Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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sabato 1 agosto 2015

Virginia Zanetti. Poggiare i piedi dentro l'anima

link: http://wsimag.com/it/arte/16495-virginia-zanetti







La costante trasformazione della materia e l'instabilità della realtà. Due assunti in punta di piedi. Qualche anno fa ebbi modi di vedere alla CCC Strozzina Dead sea un video dell'artista israeliana Sigalit Landau. Il corpo dell'artista si trovava inserito in una spirale di angurie, anch'esse immerse nelle acque saline del Mar Morto. A mano a mano che la forma spiroidale si srotolava si percepiva chiaramente come tutto fosse strettamente collegato e mobile. Comprendiamo così che in un fluire costante ci troviamo a relazionarci oltre il concetto di limite e confine. L'artista stessa dichiarò: "Un confine è soprattutto e in primo luogo una parola che può essere utilizzata secondo diverse accezioni, in riferimento alla soglia del dolore, al confine dell’essenza, al limite di un disastro, al discrimine tra sanità e pazzia. (…) In un certo senso, i confini sono la pelle dei luoghi e anche una sorta di scorza per la maggior parte delle idee. I confini sono le nostre definizioni. E sono troppo sottili. Non c’è niente da controllare, perché non vediamo mai l’altro lato del confine correttamente".
Quest'opera ben rimanda all'ultimo lavoro dell'artista Virginia Zanetti, che da sempre lavora sul tema della relazione e dell'alterità. Lo scorso 4 giugno alla Galleria Dino Morra Arte Contemporanea ha preso vita la performance dal titolo Poggiare i piedi dentro l'anima/Studio quarto per l'estasi nel paesaggio a cura di Marianna Agliottone. Studio per l'estasi nel paesaggio è una ricerca che l'artista toscana sta portando avanti dal 2013, per sperimentare la fusione col tutto attraverso l'espansione del sé e la negazione del piccolo io. Si tratta di un ciclo di lavori performativi che interessano sia il paesaggio che il pubblico.
Quella della Zanetti è un'estetica estatica, dell'abbandono, un'estetica dell'origine. Dal greco antico èk-stasis, ovvero "stare fuori di sé", occorre uscire dai propri confini per incontrare l'altro da me. L'artista parte da un assunto buddhista fondamentale, quello dell’“origine dipendente", il quale insegna che tutta la vita è in costante relazione reciproca: Niente esiste isolato e indipendente dalle alte forme di vita. Un termine giapponese, Engi,riconferma questo pensiero, significa letteralmente "apparire in relazione", nessun essere o fenomeno esiste di per sé, ma solo in relazione ad altri esseri o fenomeni: ogni cosa del mondo viene alla luce in risposta a determinate cause e condizioni. Vale la pena citare qui parte di un motto che apre il Manuale di psicodramma - Teatro come terapia di Moreno, e che sottolinea l’importanza dell'incontro con l'altro da noi.
E quando sarai vicino io coglierò i tuo occhi

per metterli al posto dei miei,
e tu coglierai i miei occhi
per metterli al posto dei tuoi,
poi io ti guarderò coi tuoi occhi
e tu mi guarderai coi miei.

Così persino la cosa comune impone il silenzio e

il nostro incontro rimane la meta della libertà:
il luogo indefinito, in un tempo indefinito,
la parola indefinita per l'uomo indefinito.

