Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 16 giugno 2015

Un giorno questo dolore ti sarà utile. Senza opporre resistenza



link: http://wsimag.com/it/arte/15856-un-giorno-questo-dolore-ti-sara-utile






Semplicemente bisogna abbandonarcisi al dolore, bisogna forse soltanto lasciarsi cadere all'indietro a braccia aperte come quando lo si fa con qualcuno di cui ci si fida. Non bisogna porre resistenza, occorre accettare e abbracciare. Sì. Facile. Come no.

C'è però qualcosa di estremamente raffinato nel dolore, porta con sé un fascino dimenticato, come una silhouette intagliata nel ghiaccio, o nella nebbia. Algidità ed evanescenza. Ma cosa ne farò di questo dolore in tasca? Mi rimangono solo le parole come granelli di sabbia in una clessidra presuntuosa, le parole però resistono anche oltre il tempo. E’ per questo che decido di dare forma a questa "cosa". Spezzata, derubata, sfiancata, squarciata a metà, una parte sembra persa per sempre. Una nudità forzata. Quanta arroganza allora si insedia tra le pieghe del dolore.

Il titolo di un famoso libro recita così: Un giorno questo dolore ti sarà utile. Geniale. Certo. Ma oggi? Oggi, qui è ora, quando il mio respiro è corto, il mio cuore spezzato e il mio sguardo un deposito di lacrime? Come me lo racconto oggi, che tutto questo nel futuro mi sarà persino utile? Troppe domande. Devo tornare alle origini, e occorre abbandonarsi. Bisogna conviverci con questo bastardo. Mi sia concesso il commento sprezzante. Una cicatrice in più. Una delle tante. Il peggior collezionismo. O forse il migliore, quello più altruista. Perché se ci si fa male, se si cade, beh vuol dire che senz'altro almeno un tentativo di credere in qualcosa esterno da noi c'era.

Ma adesso non c'è più. C'è solo questo specchio di dolore a fare compagnia, come in un bar alla Hopper, dove la solitudine sa di brandy e nostalgia. Che poi io neanche lo bevo il brandy. Ma nell'abbandono c'è un conforto. C'è qualcosa di altro. Allora ho camminato tra le pagine di Tondelli, diamine, che diavolo di penna. Tondelli sapeva trovarci le parole, dritte, puntuali, terribilmente sincere, crude, nude, vere. Maledettamente sporche di bellezza. Così sono finita sulla prima pagina di Autobahn da Altri Libertini. Quelle frasi, messe in fila una dopo l'altra come ombre, sembravano state scritte per questo dolore. "Lacrime lacrime non ce n'è mai abbastanza quando vien su la scoglionatura, inutile dire cuore mio spaccati a mezzo come un uovo e manda via il vischioso male, quando ti prende lei la bestia non c'è da fare proprio nulla solo stare ad aspettare un giorno appresso all'altro. E quando viene comincia ad attaccarti la bassa pancia, quindi sale su allo stomaco e lo agita in tremolio di frullatore e dopo diventa ansia che è come un sospiro trattenuto che dice vengo su e poi non viene mai".

Accidenti. Ho pensato. Mi tremavano le gambe. Quelle parole erano piombate all'appuntamento con i miei pensieri. Hanno rotto quel silenzio. Come quando Parmiggiani creò una delle opere più belle, per me. Il labirinto dei vetri infranti. Come le parti di me che si erano lacerate. Un dedalo di lastre di vetro, grandi e spesse, frantumate dall'artista con un grande martello. Grandiosa bellezza e impossibilità. Qualcuno ha definito quel lavoro come una negazione di praticabilità. Iconoclastia ed esplosione. Torna il senso di vertigine e mi sento come dentro l'ouverture, le Ebridi di Felix Mendelssohn, questo dolore era diventato un'isola dell'iperrealismo. Tutto più reale del reale.

Un crescendo. Un tormento. O intorpidimento? Quando uno si avvolge nel proprio dolore forse a causa di un troppo sentire, finisce con il sentire sempre meno. E allora c'è uno sparo. Il 19 Novembre del 1971 l'artista Chris Burden in Shoot, una delle azioni più celebri della storia dell'arte d'avanguardia, si fece sparare sul braccio sinistro da un amico. Scomparso da poco tempo, all'età di 69 anni dopo una lunga malattia, è stato uno dei massimi rappresentati della body art più estrema. Questa per me è un'altra di quelle opere faro, perché con quello sparo, Burden mi aprì molte domande. Quello sparo fu a detta dell'artista "un modo per controllate il destino". Una dichiarata critica a quello che stava succedendo in Vietnam. Tramite il corpo dell'artista, ci si interrogava sul perché di tanta crudeltà.

E a proposito di crudeltà umane e barbarie, in Disumane Lettere Carla Benedetti cita Steiner che in un saggio del 1967 scrisse: "Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera e il mattino dopo recarsi al proprio lavoro a Auschwitz. Dire che egli ha letto questi autori senza comprenderli o che il suo orecchio è rozzo, è un discorso banale e ipocrita [...] gli strumenti tradizionali della civiltà - le università, le arti, il mondo librario - non sono riusciti a opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spezzo anzi essi si levarono ad accoglierla, a celebrarla e a difenderla. Perché? Quali sono i legami, per ora assai poco compresi, tra gli schemi mentali e psicologici della cultura superiore e le tentazioni del disumano? Matura forse nella civiltà letterata un gran senso di noia e di sazietà che la predispongono allo sfogo delle barbarie?". E ancora la Benedetti riassume: "Come è possibile che la grande circolazione di opere d'arte e di pensiero che si dà nella nostra epoca, molto superiore a quella di epoche precedenti, possa coesistere con un tale aumento di barbarie? Questo è sicuramente un aspetto del "grande dolore".

