Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

mercoledì 5 novembre 2014

Le leggi dell'ospitalità

link: http://wsimag.com/it/arte/11900-le-leggi-dellospitalita

La questione del "fuori"




Pierre Klossowsky ci ha reso eredi di importati insegnamenti culturologici. Inevitabile non ricordare uno dei più importanti anelli filosofici del maître à penser, e cioè il passaggio dallo speculativo allo speculare ovvero la tipica falsificazione che si cela alla base della riproduzione delle immagini nella cultura occidentale. Nel mondo contemporaneo il simulacro sostituisce il principio di realtà, l'individuo non incontra mai un'esperienza autentica, ma riproduzioni di una realtà assente. Vi sono tante copie senza un originale.
Simulacro inteso quindi come trasposizione ed elemento fantasmagorico. Ed è proprio oggetto di simulacro il corpo di Roberta, protestante, atea, attivista radical-socialista e moglie di Ottavio, prete fallito, teologo vizioso, specialista in perversioni, personaggi protagonisti del romanzo triologia klossowskiano, Le leggi dell'ospitalità. Ottavio tenta di gettare ogni uomo che entra in casa tra le braccia della moglie, moltiplicando così per lei le occasioni di "peccato" in maniera di farle riconoscere la legge divina, sfidando il suo pudore e portandola al cedere. Offrendo il corpo della moglie ecco le leggi dell'ospitalità.
Un'ospitalità perversa quella di Klossowsky, che tira in ballo altre speculazioni filosofiche, da Benveniste a Derrida. Se per il primo la pratica dell'ospitalità rientra in parametri economici del dare e avere, è hostis colui che a un dono fa seguire un contro-dono. L'hostis per gli antichi romani non era uno straniero perché gli venivano riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini. Derrida invece rifiuta questa parità reciproca ritenendo che affrontare il tema dell'ospitalità significhi porre una "questione del fuori". In quel fuori assoluto vi è una presenza giuridicamente innominabile. Non ci sono nomi e cognomi, tale ospitalità è assoluta e rompe con l'ospitalità di diritto. Riferendosi a Klossowski, Derrida nota che lo straniero diviene un liberatore, il padrone di casa ostaggio della propria soggettività, solo tramite una presenza estranea può porsi in una condizione di ospite. Il corpo di Roberta viene donato agli ospiti per essere meglio posseduta dal marito, il quale si logora per possederne appunto l'interezza. Gli oltraggi subiti alimentano sdoppiamenti e rovesciamenti, simulacri di una natura che si nasconde. Ottavio incita la sposa a commettere adulterio perché vuole scoprire le vere identità della sposa, pensando di conoscerne solo un'identità apparente, le pluralità di nature si manifestano solo tramite il contatto con lo straniero.
Le leggi dell'ospitalità è il titolo della mostra che ha luogo alla galleria bolognese P420 fino al 15 novembre a cura di Antonio Grulli. Il titolo della mostra ben eredita tutta la complessità che di fatto appartiene alle opere esposte. Sei artisti, una collettiva che giovani e mid career legati per nascita o formazione alla città di Bologna. Una scelta quindi che diventa cerniera e dialogo fra varie generazioni. Eva Marisaldi (1966) e Italo Zuffi (1969) fanno parte delle generazione degli artisti emersi negli anni Novanta, una scena così influente da far parlare Obrist di "miracolo Bologna". La mostra quindi tiene conto di un certo background artistico culturale bolognese che ha visto intellettuali importanti come Daolio, Pozzati, Gianuizzi e l'Alinovi; proprio il pensiero di Francesca, basato sugli studi dell'avanguardia dada, surrealista e situazionista, saranno fondamentali per tutta l'arte e la cultura realizzata a Bologna. Ma anche alcuni luoghi furono determinanti, come la Galleria Neon, l'Accademia, e negli anni novanta il Link, poi lo spazio Raum e l'associazione Xing, all'interno del quale si sono esibiti Riccardo Baruzzi (1976) e Cristian Chironi (1974). La mostra include infine due giovani artiste legate ancora al mondo accademico, come Costanza Candeloro (1990) e Giulia Cenci (1988).
L'esposizione si apre proprio con Alice's Adventures Undreground, del 2014, una serie di nove disegni a matita su carta della Candeloro. Dopo aver studiato all'Accademia di Belle Arti di Bologna sta terminando i suoi studi presso l'Head di Ginevra. Acuta osservatrice dell'immaginario, lo puntella di lucide e interessanti riflessioni. Il lavoro dell'artista si concentra sulla frammentazione e destrutturazione delle forme narrative, dei libri, dei sistemi educativi. Alice's Adventures underground era il titolo originale del manoscritto di Alice's Adventures in Wonderland. Alice da tramite per un fuori, Alice come frammento, come passaggio e come variazione. Poiché le cose in realtà non sono mai come si presentano. Come non ricordare l'esperienza radiofonica di Radio Alice nata sul finire degli anni Settanta. Un fuori che si concretizzò on air. Decisamente poco elementare tra le righe di una pagina di quaderno riecheggia "cattiva maestra televisione". Se l'artista mantiene un segno leggero a matita, sicuramente la forza contenutistica ne fa da contrappunto e rende estremamente speciale e pungente il lavoro della Candeloro. Un contrappeso di elementi espressivi, tra forma e contenuto.