Lo spazio e il tempo di una performance che porta in sé come seme genetico proprio l'indefinitezza. InPoggiare i piedi dentro l'anima, pensata appositamente per gli spazi dell'ex Lanificio di Porta Capuana a Napoli, ogni singola presenza veniva invitata a sperimentare il contatto globale, uditivo, cinetico, fisico, energetico e percettivo con ciò che le stava intorno. Un'azione dove ci si incontrava/scontrava con la superficie dell'altro, in un ascolto reciproco, abbandonandosi all'ignoto, all'indefinito, all'incerto, poggiando i piedi sulla materia fino a scivolare dentro l'anima. I blocchi di argilla utilizzati saranno i fossili del domani, imprimeranno su di sé per sempre l'essenza dell'assenza, la traccia di una presenza, di un passaggio, tra corpo e corpo, in un dialogo silenzioso sulle origini. Un'archeologia dell'abbandono. Come Nietzsche scriveva in Così parlò Zarathustra: "Ascoltate, fratelli, la voce del corpo. Esso parla del senso della terra".
Espansione e dissoluzione. Attraverso un corpo che si fa transfert l'artista sperimenta sia la dimensione estetica che quella estatica. È questione di entrare fuori, uscire dentro. Una frase ad alto tasso dicotomico che porto con me in occasione di situazioni precarie e totalizzanti. Fragili e incontrollabili. Come scrivevo all'inizio è una questione di soglie. Carlo Sini, filosofo italiano nel 1993 disse: "Nella soglia abbiamo un di qua e un di là; e di là non siamo più gli stessi che eravamo di qua. Anche il più semplice gesto che afferra un oggetto varca una soglia". Nel gesto dell'artista verso il corpo, l'altro, la materia e l'origine, verso il tutto, si celebra la differenza. La differenza dell'ex-sistere, dell'uscire fuori. Si sfiora una vita, come una superficie vetrata, e niente è più come prima, il nostro passaggio porta il segno della differenza.
Occorre inoltre sottolineare che come Merleau-Ponty affermava: "Io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio, sono il mio corpo". Tutti abbiamo un corpo, ma difficilmente ognuno di noi è consapevole e cosciente di essere corpo. È il corpo che ci apre al mondo in un movimento di esistenza verso l'altro. Seguendo l'esistenzialismo heideggeriano, l'Esserci – Dasein, è chiaro che noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, un corpo-Leib, un corpo esistenza. Il soggetto umano in quantoDa-sein è sempre là (Da) nel mondo, dove si determina la situazione, che può essere trascesa attraverso il pro-getto (gettato avanti). L'uomo e-siste, si caratterizza per la possibilità di ex-sistere, cioè "uscire-da", oltrepassare la situazione nella quale è gettato. E ciò che gli consente di trascendere la situazione è la possibilità. Il corpo è anche poter essere, ovvero poter essere "altrimenti" e "altrove" rispetto alla situazione data. L'esserci nel suo essere-nel-mondo impone un altro concetto fondamentale, * la cura*. Nella cura trovano fondamento i sentimenti, la tendenza, l’impulso, il desiderio.
Binswanger studiò il concetto di cura indicando: "Un superamento della singolarità/solitudine del soggetto verso una dimensione duale/relazionale". La cura di sé non è separabile dalla cura degli altri ed è l'elemento che trasforma l'essere-l'uno-accanto-all'altro (nella vicinanza fisica dei corpi) in un essere-assieme nell'incontro, rendendo possibile la relazione tra i soggetti. L'estetica della Zanetti è anche un'estetica della cura e del coito, dove la fusione con l'altro, sia esso elemento umano o di paesaggio, trova nella totalità, una liberazione che mina l'eutanasia culturale che sta dilagando nella cronaca di oggi, nelle scelte politiche alienizzanti. Una politica che sempre di più accoglie le barbarie dell’indifferenza e dell’incuranza.
Poggiare i piedi dentro l'anima non è più utopia, ma possibilità. È ancoraggio e slancio. Una possibilità che l'artista ci dona, per abbandonarci a un ascolto con la totalità. Solo comprendendo, solo tenendo dentro di noi l'altro come origine, urgenza e necessità potremmo scavare in punta di piedi una traccia su questa terra. In perpetua oscillazione, entrando fuori, uscendo dentro.
Federica Fiumelli

