Sempre nello stesso libro si parla di un altro illustre scrittore, Gadda, e la Cognizione del dolore, dove tutto accade in un intreccio, tutto è colmo, persino il silenzio e la luce. "Il crepitio infinito della terra". Gadda che come scrive la Benedetti "ha una percezione del mondo che non separa ciò che profondamente è unito: un tutto che in realtà è un inseparato, che tiene esplosivamente assieme ciò che non riusciamo a dominare dentro alla concatenazione della storia". "Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore".

John Everett Millais, pittore preraffellita, dipinse tra il 1851-1852 uno dei quadri dove il rapimento e il dolore trovano un soppesato ritmo. E ciò si tramuta nel beffardo destino di Ofelia, portata via dall'amore, dal fato e dalla natura. Eroina shakesperiana, oggi mi sento esattamente come lei. E più la osservo in tutti i miei libri di storia dell'arte e più ne subisco il granitico fascino. Emblema del dolore estatico, quasi vicino a una sacrale rassegnazione, in procinto tra due mondi, tra la vita e la morte, l'esangue volto è un riflesso di rara bellezza. Ofelia non trapassa soltanto lo scorrere dell'acqua e del tempo ma anche l'immagine specchiante, lei emerge dall'irreale, dall'etereo, per l'ultima volta. E la natura serrata le fa da cornice quasi da gelosa custode, infittisce il verde tappeto per confonderla con la vita della flora. Ofelia viene ritratta qui con piena eleganza, dignità, e raffinatezza, che mai nessun dolore fu così spiritualmente agghindato.

Qui, dopo varie digressioni personalissime, alogiche e anacronistiche, cercando conforto in parole, gesti, materiali o pitture, rimango fedele a questa linea tracciata di dolore, ritrovo la pace, almeno per oggi. Così. Diamanti e ruggine.

Federica Fiumelli









domenica 7 giugno 2015

To Disconfirm. Contro l'unicità e l'indivisibilità della storia

link: http://wsimag.com/it/arte/15848-to-disconfirm 





Vuoi che proviamo a scrivere una storia?
Non domando di meglio! Ma quale?
Quale, in effetti?
(Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet)

Contro l'unicità e l'indivisibilità granitica della storia e dell'identità. Questa la volontà. Smentire, negare, ma soprattutto difendere la pluralità. La collettiva curata da Vincenzo Estremo alla gallleriapiù - Also Known as Oltredimore- di Bologna mette in evidenza i modi attraverso i quali l'arte visiva contemporanea smentisce, questiona, racconta le molteplici narrazioni della pluralità identitaria.

C'è la necessità di liberarsi dal peso monolitico delle istituzioni storiografiche. E gli artisti in mostra danno voce alla possibilità di convivenza tra ricerche differenti tra loro. La storia come l'identità e la geografia è frammentaria, non lineare, polifonica, pulviscolare, imprecisa, irregolare, instabile, da scoprire. Come in un caleidoscopio le figure mutano senza mai ripetersi. Un molteplicità di strutture. César Escudero Andaluz, apre l'esposizione con due lavori estremamente interessanti, Tapebook del 2015 e File_món del 2012. Nel primo, l'artista che solitamente studia il rapporto che intercorre tra utenti e interfacce, trasforma testi estrapolati da pagine Facebook dedicati a grandi pensatori e filosofi come Barthes, McLuhan, Foucault, Lacan, in tracce audio riportate su audiocassette, ciascuna avente per copertina la grafica del social prima menzionato. Viene così attivato un confronto tra analogico e digitale affascinante e su diverse dimensioni.

In File_món numerose immagini in bianco e nero tra le più comuni, molte delle quali hanno costellato l'immaginario comune, una storia universale, sono usate come sfondo del desktop di un computer, e alcuni elementi vengono sostituiti da collage di icone digitali. Da banali e asettici segni, le icone ritornano a fungere come elementi costitutivi della figurazione. Interessante la citazione di Georges - Didi Huberman nel sito dell'artista stesso: "The information offer us much, through the proliferation of images. We are inclined to believe nothing of what we see". La vecchia immagine fotografica in bianco e nero diventa una tela sulla quale si depositano come in alveari stratificazioni di icone, un patchwork plurisemantico, veri e propri nidi di senso (O non-senso?).

Matteo Guidi e Giuliana Racco con i lavori Representation, Between Camps e You only feel good wher You are si posizionano in un delicato limbo, perché è anche di limbi che ci parla questa mostra, tra antropologia culturale e arte. In Between Camps gli artisti hanno documentato un cammino di tre giorni compiuto da loro stessi lungo le rovine di un antico acquedotto romano che nell'antichità portava a Gerusalemme l'acqua che derivava dalle piscine di Solimano vicino a Betlemme. Fu costruito da antichi colonizzatori e oggi l'acquedotto collega due campi profughi attraversando terre non praticabili agli abitanti originari, viene pertanto utilizzato come cava di marmo dalla popolazione locale, ciò dimostra in maniera palese il sentimento di non appartenenza di questi ultimi. Appartenenza, appropriazione, memoria, confini, geografia, barriere culturali, questi, i temi esposti da duo Guidi-Racco. Quanto è labile e doloroso e precario l'orizzonte. Una linea evanescente e tagliente, un profilo sul quale l'uomo è costretto e attratto a percorrerlo. Una lontananza che solo la memoria forse può colmare. Come si evince nello scatto di Between Camps.