Sempre nella prima sala troviamo anche un lavoro introduttivo ad altri pezzi che troviamo esposti nella seconda sala, un acquerello e succo di mirtillo di Riccardo Baruzzi. Ordine 1, 2, 3 e 4 infatti sono delicati segni e tracce, leggiadri matita e pennarello e gouache su calicot e acrilico su carta. Toccate e fuga nell'istante di una memoria. Lavori a più piani e strati di visione. Le tracce di figure o oggetti si perdono tra semitrasperenze, una prospettiva illusoria e velata. Lo spazio di fondo, sempre che un fondo ci sia, è un salto nel vuoto. E i segni da questo vuoto emergono sul filo, a galla, dal profondo della superficie. Una pittura destrutturata, smontata e scomposta, come una frattura o un gioco di un bambino. C'è in Baruzzi un'analisi delicata ed elegante dell'immagine, quasi evanescente. Nella stessa sala, Eva Marisaldi con Livingrooms, sceglie di esporre un telo dipinto a spray con l'immagine di una sedia da studio psicanalitico, un grande bicchiere, delle statuette, delle piantine in plastica, uno specchio e una foto in cornice. Tutto sospeso in un'atmosfera perturbante. Ci sentiamo come Alice sospesa tra frammenti in procinto di attraversare lo specchio. Folle.
Accanto al lavoro della Marisaldi, Chironi con Broken English: step 3 Connections or set, del 2013. Differenti tappeti poggiati al muro in moto ascensionale, differenti tessuti, saranno distesi uno sopra l'altro invece quelli nell'ultima sala. Il primo tappeto "recita" la scritta WelcomeBroken English: step 3 fa parte di una mostra tenuta al museo MAN, una rizomatica performance in più step. Il termine indica le varianti incerte della lingua inglese, terminologie perlopiú coniate da soggetti non di madrelingua. E' più forte una società che possiede una sola o più lingue? Da questa riflessione è scaturita la mostra Broken English, dove elementi del linguaggio diventano immagini, oggetti, suoni e cose. L'idea portante è sicuramente che non nella purezza bensì nell'intreccio, che sia di lingue, tecniche, mestieri o usanze, si cela la vita. La vera vita. Commistione e contaminazione le "c" di Chironi.
L'ultima sala accoglie altri due lavori della Marisaldi, il video Steadygirl del 1996 ci accoglie con suoni zen, girato all'interno di Palazzo Albergati a Zola Predosa, l'artista visita e penetra il luogo con il proprio corpo-occhio divenuto videocamera. Tra il mistico e il surreale ancora per una volta ci sentiamo Alice. Lo sguardo si perde così tra scalinate, affreschi, sedie, un non-luogo autentico. Fantasmagorico e simulacro mimetico. Coverage del 2014 sono invece progetti per tappeti, stampe su alluminio di immagini prelevate da Google Earth; la Marisaldi dunque adotta una trasposizione flat per tutti quei profili di luoghi. Operazione inversa e opposta invece fa Italo Zuffi con Profilato Villa, se quello che ci appare dinanzi può sembrarci un oggetto di design, non ci fermiamo allo specchio ma lo attraversiamo e troviamo così un rovescio dell'ordinario. Profilato villa non è che la resa tridimensionale di una pianta di un edificio palladiano. Un perfetto estraneamento Carrolliano.
In risposta ai suoni zen di Steadygirl ecco provenire da sette baccelli in ceramica dei fischi. Gli ignari di Zuffi non sanno o meglio non vogliono fischiare in maniera corretta. Straniamento e perturbamento. C'è sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che fugge alla percezione, alla possessione di una totalità, proprio come ci ricordava Klossowsky. "Chiudono" questa visita ermetica e complessa che richiede sicuramente tempo e attenzione, i lavori della giovane Giulia Cenci che ha il merito di aver creato negli ultimi anni uno dei progetti più stimolanti (attualmente in giro) insieme ad altri colleghi dell'Accademia "Interno 4" in cui vengono coinvolti artisti italiani e stranieri nella realizzazione di mostre all'interno della loro abitazione, ma non solo. Un progetto sicuramente in linea con la filosofia del'"ospitalità".
La ricerca della Cenci è prevalentemente scultorea, difatti nei due lavori esposti utilizza materiale che richiede di essere lavorato e maneggiato come poliestere, polvere di marmo e argilla, plastica. In Almost Invisible una sagoma di sedia, che fa da eco anche se in maniera totalmente differente a quella della Marisaldi, è poggiata al muro anch'esso bianco. Un'assenza presente. So untouchable. La Cenci sceglie due interventi estremamente ruvidi, vibranti e leggeri, dei bianchi ombrati dall'invisibilità indivisibile dell'essere. Bombardati come d'uso dalle vorticose e fameliche successioni di immagini senza respiro Le leggi dell'ospitalità ci rende ospiti di un tempo che da troppo tempo non ci concediamo.
Federica Fiumelli












