphoto-Kinkaleri, il processo si attiva seguendo, a detta dell’artista, la trasformazione tramite la bellezza, con la volontà di sottolineare che Prato, nonostante la crisi e l’apparente immobilità, si pone in Italia come una città ricca di potenzialità. Vissi d'arte, che oltre ad essere una riflessione sul concetto di bellezza è sicuramente un interrogativo sul senso del vivere d'arte al giorno d'oggi. Pensiero più utopico che compreso. Tratta dalla celebre Tosca di Puccini, l'artista sdogana finalmente l'opera dal suo elitarismo e la rende gitana, instabile e vagante. Una soprano ha cantato finalmente nel teatro più democratico del mondo, la strada, la voce ha invaso zone industriali, stazioni, aree dimesse, zone dove lo sguardo di struggente bellezza non sembrava non riuscire a volgersi.
Estraneamento. Di indubbia bellezza le reazioni dei passanti. Spiazzati, confusi, sorpresi. Stupiti.Vissi d'arte allora diventa la traduzione di tat twan asi. Diventa impossibile esimersi da cotanta vertigine. Perché di questo si tratta. Non si è preparati a udire una soprano in stazione, tra ritardi e cancellazioni, scioperi e gente sempre di fretta. Non ce lo si aspetta, e questo forse ci obbliga a fermarci ad ascoltare. Finalmente ascoltare. Per conoscere. Per comprendere. Per prendere dentro di sé. Non dobbiamo che accogliere o cercare di raccogliere quanto meno questo dono che l'artista sceglie di farci. Un fiore raro, di cristallo, un corpo-voce che risuona nello spazio pubblico roso da una sopita abitudine, una routine agghiacciata e agghiacciante. Un canto che diviene preghiera, ricordando la protagonista Tosca e il suo rivolgersi a Dio, in nome del riscatto del proprio amore, imprigionato per motivi di politica e di gelosia che arrivò a costarle la prostituzione.
Oiseau Rebelle, performance a cui la Zanetti sta lavorando, per presentarne il primo studio alla Biennale Giovani di Monza che ha come tema l’energia, vede nuovamente la collaborazione tra l'opera e l'uscita di sé con l'ambiente del Bisenzio, zona di microcriminalità spesso frequentato da tossici, prostitute e senza fissa dimora. Il brutto dialoga con il bello, ne viene sedotto e viceversa. Musicisti e cantanti sono quindi immersi nello scorrere dell'acqua in nome della Carmen di Bizet. Niente palchi, strutture, niente artifizi, solo natura, sassi, terra, buste di plastica incastrate tra i rami e il sottofondo dell'infrangersi del fiume con la voce e i suoni. E' quella volontà tanto voluta dalle Avanguardie di mescolare la vita e l'arte alla vita.
Non è un evento originale ma originario. Attenzione. L'arte non vuole essere originale quanto un atto originario. Da questo Studio Diffuso visto in anteprima, quasi per caso, senza annunci o appuntamenti, nascono sensazioni, immaginari, lontani, che scorrono, non annegano, seppur nella loro precarietà. Poesia armata in azione.

Quella precarietà che oggi ha sostituito l'eterno qui sembra non contrapporsi, ma anzi la crisi tenta una via di struggente bellezza. Precario ed eterno dialogano a cuore aperto, perché di anatomia urbana si sta appunto parlando. L'esecuzione della Carmen è caduca come un contratto a tempo indeterminato, non ha dimora, e il suo risuonare è stata la meraviglia di alcuni fortunati passanti. Il tempo scorre come le acque del fiume in un continuo mutare, un fluire inarrestabile, ma la bellezza rimane eternamente precaria, nell'esperienza comune della vita. L'artista si avvale di un'estetica dicotomica, i musicisti liberi di suonare con la parte superiore del corpo si ritrovano con le gambe immobili nel flusso "creativo" del fiume. Ne possono essere continuamente travolti ma allo stesso tempo non possono esimersi dall'esservici immersi. Odi et amo. Il confine tra dolore e piacere, stasi e fissità è labile. La performance diviene metafora contrastante di un sentire sopraffine e di una condizione reale.

Piuma e tabasco. Per me, questa è l'immagine e il sapore di questa intrepida unione, di Vissi d'Arte e di Oiseau Rebelle, due prove di romanticismo, perché sopratutto oggi dove il cinismo e l'ostilità dilagano, per me romanticismo e coraggio sono la medesima voce.


Federica Fiumelli