Intensi i lavori olio su tela e bomboletta spray di Massimo Ricciardo. In Expropriation ritrae dei luoghi squarcianti da un fucsia shocking che aggredisce lo sguardo. La città soggetto è Kashgar, città cinese della provincia autonoma dello Xinjiang, storico punto di scambio e incontro lungo la via della Seta, dove l'artista trascorse un periodo. Il centro storico ottomano venne abbattuto in seguito a un radicale riassetto come segno di sottomissione del popolo degli Uiguri, una piccola minoranza locale di etnia turcomanna con fede musulmana in opposizione al governo vigente. La distruzione e l'espropriazione sono rese manifeste dallo spruzzo arrogante e invasivo, quasi autoritario e demolitore dello spray fucsia. Avvicinandosi ai lavori si scorge quasi in opposizione una pastosità, matericitá densa e importante. In Permanent Vacation, installazione site-specific, tessuti tradizionali di un'etnia vengono confrontati con il tessuto del potere, l'immagine dell'accappatoio che Mao indossava in alcune fotografie ufficiali. La migrazione e lo scambio sono in movimento permanente, e questa è una condizione indissolubile della frammentarietà che caratterizza la vita, ancora prima della storia.

Time topographies trilogy, lavoro che "chiude" l'esposizione, opera video dell'artista Amanda Gutiérrez, è una trilogia video che dá voce ai luoghi, nessuna figura umana compare, solo tre sguardi su fette di pianeta si alternano calibrate, alcune voci fuori campo diverse per etnia, età e genere raccontano storie di migrazione e clandestinità, lasciandoci e facendoci riflettere sulla moltitudine della storia che trova vita nell'impalpabilità dei confini, nell'inutilmente indispensabile dell'arte e nel narrare in maniera plurima.

La storia, un distillato di rumori.

(Thomas Carlyle)

Federica Fiumelli













lunedì 25 maggio 2015

The Opening. Sanja Iveković e Franco Vaccari


link: http://wsimag.com/it/arte/15134-the-opening 







C'è un bellissimo disegno del 1492 di Leonardo Da Vinci che rappresenta in sezione il corpo di un uomo e di una donna durante un coito. Quello che ne deriva è di come i due corpi nel momento del contatto si trovino profondamente legati, gli organi assumono la forma di una mappatura stradale strettamente interconnessa. La locuzione latina Inter nos, tradotta letteralmente significa "fra di noi".

E Inter Nos è esattamente il titolo di una performance del 1978 dell'artista croata Sanja Iveković esposta insieme a Franco Vaccari nella mostra The Opening alla Galleria P420 di Bologna, curata da Marco Scotini. The Opening perché entrambi gli artisti, già attivi negli anni Settanta, hanno superato il tradizionale concetto di performance sviluppando una nuova definizione di happening basato sul dialogo, sulla relazione tra artista e spettatore. Lo spazio diventa quello della galleria, il tempo quello dell'Opening appunto della mostra, in cui tutto diviene processo, dal momento della creazione, all'esposizione, alla fruizione definitiva dell'opera. L'opening che diviene coito.

Entrambi gli artisti, dopo quasi quarant'anni dall'ultima esposizione insieme, hanno sempre lavorato contro la passività della fruizione del pubblico volendo innescare dinamiche relazionali in grado di "riattivare i processi della socialità e della relazione". Contro ogni volontà aprioristica lo studio dei due artisti si rivolge alla continua mutazione delle relazioni, potenzialmente infinite e sempre diverse.

Franco Vaccari, classe 1936, attraverso la sua esplorazione a livello sia teorico che operativo, grazie al concetto di Esposizione in tempo reale detronizza la passività contemplativa fotografica per donarle invece lo spazio dell'azione. Da una dichiarazione dell'artista allegata all'opera Viaggio + Rito del 1971: "Il pubblico è chiamato a distruggere lo spazio della contemplazione per aprire quello dell'azione". Come scrive Claudio Marra in Fotografia e pittura del Novecento - una storia senza combattimento il concetto di esposizione reale richiama l'"immagine atto" che Philippe Dubois definì all'inizio degli anni Ottanta. Un'immagine che "permette la presentazione di atti, esperienze e tranches de vie, che obbligatoriamente richiedono partecipazione". Non è difficile ricondursi a una delle più grandi correnti filosofiche, la fenomenologia indetta da Husserl, il quale assunto principale era appunto quello che alla base di ogni conoscenza ci fosse relazione con l'alterità. Se le fotografie mantengono una strettissima imprescindibile relazione col proprio referente, non è un caso che Vaccari lavori con i concetti di indizi, tracce e segni. Occorre qui aprire una parentesi semiotica cara a Pierce.