lunedì 5 gennaio 2015

Ipotesi di struggente bellezza



link on WSI MAG: http://wsimag.com/it/arte/12618-ipotesi-di-struggente-bellezza





Piuma e tabasco

«All’inizio è stupore, ed è stupore alla fine, eppure questa è una via non inutile. Se io contemplo con stupore del muschio, un cristallo un fiore, uno scarabeo dorato, o un cielo nuvoloso, un mare nei calmi, giganteschi respiri delle sue risacche, un'ala di farfalla nelle sue nervature cristalline, il taglio e le guarniture colorate dei suoi orli, la complessa scrittura e ornamentazione del suo disegno, e le innumerevoli, dolci, magicamente soffuse gamme e sfumature dei colori, ogni qualvolta, con gli occhi o con un altro senso, ho esperienza di una parte della natura, ne sono attratto e affascinato, e per un istante mi apro alla sua esistenza e alla sua rivelazione, e allora, in quel medesimo istante, io ho dimenticato l'intero avido cieco mondo della necessità umana, e invece di pensare a dare ordini, invece di acquistare o sfruttare, di combattere o di organizzare, per un istante io non faccio altro che "stupire" e sono entrato nel mondo dell'unità, dove una cosa dice all'altra, una creatura dice all'altra: tat twan asi (questo sei tu)».
Mi sono servita di queste dense parole di Herman Hesse estratte da La natura ci parla per introdurre il lavoro di grande bellezza che mette in atto l'artista Virginia Zanetti. A volte capita di farsi proprie parole che fluttuano nello spazio tempo dell'eternità, assunti che diventano fibre di un proprio organico pensare, nel mio personale caso, adatto sovente un lampo di Dostoevskij: «la bellezza salverà il mondo».
Breve, conciso, un proiettile intriso di immensità.

Non si tratta più di edonismo ma di politica.
Si tratta di entrare attivamente nel bios.
Hillman non a caso scrisse un libro dal titolo Politica della bellezza, nel quale egli si interroga sul perché la bellezza come valore sia stata eliminata, non soltanto nella sfera quotidiana ma persino nell'arte. Molta arte contemporanea più che introdurre ha fondato uno dei propri credo sul concetto di bruttezza, sottolineando la funzione della sublimazione artistica, ovvero il passaggio dal mostruoso al mostrabile. Ritornando a Hillman, anche Dallari lo cita nel libro Dimensione estetica della paideia sottolineando l'importanza del riconoscere il bello di Venere, il bello afroditico, il bello come sentimento e come vissuto. Bellezza non come tassonomia e filologia ma come fenomenologia ed estetica. Come respiro e sudore, voce e ambiente.
Virginia Zanetti attraverso i lavori che hanno conquistato in me più di una porzione di cuore, Vissi d'Arte e l’ultima ricerca, inedita, se non per ciò che trapela dagli Studi diffusi per la città di Prato, agisce come una perfetta poeta fenomenologa. Fa letteralmente accadere la poesia, le dona tempo vissuto. La fenomenologia pone il suo statuto su un concetto fondamentale: non c'è conoscenza senza relazione. Citando un altro illustre pensatore, Antonio di Benedetto nel suo Prima della parola, l'ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte afferma: «L’opera d'arte è stimolo di conoscenza tramite la bellezza. Facendo leva su un indubbio premio di seduzione evoca emozioni e fantasie inconsce, attiva funzioni cognitive radicate nelle aree più oscure della nostra esperienza sensoriale».
La poetica della Zanetti è un continuo riflettere sullo spazio, l'opera, il fruitore, senza confini.