Nawras Shalhoub


link: http://wsimag.com/it/arte/11809-nawras-shalhoub



A piece of wall for you mon amour






Figli dell'epoca
Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica.
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell'altro politica.
Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.
Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.

(Wislawa Szymborska)
Per introdurre il lavoro dell'artista palestinese Nawras Shalhoub mi sono servita delle parole di un'altra grande poetessa. Per parlare di poesia è necessaria la poesia, e Shalhoub ci parla poeticamente attraverso le sue opere. Politicamente.
La (galleria+) Oltredimore di Bologna dal 2 ottobre al 22 novembre presenta la prima personale in Italia dell'artista. Un'antologia di lavori in cui l'artista esplora la questione del dolore, venendo da un paese in conflitto, non ha avuto altra scelta che quella di essere in contatto con la sofferenza, sia fisica che morale. La sua ricerca artistica, quindi è il mezzo per entrare in contatto con il dolore, proprio e degli altri, un filtro, un catalizzatore per trasformarlo in energia.
Nato nel campo profughi palestinese di Yarmuck in Siria nel 1974 rientra con la sua famiglia in Palestina solo nel 1994 e rimane nella Striscia di Gaza fino al 2001. Diplomato alla Scuola di Belle Arti di Strasburgo nel 2007 vive ora in questa città. I suoi lavori, che abbracciano tanto la pittura quanto il video, le installazioni e la scultura sono stati esposti anche in Corea, Emirati Arabi Uniti, Francia e Palestina tra il 2008 e il 2013.
La mostra si apre con il lavoro dal mio punto di vista più intenso, A piece of the wall for you mon amour, un'installazione di sette mattoni di cemento con del filo spinato. Un'opera intrisa di poesia, di una bellezza che crea dolore, semplice tanto quanto complessa, che richiede riflessione e sosta per meglio osservarla. Quest'opera manifesto di Shalhoub racconta silenziosa ed elegante il modus operandi dell'artista. Il taglio grossolano, grezzo e pesante del cemento, la scelta di un mattone, che rimane dettaglio di un muro più mentale che fisico, avvolto da esili fili di metallo spinato, leggeri e ancorati; alcuni prendono nonostante tutto, la forma di un cuore. Un gesto quasi elementare, primario, lo sguardo di un uomo si concilia al gesto che potrebbe essere quello di un bambino. La dicotomia che contraddistingue la poetica di Shalhoub è disarmante. Leggerezza e pesantezza. Una precarietà fragile quanto bella.
Lo stesso artista dichiara: "La cosa migliore di una guerra è la sua fine: la fine dell'occupazione, la fine del dolore, la speranza che il domani arrivi senza bombe e senza morti, senza proiettili e senza muri; i muri non restano nella storia, forse durano qualche decina di anni ma non di più, chimere nell'esistenza di un popolo. Il muro di cemento e il muro nelle menti, non si nasconde, è visibile palpabile e lascia delle tracce nei corpi e nelle anime; un muro con il quale si può convivere, che si vede quando ci si abita di fianco, che ci impedisce di andare a vedere i nostri alberi e i nostri vicini, a volte la nostra famiglia, frontiera interna; un muro che si può scegliere di distruggere, con il quale si può scegliere di non convivere, bisogno di liberazione e di grandi paesaggi; per raggiungerli, immaginiamo un "dopo i muri". Eccone un pezzo, un regalo per te, amore mio, un regalo per tutti."
L'artista ci lascia quindi un dono importante, un dopo i muri, un'aperta riflessione di frontiera, difficoltosa, spinosa ma speranzosa. Un mattone che è inizio e seguito, oltre l'invisibile. Un mattone che da orpello diventa appello. Urgente e struggente. Not another brick in the wall.
Harp, è altrettanto poeticamente intensa. Una scultura leggera, appesa, sospesa, in ferro battuto e filo spinato, con corde e un casco militare. Una sinfonia tagliente e lacerante in bilico tra l'orrore della guerra e l'energia vibrante e melanconica di un'arpa ancestrale. Un suono vellutato dei cannoni riecheggia nelle memorie dorate di Shalhoub. Dorata come l'atmosfera tra l'onirico e il reale della fotografia in stampa digitale dedicata a sua figlia Sarah. Sarah davanti al muro, Sarah che si nasconde all'obiettivo con il muro che fa da limbo e ritorna evanescente nei lavori dell'artista. Un muro che separa in due metà speculari l'immagine. Tra l'oscurità e la doratura, un'atmosfera rarefatta quasi in procinto di sciogliersi come cera al sole. Delicata ma profondamente oscura, una barriera che può essere affrontata solo con un gesto di una bambina. Un sorriso.