Come anche Marra ricorda nel testo sopra citato, Pierce stabilì che un indice è "un segno o una rappresentazione che rinvia al suo oggetto non tanto perché è associato con i caratteri generali che questo oggetto si trova a possedere, ma perché è in connessione dinamica (compresa quella spaziale) e con l'oggetto individuale da una parte e con i sensi o la memoria della persona per la quale serve da segno, dall'altra". Umberto Eco sintetizzò successivamente affermando: "Pierce chiama talora indici anche le fotografie (che parrebbero rientrare tra le icone): infatti una foto non solo rappresenta un oggetto, come può farlo un disegno, ma ne costituisce anche la traccia e funziona come il cerchio di vino rimasto sul tavolo che testimonia la presenza (passata) di un bicchiere".

In mostra, di Vaccari, sono esposte Esposizione in tempo reale num.1, Maschere (1969), Esposizione in tempo reale num.5, Spazio privato in spazio pubblico (1973), Esposizione in tempo reale num.6, Il cieco elettronico (1973) e Esposizione in tempo reale num.7, Mito Istantaneo (1974). In Maschere, presentata alla Galleria Civica di Modena, l'artista fece distribuire centinaia di maschere che recavano impressa la fotografia di un uomo qualunque. In seguito venne fatto buio in sala. Vaccari si mise a girare tra il pubblico con una pila e una macchina fotografica. Ogni tanto illuminava qualche persona e cercava di fotografarla, ma questa in quel preciso momento si nascondeva sorpresa o seccata dietro la maschera, usandola come scudo, come corazza, barriera, come mezzo per rientrare in una dimensione totalmente privata e anonima, come difesa e protezione dall'eccesso di individuazione che l'uso del mezzo fotografico può portare.

Riportata anche nel famigerato libro Body art e storie simili - il corpo come linguaggio di Lea Vergine, a proposito di "maschere" l'artista stesso affermava: "Io uso la fotografia come azione e non come contemplazione e questo comporta una negazione dello spazio ottico a favore dello spazio delle relazioni. Mi interessa sparire come autore per assumere il nuovo ruolo di innescato re e regista di processi. Gli ambienti dove opero devono essere luoghi dove le cose accadono realmente e il dopo è sempre diverso dal prima. In altre parole sono interessato alla riscoperta del rischio, inteso come rifiuto di ogni tipo di garanzia aprioristica; si può infatti affermare che le manifestazioni artistiche assolvono il compito di essere le nicchie della rassicurazione dove si ha la certezza che non succederà assolutamente niente".

In Il mendicante elettronico Vaccari registrò in una piazza vicino alla fermata dei tram un mendicante nell'atto di chiedere l'elemosina. Successivamente al posto di questo lasciò un televisore che trasmetteva la registrazione appena fatta: sullo schermo appariva la scritta "Il cieco torna subito". Parafrasando McLuhan, il medium diviene potere, l'uso di quel tipo di mezzo solitamente gestito da grossi gruppi di potere ha determinato un effetto di "mitizzazione istantanea" del mendicante.In Comunicazione Segreta, presentata alla Trigon 73 Neue Galerie a Graz, l'artista ricavò una nicchia privata all'interno dello spazio della mostra. Quella nicchia era composta da due ambienti in comunicazione audiovisiva fra loro. La comunicazione purché prendesse vita in pubblico era sottratta al controllo pubblico stesso. Il momento della documentazione si trovava così davanti a indizi, tracce e segni, limiti di fronte ai quali la curiosità doveva arrestarsi e interpretare. In Mito istantaneo, presentata alla Galleria 291 a Milano, l'artista aveva a disposizione due ambienti, in uno fotografava con la polaroid i visitatori, nell'altro faceva proiettare sulle pareti la foto appena scattata, che in questa maniera risultava ingigantita. Chi era stato fotografato, quando scopriva la propria immagine proiettata, veniva illuminato e rifotografato insieme a questa.

Sanja Iveković, classe 1949, si è formata presso l'Accademia di Belle Arti di Zagabria; sin dagli anni Settanta la sua produzione artistica ha abbracciato vari tipi di media, quali la fotografia, il video, l'installazione, la performance, l'azione in pubblico. Da sempre ha indagato criticamente l'uso delle immagini e dei corpi, ha analizzato la costruzione dell'identità nei media e nella politica, ed è stata protagonista di un attivismo soprattutto di origine femminista. Il coinvolgimento del pubblico è alla base della ricerca artistica della Iveković, determinando una relazione con i fruitori, stretta a un livello intimo ed emozionale.

La mostra si apre appunto con Inter Nos, quattro foto in bianco e nero, un disegno con testo e un video. L'installazione prevedeva un dialogo privato tra l'artista e il visitatore. E ciò avveniva tramite l'interazione della Iveković con l'immagine sul monitor del fruitore che suscitava ogni volta una reazione individuale e diversa. Le due stanze erano messe in collegamento tramite un circuito chiuso composto da due apparecchi video senza connessione audio, e un ambiente dove la performance veniva videotrasmessa al pubblico che poteva vedere la sola immagine del partecipante. Nella 1st Belgrade performance la performance iniziava nel momento in cui l'artista entrava in galleria insieme al curatore. Continuava a camminare formando cerchi a ritmo di musica affinché la distanza tra l'Iveković e il pubblico diminuiva riducendosi ogni volta di 1 metro; la velocità della camminata diminuiva fino a quando arrivava in una posizione in cui con l'aiuto del curatore si presentava e stringeva la mano a ogni persona, iniziando una conversazione con ogni visitatore della galleria. Gradualmente scompariva come performer, mentre l'azione performativa continuava come spontanea azione del pubblico.