Dove finisce uno, comincia l'altro. Sempre che si finisca mai qualcosa.
L'artista invitata dal direttore del Pecci Fabio Cavallucci, si prepara alla Biennale di Monza provando con alcuni musicisti in mezzo al fiume Bisenzio. L’artista usa il fiume come uno studio a cielo aperto per una performance che può metaforicamente funzionare alla stregua di un organo disseminato. Un'azione che indaga l'anatomia del quotidiano.
Evoluzione del precedente progetto Vissi d’arte realizzato in occasione della mostra 8+1 presso gli spazi Lato e BBS a cura di Matteo Innocenti, poi sviluppato per la manifestazione Prato/Sarajevo, curata dal CAC Luigi Pecci- Dryphoto-Kinkaleri, il processo si attiva seguendo, a detta dell’artista, la trasformazione tramite la bellezza, con la volontà di sottolineare che Prato, nonostante la crisi e l’apparente immobilità, si pone in Italia come una città ricca di potenzialità. Vissi d'arte, che oltre ad essere una riflessione sul concetto di bellezza è sicuramente un interrogativo sul senso del vivere d'arte al giorno d'oggi. Pensiero più utopico che compreso. Tratta dalla celebre Tosca di Puccini, l'artista sdogana finalmente l'opera dal suo elitarismo e la rende gitana, instabile e vagante. Una soprano ha cantato finalmente nel teatro più democratico del mondo, la strada, la voce ha invaso zone industriali, stazioni, aree dimesse, zone dove lo sguardo di struggente bellezza non sembrava non riuscire a volgersi.
Estraneamento. Di indubbia bellezza le reazioni dei passanti. Spiazzati, confusi, sorpresi. Stupiti.Vissi d'arte allora diventa la traduzione di tat twan asi. Diventa impossibile esimersi da cotanta vertigine. Perché di questo si tratta. Non si è preparati a udire una soprano in stazione, tra ritardi e cancellazioni, scioperi e gente sempre di fretta. Non ce lo si aspetta, e questo forse ci obbliga a fermarci ad ascoltare. Finalmente ascoltare. Per conoscere. Per comprendere. Per prendere dentro di sé. Non dobbiamo che accogliere o cercare di raccogliere quanto meno questo dono che l'artista sceglie di farci. Un fiore raro, di cristallo, un corpo-voce che risuona nello spazio pubblico roso da una sopita abitudine, una routine agghiacciata e agghiacciante. Un canto che diviene preghiera, ricordando la protagonista Tosca e il suo rivolgersi a Dio, in nome del riscatto del proprio amore, imprigionato per motivi di politica e di gelosia che arrivò a costarle la prostituzione.
Oiseau Rebelle, performance a cui la Zanetti sta lavorando, per presentarne il primo studio alla Biennale Giovani di Monza che ha come tema l’energia, vede nuovamente la collaborazione tra l'opera e l'uscita di sé con l'ambiente del Bisenzio, zona di microcriminalità spesso frequentato da tossici, prostitute e senza fissa dimora. Il brutto dialoga con il bello, ne viene sedotto e viceversa. Musicisti e cantanti sono quindi immersi nello scorrere dell'acqua in nome della Carmen di Bizet. Niente palchi, strutture, niente artifizi, solo natura, sassi, terra, buste di plastica incastrate tra i rami e il sottofondo dell'infrangersi del fiume con la voce e i suoni. E' quella volontà tanto voluta dalle Avanguardie di mescolare la vita e l'arte alla vita.
Non è un evento originale ma originario. Attenzione. L'arte non vuole essere originale quanto un atto originario. Da questo Studio Diffuso visto in anteprima, quasi per caso, senza annunci o appuntamenti, nascono sensazioni, immaginari, lontani, che scorrono, non annegano, seppur nella loro precarietà. Poesia armata in azione.

Quella precarietà che oggi ha sostituito l'eterno qui sembra non contrapporsi, ma anzi la crisi tenta una via di struggente bellezza. Precario ed eterno dialogano a cuore aperto, perché di anatomia urbana si sta appunto parlando. L'esecuzione della Carmen è caduca come un contratto a tempo indeterminato, non ha dimora, e il suo risuonare è stata la meraviglia di alcuni fortunati passanti. Il tempo scorre come le acque del fiume in un continuo mutare, un fluire inarrestabile, ma la bellezza rimane eternamente precaria, nell'esperienza comune della vita. L'artista si avvale di un'estetica dicotomica, i musicisti liberi di suonare con la parte superiore del corpo si ritrovano con le gambe immobili nel flusso "creativo" del fiume. Ne possono essere continuamente travolti ma allo stesso tempo non possono esimersi dall'esservici immersi. Odi et amo. Il confine tra dolore e piacere, stasi e fissità è labile. La performance diviene metafora contrastante di un sentire sopraffine e di una condizione reale.

Piuma e tabasco. Per me, questa è l'immagine e il sapore di questa intrepida unione, di Vissi d'Arte e di Oiseau Rebelle, due prove di romanticismo, perché sopratutto oggi dove il cinismo e l'ostilità dilagano, per me romanticismo e coraggio sono la medesima voce.


Federica Fiumelli