Quella cera la ritroviamo non a caso fisicamente utilizzata per la scultura La guardienne des oliviers. L'artista impiega cera d'api, alberi d'olivo, terra e vetro. Materiali in trasformazione, che vivono, profumano e sono caduchi. Caduchi di una bellezza messa sempre a repentaglio dall'orrore. Il dolore e la sofferenza però si trasformano in un'installazione aulica, una donna dorata, giace accovacciata e seduta, scolpita nel tempo della memoria. Severa e scheggiata osserva e fa da guardia a un tumulo di terra. L'atmosfera è rara e sacra. Una perfetta armonia, oltre alle piante di olivo sembra essersi radicata in un'attesa atemporale. Le sottili filamenta di vetro, ritraggono uno sguardo di luce, mischiandosi alla terra, all'origine, e sembrano dare vita alla stessa donna di cera.
Monter leger, installazione site-specific pensata per la galleria, prevede una scala dapprima larga poi sempre più stretta. Di legno e delle asticelle vetrate, fibre metafisiche e metafore di un'ascesa complessa e probabilmente impossibile. Siamo sempre sulla soglia con Shalhoub, risospinti alla deriva. Tra amore e sofferenza. Vos dieux ne sont pas dans mon sang, opere che l'artista espone su tronchi di legno, facendo sembrare l'insieme un'unica installazione. Couple perduLe reve perdu de mon filsRien qu'un biberonreve survivant, la vie est belle avec tout le bourdel, sans larmes, sans issue.
Tra scritte e silhouette di bambini sotto al mirino, l'artista utilizza proiettili, cera d'api, miele in acquari dalle dimensioni variabili, l'amaro e il dolce si fondono in uno stato conservativo di memoria precaria. L'utilizzo di un materiale inconsueto come il proiettile è decisamente suggestivo, e ci riporta alla realtà dalla quale Shalhoub proviene. Fossili di slogan ben precisi come la vita è bella nonostante tutto il caos. Accumulazione di spari nell'occhio di chi guarda. La moltitudine di proiettili raccolti diventano pixel inesplosi e in alternanza di vuoti e pieni definiscono ombre, sagome e profili di un'identità di un popolo.
Shalhoub eredita dall'arte povera e concettuale l'attenzione per i materiali, l'energia e per le idee, la fusione di istinto primordiale e oggetto dal nouveau realisme, la poesia di Gonzalez-Torres che da un intimismo universale va al singolare, e al misticismo di un primo Kapoor. Interessanti sono anche le due tele presenti in mostra dai titoli entrambi riferiti alla pioggia, due acrilici su tela,J'attends la pluie e Pluie de la mer in memoria di Vittorio Arrigoni, l'attivista giornalista italiano sostenitore della soluzione binazionale in merito al conflitto israeliano-palestinese, ucciso da gruppo terrorista. Un pacifista che amava concludere sempre i suoi articoli con "stay human".
Shalhoub ripropone nelle due tele un colore informe e graffiato, disperso e quasi strappato, aspettando la pioggia in un flusso di memoria liquido. La mostra termina nell'ultima sala con un video intitolato Jerusalem avant la priere del 2014. E in una paziente e silenziosa attesa si consuma la visione. Se dapprima ci troviamo dinanzi a un muro di candele di cera, portando tempo a noi stessi ci accorgiamo che lentamente, questo impedimento decade, sciogliendosi e mostrandoci una Gerusalemme dal sole calante e sopito, in un'atmosfera dorata e sacra.
Una chiusura video che fa da cerniera, ripercorrendo l'intera poetica di Shalhoub, uno sguardo genuino, labile, dicotomico, prezioso che si disvela con il movimento del tempo liquidamente come cera, pungente come proiettili e filo spinato, raffinato come l'unione di amore e dolore. Opere caduche che pur restando umane ci restituiscono l'eterno. Un interstizio al miele tra lo sparo e il suono di un'arpa.
Non c'è vita che per un attimo non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo in quell'attimo
.
(Wislawa Szymborska)