Meeting-points era una performance composta in due parti. Il primo giorno l'artista eseguiva la performance all'interno della galleria vuota con solo una videocamera come testimone. L'azione nello spazio corrispondeva nell'anticipazione di dove il pubblico si sarebbe trovato e in come la comunicazione fra di loro si sarebbe sviluppata. Il giorno seguente un monitor venne posizionato in un angolo della galleria e il video trasmesso mentre l'azione vera iniziava. In quell'istante le anticipazioni dell'artista cercavano di trasformarsi in realtà, ad esempio ripetendo la performance alla presenza del pubblico.

Il lavoro che ho preferito insieme a Inter Nos è sicuramente Inaugurazione alla Tommaseo presentata a Trieste nel dicembre del '77. Durante l'inaugurazione della mostra, l'artista rimase chiusa nel piccolo spazio riservato all'ufficio, con la bocca sigillata da nastro adesivo. Un amplificatore trasmetteva il rumore del battito cardiaco in tutti gli ambienti della galleria, mentre l'artista incontrava singolarmente ogni visitatore. L'inizio di ogni incontro veniva scandito da un determinato suono e poi fotografato. Il giorno seguente, le immagini vennero appese in galleria insieme all'audio corrispondente. Lo spettatore aveva la possibilità di riascoltare il suono durante l'opening. Riascoltare il suono del battito dei cuori di quei visitatori in mostra ha annullato il senso del tempo e ha riattivato oggi come ieri quella volontà Inter Nos di partecipazione attiva nello spazio di relazione.


Una riflessione intima mi ha portato alla convinzione di quanto sia importante oggi riguardare con attenzione questa tipologia di interventi artistici mirati a renderci responsabili dell'essere presenti a noi stessi e all'altro, qui e ora. In una logica di abbandono del preconcetto. Quell'esserci così atrofizzato che nell'era della super comunicazione ritrova a spalleggiarsi tra individualismi atomizzati e non comunicanti. La molti-solitudine è divenuta un'attitudine contemporanea emblema della grande alienazione. Vige un'estraneità al contatto, un'impurità che fa dell'assenza non elemento attivo ma disertore. Per questo è necessario ripristinare uno spazio di relazione attivo nel quale corpi e pensieri siano legati in un coito, nel tempo di un Opening.


Federica Fiumelli








Opiemme. Vortex. Galassie di parole

link: http://wsimag.com/it/arte/14921-opiemme-vortex




"Un giorno troverò una parola
che penetri il tuo corpo e ti fecondi,
che si posi sul tuo seno
come una mano aperta e chiusa al tempo stesso.
Incontrerò una parola
che trattenga il tuo corpo e lo faccia girare,
che contenga il tuo corpo
e apra i tuoi occhi come un dio senza nubi
e usi la tua saliva
e ti pieghi le gambe.
Tu forse non la sentirai
o forse non la capirai.
Non è necessario.
Vagherà dentro di te come una ruota
fino a percorrerti da un estremo all’altro,
donna mia e non mia
e non si fermerà neanche quando tu morirai".
(Roberto Juarroz)

Tutto in me ruota vorticosamente: scatole e mente
(Gaetano Arcangeli)

Vortex è l'incontro con la parola, che si fa materia. Una costituzione cosmopoetica è la ricerca che porta l'artista Opiemme con il ciclo di tre mostre, la prima al Bi-Box Art Space a Biella, la seconda conclusasi recentemente negli spazi di Portanova12 a Bologna e la terza che si terrà allo Studio D'Ars a Milano il prossimo Novembre.

Vortex indaga la stretta osmosi ciclica che vi è tra uomo e cosmo, interpellando parole, poesie, pianeti, e stelle. Lo spazio della pittura diventa respiro e luce. Il lavoro trae ispirazione dal libro L'alfabeto scende dalle stelle. Sull'origine della scrittura di Giuseppe Sermonti, nel quale si sostiene che l'alfabeto non sarebbe altro che un'immagine derivata dalle forme delle costellazioni. Il linguaggio non diviene quindi che una proiezione fluttuante dell'universo. Quanta vertigine e vastità nell'ombra di questo pensiero. Lettere come petali di soffioni, vorticosamente si liberano nel dipinto murale sopra l'Autostazione di Bologna. N, S, Y, F, I, H, M, ecc...

La serie di questi lavori però sono frutto anche di un certo sentire dell'artista, di una certa poetica portata avanti soprattutto negli ultimi due anni in giro prima per tutta l'Italia con Un viaggio di pittura e poesia e poi per il mondo, come Haiti, Thailandia, Uruguay, Argentina (dove ha partecipato alla 5a Bienal del fin del mundo) e la Polonia. Proprio in Polonia, secondo il mio parere, Opiemme ha dato forma e corpo all'emblema di Vortex, tramite il dipinto murale sulla parete di dieci piani per il Monumental Art a Gdansk dedicato a una donna che ha fatto della poesia uno struggente acuto lucido sentire, la poetessa Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Da Sotto una piccola stella: "Verità, non prestarmi troppa attenzione / Serietà, sii magnanima con me".

Come elementi irridescenti le lettere fluttuano e piovono da un gigantesco pianeta-buco nero. L'infinito poetare si ibrida all'oscuro mistero del cosmo. Una profonda introspezione genera l'abisso della parola. Una colata arcobaleno sovrasta e si frammenta in lingue di colore geometrico. Tutto è soppesato da forze contrastanti, sempre nei lavori di Opiemme. Dicotomico e calibrato, anche nel primo testo critico Daniele Decia descrive Vortex come una ricerca tra astrattismo e la parola, di "lettere informali", tra informale e poesia visiva. Lettere genitrici e fecondanti aggiungo io. Lettere atomi, lettere attimi.

Nei lavori esposti a Bologna, si può appunto constatare questo dualismo tra la tecnica dello stencil più rigoroso e uniforme in un teso e delicato confronto con il dripping multiforme e multicolorato, imprevedibile e casuale. L'astrofisico inglese Martin Rees scriveva: "Il Sole e il firmamento fanno parte del nostro ambiente - il nostro habitat cosmico: una percezione che gli scienziati condividono con poeti e mistici. "Io sono parte del Sole, micosi come il mio occhio è parte di me" scriveva D.H. Lawrence, e Van Gogh dipinse la Notte Stellata con lo stesso spirito con cui dipingeva i campi di grano e i girasoli. L'arte e la letteratura abbondano di simili esempi. La scienza rende più profondo questo senso di appartenenza a ciò che non è terrestre. Noi stessi, d'altronde, siamo a metà strada tra l'universo è il microcosmo: per mettere insieme la massa del Sole ci vogliono tanti corpi umani quanti sono gli atomi in ciascuno di noi. E la nostra esistenza dipende, certo, dalla tendenza degli atomi ad attaccarsi gli uni agli altri e unirsi in quelle molecole complesse che formano tutti i tessuti viventi, ma l'ossigeno e il carbonio dei nostri corpi sono stati creati, a loro volta, entro stelle lontane, vissute e morte miliardi di anni fa". Questi pianeti tatuati di lettere e parole diventano pelli intergalattiche.

Il poeta della streetart, come da molti definito, ha attinto da penne fiere e storiche, come Gaetano Arcangeli, Roberto Roversi, Lucio Dalla, Edgar Allan Poe, Eugenio Montale trasformando i versi in colate opulescenti di lettere che prima di farsi immagine, sono per me materia evanescente e nebulosa. Le parole sono decostruite per piovere a uno stato disgregato e gassoso, libero e caotico. Ho trovato come perfetto supporti alla polvere poetica, le cartine geografiche e le anziane pagine di alcuni Resto del Carlino. In questi lavori le lettere e i pianeti sono più decisi, grafici, autonomi, ma pur conservando una loro autonomia, riescono a interagire in punta di piedi con le realtà loro sottostanti. Gli spazi sono lattiginosi dripping che donano la completa percezione della consistenza Lattea, puntiforme e infinita.

Le galassie di parole si intersecano come precipitazioni meteorologiche su strati di memoria, di notizie e di luoghi, di geografie che ormai sono divenute orizzonti nelle mente dell'osservatore. Pulviscolare e centrifugo l'atto pittorico di Opiemme, cerca di ricondurci all'origine, al caos dell'inizio, al chiasmo organico della materia, all'inizio del linguaggio. Nell'ancestralità della costituzione riesce nei propri equilibri visivi a unire micro e macro. Una pittura che nel silenzio dell'universo è onomatopeica e altisonante. Declamatoria. I suoi lavori tendono a essere appelli, nell'urgenza e brevità di un verso notturno che si fa lampo di memoria e visione.

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
/
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all'occhiello
la rosa dei venti.
/
Tutto è pronto: il mare, l'atlante, l'aria.
/
Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
/
La nave che non c'è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell'orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…
/
Tutto è pronto. Sul serio. Invano.
(Juan Vicente Piqueras, Voglia di restare)

Federica Fiumelli








lunedì 13 aprile 2015

Loris Dogana. Fantasia a ore.

link: http://wsimag.com/it/arte/14364-loris-dogana






Non credere mai di essere altro che ciò che potrebbe sembrare ad altri che ciò che eri o avresti potuto essere non fosse altro che ciò che sei stata che sarebbe sembrato loro essere altro.
(Lewis Carroll)

Illustratore, attore, tatuatore. Fantasia a ore. Un cappello senza testa, perché di teste nei suoi disegni non ce ne sono mai. Sono perse chissà dove senza fissa dimora. I grandi maestri sono stati Magritte, Klimt e Gong Xian. 
Non è difficile immaginare la pioggia di uomini che cadono dal cielo. E come René affermava "La realtà non è mai come la si vede: la verità è soprattutto immaginazione". Una linea sottile, decisa ed elegante, la sua fedeltà. Senza troppe profondità, ereditata da uno sguardo verso l'Oriente. Un mondo surreale e capovolto, dove "Tutti chiedono a Cappellosenzatesta perché disegna degli uomini con la testa sostituita da oggetti, ma nessuno gli chiede perché disegna degli oggetti con degli uomini attaccati sopra".

Le nostre abitudini e costrizioni sociali si sostituiscono alla nostra testa per mostrare le cose che siamo. E cosa siamo? Elucubrazioni da Brucaliffo a parte, Dogana elegge i suoi personaggi protagonisti assoluti in uno spazio completamente bianco, vuoto, pulito, terso, sono pochi gli oggetti tra gli oggetti. Oggetti pesanti e pensanti, corpi manichini svuotati e ripetitivi come prodotti di consumo su larga scala. Torna alla mente il famigerato video The Wall dei Pink Floyd dove umani in serie marciavano sincronizzati verso la fine. Gli eroi di Dogana non sono che sconfitti del sistema inglobante, tra malinconia e rassegnazione, ritrovano riscatto nell'assurdità dell'esistenza bidimensionale della fantasia su carta, che scricchiola come assi di legno di un palco teatrale.