Federica Fiumelli














martedì 21 ottobre 2014

Nemo's


My last article on WSI mag:
http://wsimag.com/it/arte/11570-nemos


Uno sparo. Uno strappo, un graffio. Era carta che si levava e a ogni abbandono dalla superficie era un rigenero. E poi l'acrilico nero flottava ma si posava deciso e irrequieto allo stesso tempo. Quel rumore di carta appallottolata e stracciata e toccata e vissuta e schiaffeggiata e incollata e accarezzata e accolta e scelta era come adrenalina pura che si andava a innestare tra i sensi. Un sottovuoto. La mela di Newton non si posava e rimaneva un pensiero indivisibile che gravava sulla gravità. La colla era come miele denso e le parole dei giornali come api si posavano distratte rapide per poco tempo, quello che bastava per essere di passaggio brevemente. Le linee sanno di liquirizia e fumo. 
"Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?". 
Così affermava Mark Renton in Trainspotting
E ancora Lou Reed canterebbe come segue:
I don't know just where I'm going
But I'm gonna try for the kingdom if I can
'Cause it makes me feel like I'm a man
When I put a spike into my vein
Then I tell you things aren't quite the same
When I'm rushing on my run
And I feel just like Jesus' son
And I guess that I just don't know
And I guess that I just don't know
E ancora scelgo queste strofe saltandone alcune: 
And I guess I just don't know
And I guess that I just don't know
I wish that I was born a thousand years ago
I wish that I'd sailed the darkened seas
On a great big clipper ship
Going from this land here to that
Ah, in a sailor's suit and cap
Away from the big city
Where a man cannot be free
Of all the evils of this town
And of himself and those around
Oh, and I guess that I just don't know
...
Ma "we can heroes just for one day" risponderebbe lo Ziggy Stardust per eccellenza. 
Hero-in il lavoro dell'artista Nemo's eleva l'essere uomo a eroina-eroe di un tempo dismesso rannicchiato su se stesso in un tunnel dalle sembianze tutt'altro che familiari. L'uomo è compresso nello spazio mortifero di una siringa. Il mondo si droga dell'uomo, ormai più stupefacente dello stupefatto. Underpressure, il contagio è a misura umana. Questo lavoro pensato per la IV biennale di Socino a Marco è il risultato di disegno, acrilico e carta da giornale, una cifra stilistica essenziale di Nemo's. Ma chi è Nemo's? 
La scelta del nome è già piuttosto affascinante, da Nemo capitano delle venti leghe sotto il mare, al corrispettivo latino no-one. Una tag perfetta per chi lentamente impara a conoscere le creature di Nemo's. Sono dei nessuno in misura di una bellezza straziante. Strane equazioni visive che riflettono situazioni comuni. Ma l'apostrofo S rimane un inequivocabile marchio di fabbrica. Un distintivo d'identità.
Ma andiamo per ordine. L'artista stesso ammette di non sapere se aver imparato prima a disegnare o scrivere. Un'immagine però resta vivida, un disegno di un cerchio rosso e due occhi lo resero molto felice, e la visione di un illustratore locale grazie al suo papà permisero a questa giovane mano di non smettere di disegnare (e fortunata-mente). Il resto è storia verrebbe quasi da dire.
Ma chi sono questi uomini che popolano i muri scelti accuratamente e mai per caso dall'artista? I lavori di Nemo's prevedono un prima e un dopo e questo grazie alla tecnica del collage scelta dall'artista che diventa un linguaggio nel linguaggio. La carta da giornale che l'artista utilizza è a tutti gli effetti un metalinguaggio. Oltre ad essere determinante per riconoscerlo ovunque, la carta è precaria, è suono, rumore, vita. I lavori di Nemo's invocano il tattilismo più sfrenato, anche di marinettiana memoria se vogliamo. Strappo dopo strappo, onomatopeica-mente presente cosa rimane? I personaggi si scarnificano mostrandoci impalcature ossee smaccatamente white. L'umanità apostrofo 'S è facilmente riconoscibile, quasi fatta in serie, si presenta nuda e cruda, e la pelle è caduca tanto quanto la nostra. I tatuaggi della loro pelle sono le nostre parole e la nostra storia. 