I drammi ironici inscenati dal nero grafite non sono in realtà (sempre che si possa usare questo termine) che acute critiche sociali, dalla speculazione del tempo, del denaro, delle abitudini tecnologiche, dal capitalismo, alla religione. Dal potere e del controllo al quale veniamo sottoposti come dentro un frullatore sadico e spietato. Come in Loop, corriamo nel riflesso ripetuto di un giro autoreferenziale. Tutto torna incessante senza il tempo del pensiero. Come automi senza critica. E se la differenza può innescare più esplosioni, ben venga, come in Be different #2 tra un esercito ben allineato di teste di bombe spunta accesa la testa di un cerino incravattato e pronto a distinguersi o estinguersi, solo ai posteri coraggiosi l'arduo finale.

E Alice oggi, riesce ancora a oltrepassare lo specchio? Vede aldilà di ciò che trova? L'infanzia crede ancora a sei cose impossibili a colazione? E' così che in La Gabbia una bambina in punta di piedi sul bianco di un'idea libera i volatili dalla testa-gabbia. Quanto costa un sogno? O meglio il risveglio da esso? Quanto è dura vivere una vita non propria? Quanto è difficile assomigliare a ciò che si vorrebbe essere? Alzandosi sul precipizio di una tazza di tè, ( il tè dei matti?) l'uomo dalla testa di zolletta zuccherata è sul Patibolo pronto a lanciarsi dalla punta di un cucchiaino ancorato a una bustina. Una triste, folle storia di milioni di momenti quotidiani, che almeno ognuno di noi ha passato, tra la stretta di una tazza, l'attesa e un soffio per sbollire la bevanda.

Dogana sa anche intingere la propria ironia noir in un angolare, se non singolare romanticismo, come in Fatta l'una per l'altra. Una panchina è il non luogo per questa volta, agli estremi due timidi personaggi, la donna testa di sigaretta e l'uomo testa di accendino. E' giusto bruciarsi per i propri vizi, e cosa di più vizioso, dell'amore? Cosa di più soddisfacente, di fumo d'amore che consuma e nuoce? In Per Rick l'uomo dalla testa annaffiatoio è impiccato al ramo di un albero che lui stesso sta innaffiando, che il progresso sia il regresso? Che la continua crescita sia sinonimo a un certo punto dello sviluppo umano della decrescita?

Tante domande. E vedo in chi sta leggendo queste righe non più teste ma punti interrogativi. Da qualche parte chissà dove, insieme alla testa ho perso le risposte. L'effetto Dogana contagia a macchia d'inchiostro, sempre chiaro in bianco e nero. Mescolando in uno sciroppo surreale due poesie, concludo con una parte di Montale e una di De Gregori, per una conclusione-ritratto dell'artista.

Spesso il male di vivere ho incontrato e me ne sono andato con la mia valigia d'attore...

Federica Fiumelli








sabato 14 marzo 2015

Altrimenti che essere

Link:http://wsimag.com/it/arte/13535-altrimenti-che-essere





Altrimenti che essere
Dal 22.01.2015 al 04.04.2015 alla GalleriaPiú - also known as Oltredimore - 
A cura di Andrea Bruciati

"Raccontami le storie che ami inventare spaventami 
raccontami le nuove esaltanti vittorie 
Conquistami inventami 
dammi un'altra identità 
stordiscimi disarmami e infine colpisci 
abbracciami ed ubriacami 
di ironia e sensualità."
Carmen Consoli - Parole di Burro - 

Spesso quando mi sono trovata a scrivere su opere o artisti che hanno avuto a che fare con il tema dell'identità, mi sono servita, o meglio ancorata, come tasche piene di sassi, alle parole di burro di Carmen Consoli. 
Il suo esorto all'invenzione, alla creazione, al racconto, allo stordimento e disarmo si allineano bene a mio parere alla volontà dell'arte di essere critica e disturbante. Mai uguale a se stessa e perennemente mutevole. 
La mostra curata da Andrea Bruciati alla GalleriaPiú - also known as Oltredimore -  riflette sul tema dell'alteritá partendo da un saggio del filosofo lituano Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere.
Allievo di Husserl, incontró Derrida e lesse Heidegger.
Imprenscindibile infatti il seme filosofico di natura fenomenologica, la proiezione dell'essere appunto Da-sein, Esser-ci Heideggeriano, l'uomo é sempre in relazione alla situazione nella quale si trova. L'essenza dell'esserci secondo Lévinas consiste nella sua esistenza, l'uomo é dinamico e può scegliere, perdendosi o conquistandosi.
L'essere é la condizione più privata che ci possa essere, per cui diventa inscindibile la solitudine che ne deriva. Lo stesso filosofo afferma: 
" siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con il lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l'altro, ma non sono l'altro. Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l'esistere ".
La mostra infatti confuta la tesi di Freud secondo la quale l'Alteritá non é che una proiezione dell'io, essa invece diventa totalmente estranea all'Ego, perché ogni esperienza é unica e irripetibile.
Lo specchio di Narciso si é spezzato e l'immagine riflessa non può che essere l'eco di tanti frammenti tutti diversi.
Gli artisti in mostra interpretano il sentimento e l'emotività in chiave antiromantica, non c'è fusione, identità totale o possesso, ma mistero vero l'altro. 
Non vi é inglobo e sopraffazione ma una comprensione paritaria.
Una mostra estremamente internazionale che vede coinvolte numerose collaborazioni con gallerie straniere. Si ringraziano infatti Fabio Cherstich; Freymond-Guth Fine Arts, Zurigo; Monitor, Roma/New York; MICHEL REIN, Parigi/Brussels; Anna Siccardi; WHATIFTHEWORLD Gallery, Cape Town; Galerie Jocelyn Wolff, Parigi.
Patrick Angus, Tomaso De Luca, Didier Faustino, Joanna Piotrowska / Nefeli Skarmea, Elodie Pong, Prinz Gholam, Athi-Patra Ruga, Davide Savorani, Paul Mpagi Sepuya, Namsal Siedlecki, questi gli artisti scelti.