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni? O piuttosto delle nostre crude cronache? Purtroppo Shakespeare per un problema generazionale non poteva certo pensare a Il Sole 24 ore. Quel che è certo è che difficile assomigliare alle parole che si dicono per riprendere un pensiero alla Stefano Benni. Forse è proprio per questo che la generazione Nemo's fa fatica a rispecchiarsi nella società e le creature si presentano come numeri primi intrisi di solitudine. Ma senza cadere nella disperazione e nel pessimismo più leopardiano, questi esseri dai corpi opulenti e dagli arti troppo sottili per volare veramente, in questo squilibrio disarmonico ci fanno riflettere, portandoci a una lettura più profonda, ci ricordano la nuda vita decantata da Agamben, ricollegandoci ai concetti di bio politica di Foucault. 
Foucault legava indissolubilmente le politiche di governo al regime di realtà, dal dopoguerra il mercato è diventato il luogo dove si denota il senso della realtà. Il governo degli uomini si struttura secondo direttive e logiche fantasmatiche di potere che sia esso economico o politico. Nella fase della biopolitica il soggetto politico è la popolazione. La libertà è un paradosso. Agamben sosteneva infatti che il potere del governo si esercitava direttamente sulla vita, sul bios, sul nudo dato biologico. Il legame tra politica e vita è sicuramente mortifero e il campo di concentramento diventa paradigma di questa unione. Agamben fa così riferimento all'homo sacer:
"Sacer è colui che è stato escluso dal mondo degli uomini e che, pur non potendo essere sacrificato, è lecito uccidere senza commettere omicidio”. 
L'homo sacer così possiede solo la nuda vita, è un outsider, escluso dalla comunità, può essere ucciso da chiunque, viene definito anche una singolarità qualunque. E questa singolarità è proprio quello che custodiscono l'umanità apostrofo 'S. Gli esseri di Nemo's sono riconoscibili e identificabili tra loro perché quasi identici nei tratti compositivi ma allo stesso tempo sono singolarità, perché ogni pezzo di carta, ogni goccia di acrilico e ogni messaggio sono differenti. Fiori rari che si increspano su muri sempre diversi. Trovo significativo al fine della poetica dell'artista il titolo di un altro lavoro, il primo dove viene utilizzata la carta non a caso, R-UMoRi. 
I rumori sempre diversi scandagliano i sensi e come gli umori sono albe di giorni diversi. I sensi e l'emozione. La tecnica di usare il collage di carta riciclata permette al tempo di trasformare esteticamente l'opera al fine di una ricezione sempre diversa. Corpi lievitati, costellati da molteplici bocche come fossero serrature abbandonate, cuciture, appare un baby con palloncino rosso reale alla mano, false speranze? Il grafismo di Nemo's è risonante e sonoro, leggero ma perturbante, centrifugo e dinamico, la grafica è essenziale e la skin-paper acquista colori tonali tenui, omogenei nella loro differenza costante, una cipria di parole e fatti quotidiani. 
E allora colpiscono le linee di contorno che si fanno come tracce del tempo nei solchi degli alberi, si fanno massicce e numerose, si ripetono, in un virtuosismo allucinato, caricaturale e grottesco. Cerchi concentrici che vogliono essere suonati a suon di strappi come vinili di memoria latente. Gli occhi sono sassi lanciati in un oceano di pelle di parole, che lasciano il loro affondo visibile in quelle stradine di acrilico noir. E sono presenti anche intorno alle bocche, tracciando un all'ingiù quasi irrecuperabile, sono espressioni franate, catastrofiche. 
Intenso il lavoro fatto contro lo sfruttamento minorile che vede ogni giorno un numero elevato di bambini strappati al loro tempo per produrre oggetti di consumo quali scarpe. In Choose is better a Madrid, un bimb-uomo in posizione fetale fluttua evanescente aggrovigliato in una matassa malvagia rossa che lo tiene appeso insieme a desolanti scarpe. L'aborto del diritto all'infanzia è qui compiuto sotto le fila di un capitalismo beffardo. Sempre a Madrid altro lavoro intensamente poetico, Free like a birds vede racchiuso un uomo nella sua intera nuda vita in una gabbia appesa e sospesa, l'uomo rassegnato, spalanca la bocca e gli occhi non possono che guardare la moltitudine gialla, piumata di uccellini che circondano la prigionia, in un contrasto visivo da pugno allo stomaco, da montagna russa, una dicotomia contrappuntistica che cuce a sé libertà e controllo, immobilità e vita. 
E guardando nel profondo del vuoto che fa eco senza ritorno, ecco che l'intervento a Camden, Londra, presenta un uomo in orizzontale con una ferita, interstizio, serratura, tasca, al posto del cuore. Un enorme scavo di buio pesto. In mano un paio di forbici e la classica bocca spalancata tra lo spavento e la sorpresa, quinte teatrali abbandonate che mettono in scena drammi bulimici. Ma ecco che come al solito l'artista non sceglie a caso il proprio muro. Quando scende l'oscurità della notte ci rendiamo conto che la torcia che l'uomo tiene in mano è stata creata su un'illuminazione già esistente nel panorama urbano. 
Il disegno si innesta perfettamente nel già esistente per inglobarlo in un secondo tempo nella propria narrazione. Fare luce nelle interiore è un viaggio che spaventa ma Nemo's é strong è un balsamico alla menta, è carta da Fisherman's Friend, fa rimanere a bocca aperta noi come i propri personaggi. Molto critici anche gli ultimi lavori Rip Off a Sapri e Men like Cows a Vedriano. Nel primo caso l'uomo nudo (quasi larva bloccata per una successiva metamorfosi), è tirato per gli esili arti da due ceffi benvestiti, probabilmente business man a giudicare dal look. Ancora una volta la nuda vita è strattonata dalle potenze vigenti. A Vedriano invece la mutazione kafkiana è avvenuta con un eco di orwelliana memoria. L'uomo bovino dá show di sé, e ancora una volta, le chiazze dark tipiche del manto dell'animale in questione non sono che porte buie e profonde, precipizi dell'oscurità più gocciolante, finestre abbondante, dalle quali nessun papa o profeta potrà declamare salvezza. 
Trovo interessanti, molto interessanti anche le prime produzioni (dall'acrilico su tela, agli sketches ad altri supporti) dell'artista sempre rivolta con sguardo attento al dato contemporaneo che tanto ci influenza, e allora una Pietá che stringe tra le braccia un corpo che al posto della testa ha un bel monitor TV a tubi catodici acceso sul Grande Fratello, e ancora tv-volti Mediaset che si impiccano. O ancora il papa che orchestra uomini come un abile regista, o un coppia taglia over nuda seduta specularmente su poltrone da quiz show, rosse, che tenta di cambiarsi cambiando canale, (qualcuno spera nello spegnimento totale e permanente) signori scuri e lugubri incarnati e incarnanti i simboli di potere che al posto di un bicchiere di Starbucks succhiano linfa cerebrale da giovani cervelli. 
Nemo's riflette sulle forze di potere, sui simboli della cultura di massa, sui mass media e riconferma le tesi che già dai futuristi per arrivare a McLuhan o Orwell di come i moderni strumenti di comunicazione potessero influenzarci e di come questi esercitino su di noi vere e reali forme di controllo. E allora ecco che ci rivediamo come la nuda vita in quella gabbia sospesa, tra lo spaesamento e l'illusione fittizia di poter essere liberi. Cagacemento rimane uno dei pezzi su muro più forti (da menta strong) dell'artista, del 2010, a Milano, la creatura famelica, rosea e nuda si nutre avidamente di alberi per espellerli dal retro sottoforma di edifici, ed edifici, ed edifici in cemento, un'enumerazione più grigia di uno smog metropolitano. Sembra sentir cantare il rock politik Celentano ai tempi del ragazzo della via Gluck. "Perché continuano a costruire le case? E non lasciano l'erba. Non lasciano l'erba. Chissà se andiamo avanti così, chissà come si farà...". Chissà. 
L'immaginario allucinato della generazione apostrofo 'S come l'ho definita, targata Nemo's, ci lascia perplessi e perturbati in aperta riflessione con le cose che attorno a noi vivono anche se non ce ne accorgiamo, perché sì, non me ne vogliano i benpensanti se non mi avvalgo di una chiusura troppo raffinata ma Nemo's "spacca" letteralmente (o straccia in riferimento ai collage on wall) i lati B, d'altronde Cagacemento ce la dice #strong. Menta(l)mente.