Come una fetta d'arancia immersa nel latte, l'esposizione si bagna di sapori che pur convivendo tra loro mantengono una loro personale forza.
Un respiro corale come nell'opera video Breathing, Vunlerability di Piotrowska e Skarmea. 
Il bianco labile del burro, sul quale fare scivolare le convinzioni diventa il fil rouge della mostra, e lo si ritrova nella grafite su carta e fotografia in bianco e nero della coppia di artisti Prinz Gholam. 
Si é sempre in bilico tra presenza e essenza dell'assenza. Questo vuoto pieno che convive e non si prevalica l'un con l'altro. Bianca anche la scultura da stampa 3D con struttura in acciaio di Didier Faustino, Doppelgänger, letteralmente '"un doppio che va", un'interfaccia che mostra l'impossibilità di fusione nell'altro, come una protesi di unione, l'oggetto, come viene mostrato nelle foto esposte, convoglia come un imbuto il bacio - respiro verso l'altro, é punto di raccordo ma nello stesso momento di impedimento e divisione. Risucchio e rilascio. 
Bianco é lo sfondo-ambiente scelto per i lavori video Smoke di Elodie Pong che The body is the question IV...La mamma morta di Athi-Patra Ruga. Nel primo una coppia immersa in un'atmosfera apatica ed evanescente riscatta soltanto verso il finale l'uscita da uno speen esistenziale, un cerchio di fumo creato dal protagonista uomo fa scattare nella donna un impulso sensuale, facendole venir voglia di infilare la lingua nell'anello grigiastro. Metafore viziose di rapporti naufraganti nel nulla del tempo.
Athi-Patra Ruga invece inscena la famosa aria La mamma morta, per un memento mori interpretato dal baritono e film maker greco Telemachos Alexiou, modellato su ritratto della struggente Callas. L'ambiguità trapelante mi ha ricordato gli autoritratti fotografici di Urs Lüthi che proprio nel magistrale "Body art e altre storie simili. Il corpo come linguaggio" curato da Lea Vergine, affermava l'importanza dell'ambivalenza nel suo lavoro: "Il risultato di questa mi indagine é il ritratto. Un ritratto che ha una sua propria esistenza e che vive al di fuori di me, appena si spengono i riflettori. Chiunque lo osservi lo paragona alla sua propria esistenza, fino a modificarsi, e sdoppiarsi.. Questo é il mio contributo alla coscienza del sé, dei propri limiti, dei propri eccessi, delle proprie possibilità...e anche delle diverse realtà che vivono nella stessa realtà."
Sempre nello stesso libro Lea Vergine riporta una frase di Husserl: "Fra i corpi di questa natura ridotta a ciò che mi appartiene io trovo il mio proprio corpo che si distingue da tutti gli altri per una particolarità unica: é il solo corpo che non é soltanto un corpo ma il mio; é il solo corpo all'interno dello strato astratto, ritagliato da me nel mondo nel quale, conformemente all'esperienza, io coordino, in modi diversi, campi di sensazioni; é il solo corpo di cui dispongo in modo immediato come dispongo dei suoi organi."
E allora c'è il corpo erotico e performativo di Nefali Skarmea in Tabledance, o il corpo effimero e caduco di Namsal Siedlecki con la scultura Volver, in salgemma e ghiaccio. Entrambe le opere echi di un sentire identitario all'Amodovar.
Ci sono i corpi di grafite impressi sulla carta di Davide Savorani, di passaggio, di schizzo, che si sovrappongono come trasparenze o quelli aniamelier, con uno sguardo accecante e accecato á gouaches di Tomaso De Luca.
Poi ci sono le solitudini acquerellate dei numeri primi del Toulouse-Lautrec di Times Square, Patrick Angus che nella sua carriera di pittore ha creato numerosi lavori attigendo dal Gaiety Theater regalandocene una visione acuta, da spett-attore.
Paul Mpagi Sepuya decide invece di entrare fisicamente nei suoi lavori fotografici, in punta di mano, come una presenza indiscreta e silensiosa, ancorata alla vita stessa, accarezza e sostiene le immagini di ricordi vissuti, é così che sfiora Alex, Sam e Brian o A.K and Katie, tra gambe, corpi e mani. 
Il bianco sensuale, che ci ha accompagnato in questa esposizione, si celebra metaforicamente nella schiuma del mare, l'acqua si ricongiunge nell'opera di Siedlecki alla conchiglia dalle curve materne, accoglienti, come l'origine du monde.
All'origine dell'identità questo viaggio tra parole di burro.

"Non c'è nulla da capire, c'è solo da essere" 
Piero Manzoni

Federica Fiumelli