The Monsters Mash @ Spazio San Giorgio, Bologna








Art of Sool
Opening Saturday 27th September 2014 - 7pm
27th September - 1st November 2014

La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.
Chuck Palahniuk, Cavie, 2005

Un mash up mostruoso, ecco che cos’è “Monster Mash”.
Sia mash che mostro sono parole che vogliono porre l’accento sulla mescolanza, sull’ibridazione, sul melting pot, sul mescolone, sul cocktail, sull’infuso, sulla contaminazione di mostruosità mostruose.
Forse si tratta di un’ apologia del mostro?
Ma prima di farne una celebrazione è giusto porsi: che cos’è un mostro?
È per il senso comune definito come un personaggio reale o immaginario cui vengono attribuite caratteristiche straordinarie per i quali ci si discosta dalla norma, si trascende quindi il normale e l’ordinario. (Ma cos’è poi definito normale?)
Spesso usato con accezione negativa, mostro viene definito anche chi deforme o chi presenta anomalie estetiche.
Ma è venuto prima il mostro o l’uomo?
Antico come questa domanda probabilmente retorica, di mostri se ne parla fin dalle origini, allora scappa un’enumerazione che farà sicuramente eco nella memoria di tutti: dal mondo egizio a quello greco basta pensare a Cerbero, alle gorgoni, al minotauro, a polifemo, al ciclope, e ancora in altre civiltà e culture, ai troll agli orchi, alle loscuste, alle bestie del mare, a Satana stesso, al floklore e alle fiabe, dai golem, alla mandragola, la bestia della Bella e la Bestia, a Quasimodo nel gobbo di Notre Dame, ai folletti agli gnomi, ai lupi mannari, ai vampiri, alle streghe che hanno popolato libri o film, a Dracula, a Frankestein, Freddy Krueger, a King Kong, a Mr. Hide, all’uomo che ride di Victor Hugo, alle mummie, alle fantasmagorie allucinate del cinema espressionista tedesco dei primi decenni del Novecento (da Nosferatu al Dott. Caligari), al più recente immaginario che va dagli alieni ai cyborg, ai post-human, agli esseri biomorfi e neo tecnologici che hanno popolato l’immaginario di Floria Sigismondi con i celebri videoclip per Marilyn Manson o David Bowie.
Sembra proprio che l’essere umano li generi e li crei per confrontarsi e interrogarsi in qualche modo su se stesso.
L’essere mostruoso ha da sempre infatti ispirato tutte le arti visive, dalla pittura alla scultura, al cinema, alla musica, come non ricordare uno su tutti, il padre dei moderni visionari, Goya, il quale affermava proprio che:
“Il sonno della ragione genera mostri.”
E allora ecco che irrazionalmente e ironicamente, in taglio super neo-pop, il collettivo degli “Art of Sool” ci sforna una generazione di mostri ad hoc.
Confezionati in vero stile sool, dal grafismo famelico e preciso, leggero e vivace, la banda di mostri che ci sguinzagliano è tutto sommato confortante e per niente spaventosa.
Si perché se la società vigente ci vuole tutti bell’impacchettati con lo stesso fiocco, in questa età della super iper comunicazione, in piena globalizzazione, dove la standardizzazione sembra la nostra vera ombra, quest’ombra tanto vale perderla come faceva Peter Pan.
E i Sool lo sanno bene, tant’è che i loro mostri sono realmente diversi, sono dei freak, outsiders, dei mash-up visivi altisonanti, sono differenti perché probabilmente riconoscono le loro paure e cacciano via la maschera dell’omologazione e delle finte e buoniste velleità “umane”.
I cliché se li mangiano a colazione.
I mostri del giovane collettivo bergamasco attingono dal più vasto e folle immaginario, si cibano di ogni cosa o idea facendo sbarcare l’estro collettivo della gang dalla strada, al fumetto, dal wall painting, all’illustrazione, questi ragazzi si nutrono di pane e fantasia, lavorano a più mani, e la loro polifonica bravura e passione rischiara chiassosamente su qualsiasi supporto prendano in considerazione: dal muro alla tela, non c’è pietà per questa invasione salvifica mostruosa. Le immagini di fatto sono caotiche e rumorose, un vero rave visivo.
Un baccano pazzesco, accentuato dalle scritte a fumetto, dalle onomatopee e dalla scelta di composizione a patchwork.
Plastici e volumetrici e i personaggi riempiono tutto lo spazio, ove ce ne sia, la mostruosità è virale, dai colori caramellosi, e rotondi, sembrano intonsi a qualsiasi pioggia acida. Anche nei bianchi e neri tutto è gommoso.
Sono già di per sé corrosivi al punto giusto. Geneticamente modificati sono troppo indie per far veramente paura, sono underground, o al massimo vivono di notte, alla deriva, dei clown situazionisti acronici. Sono maschere di loro stessi e hanno superato Pirandello, non hanno bisogno di nascondersene dietro una vera di maschera, perché loro sono così, tutti diversi divisi dall’uguale.
Originari più che originali, un po’ come ferite aperte, uniche e irripetibili, pullulano e schizzano di vita, pian piano cicatrizzano il dolore e ne fanno un’identità. DNA ad alto tasso di sballatura.
Una parata di flâneur grotteschi, dall’umorismo smaltato che scivola tra le rotondità abbondantemente presenti.
Sembrano urlarci: mostrate i vostri mostri.
L’etimologia di mostrare non a caso, significa: far vedere, presentare ad altri perché veda, esamini, osservi. Rivelare, lasciare vedere. Offrirsi alla vista.
Quindi vuol dire anche un po’ donarsi, e questo soprattutto oggi fa paura.
Fa paura vedere, e allora ci si accontenta di guardare.
Abbiate perciò coraggio di scendere dalla giostrina felice della perfezione apparente.
Mica facile però quando ti s’incolla l’etichetta sul volto.
Un elogio al disagio e alla bruttezza, qualcuno se ne frega della grande bellezza. Decadenti da ridere, un brutto rock, perfino Ensor si farebbe un selfie tra la monster walking targata Sool.
Comicità a parte, i Sool con questa new generation, ci fanno riflettere sulla paura dell’essere diverso, perché è più facile omologarsi che mostrarsi veramente. Ed oggi il mondo è pieno zeppo di paura e l’uomo preferisce giudicare ed escludere piuttosto che capire e integrare.
Chi sono allora i veri mostri?
Prendendo a prestito una cara frase dal film “Forrest Gump” viene quasi da dire:
“Mostro è chi mostro fa.” O forse ancora più opportuno apportando una lieve modifica: “Mostro è chi mostra di sé non fa.”

Federica Fiumelli - Spazio San Giorgio