Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

mercoledì 5 novembre 2014

Nawras Shalhoub


link: http://wsimag.com/it/arte/11809-nawras-shalhoub



A piece of wall for you mon amour






Figli dell'epoca
Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica.
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell'altro politica.
Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.
Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.

(Wislawa Szymborska)
Per introdurre il lavoro dell'artista palestinese Nawras Shalhoub mi sono servita delle parole di un'altra grande poetessa. Per parlare di poesia è necessaria la poesia, e Shalhoub ci parla poeticamente attraverso le sue opere. Politicamente.
La (galleria+) Oltredimore di Bologna dal 2 ottobre al 22 novembre presenta la prima personale in Italia dell'artista. Un'antologia di lavori in cui l'artista esplora la questione del dolore, venendo da un paese in conflitto, non ha avuto altra scelta che quella di essere in contatto con la sofferenza, sia fisica che morale. La sua ricerca artistica, quindi è il mezzo per entrare in contatto con il dolore, proprio e degli altri, un filtro, un catalizzatore per trasformarlo in energia.
Nato nel campo profughi palestinese di Yarmuck in Siria nel 1974 rientra con la sua famiglia in Palestina solo nel 1994 e rimane nella Striscia di Gaza fino al 2001. Diplomato alla Scuola di Belle Arti di Strasburgo nel 2007 vive ora in questa città. I suoi lavori, che abbracciano tanto la pittura quanto il video, le installazioni e la scultura sono stati esposti anche in Corea, Emirati Arabi Uniti, Francia e Palestina tra il 2008 e il 2013.
La mostra si apre con il lavoro dal mio punto di vista più intenso, A piece of the wall for you mon amour, un'installazione di sette mattoni di cemento con del filo spinato. Un'opera intrisa di poesia, di una bellezza che crea dolore, semplice tanto quanto complessa, che richiede riflessione e sosta per meglio osservarla. Quest'opera manifesto di Shalhoub racconta silenziosa ed elegante il modus operandi dell'artista. Il taglio grossolano, grezzo e pesante del cemento, la scelta di un mattone, che rimane dettaglio di un muro più mentale che fisico, avvolto da esili fili di metallo spinato, leggeri e ancorati; alcuni prendono nonostante tutto, la forma di un cuore. Un gesto quasi elementare, primario, lo sguardo di un uomo si concilia al gesto che potrebbe essere quello di un bambino. La dicotomia che contraddistingue la poetica di Shalhoub è disarmante. Leggerezza e pesantezza. Una precarietà fragile quanto bella.
Lo stesso artista dichiara: "La cosa migliore di una guerra è la sua fine: la fine dell'occupazione, la fine del dolore, la speranza che il domani arrivi senza bombe e senza morti, senza proiettili e senza muri; i muri non restano nella storia, forse durano qualche decina di anni ma non di più, chimere nell'esistenza di un popolo. Il muro di cemento e il muro nelle menti, non si nasconde, è visibile palpabile e lascia delle tracce nei corpi e nelle anime; un muro con il quale si può convivere, che si vede quando ci si abita di fianco, che ci impedisce di andare a vedere i nostri alberi e i nostri vicini, a volte la nostra famiglia, frontiera interna; un muro che si può scegliere di distruggere, con il quale si può scegliere di non convivere, bisogno di liberazione e di grandi paesaggi; per raggiungerli, immaginiamo un "dopo i muri". Eccone un pezzo, un regalo per te, amore mio, un regalo per tutti."
L'artista ci lascia quindi un dono importante, un dopo i muri, un'aperta riflessione di frontiera, difficoltosa, spinosa ma speranzosa. Un mattone che è inizio e seguito, oltre l'invisibile. Un mattone che da orpello diventa appello. Urgente e struggente. Not another brick in the wall.
Harp, è altrettanto poeticamente intensa. Una scultura leggera, appesa, sospesa, in ferro battuto e filo spinato, con corde e un casco militare. Una sinfonia tagliente e lacerante in bilico tra l'orrore della guerra e l'energia vibrante e melanconica di un'arpa ancestrale. Un suono vellutato dei cannoni riecheggia nelle memorie dorate di Shalhoub. Dorata come l'atmosfera tra l'onirico e il reale della fotografia in stampa digitale dedicata a sua figlia Sarah. Sarah davanti al muro, Sarah che si nasconde all'obiettivo con il muro che fa da limbo e ritorna evanescente nei lavori dell'artista. Un muro che separa in due metà speculari l'immagine. Tra l'oscurità e la doratura, un'atmosfera rarefatta quasi in procinto di sciogliersi come cera al sole. Delicata ma profondamente oscura, una barriera che può essere affrontata solo con un gesto di una bambina. Un sorriso.
Quella cera la ritroviamo non a caso fisicamente utilizzata per la scultura La guardienne des oliviers. L'artista impiega cera d'api, alberi d'olivo, terra e vetro. Materiali in trasformazione, che vivono, profumano e sono caduchi. Caduchi di una bellezza messa sempre a repentaglio dall'orrore. Il dolore e la sofferenza però si trasformano in un'installazione aulica, una donna dorata, giace accovacciata e seduta, scolpita nel tempo della memoria. Severa e scheggiata osserva e fa da guardia a un tumulo di terra. L'atmosfera è rara e sacra. Una perfetta armonia, oltre alle piante di olivo sembra essersi radicata in un'attesa atemporale. Le sottili filamenta di vetro, ritraggono uno sguardo di luce, mischiandosi alla terra, all'origine, e sembrano dare vita alla stessa donna di cera.
Monter leger, installazione site-specific pensata per la galleria, prevede una scala dapprima larga poi sempre più stretta. Di legno e delle asticelle vetrate, fibre metafisiche e metafore di un'ascesa complessa e probabilmente impossibile. Siamo sempre sulla soglia con Shalhoub, risospinti alla deriva. Tra amore e sofferenza. Vos dieux ne sont pas dans mon sang, opere che l'artista espone su tronchi di legno, facendo sembrare l'insieme un'unica installazione. Couple perduLe reve perdu de mon filsRien qu'un biberonreve survivant, la vie est belle avec tout le bourdel, sans larmes, sans issue.
Tra scritte e silhouette di bambini sotto al mirino, l'artista utilizza proiettili, cera d'api, miele in acquari dalle dimensioni variabili, l'amaro e il dolce si fondono in uno stato conservativo di memoria precaria. L'utilizzo di un materiale inconsueto come il proiettile è decisamente suggestivo, e ci riporta alla realtà dalla quale Shalhoub proviene. Fossili di slogan ben precisi come la vita è bella nonostante tutto il caos. Accumulazione di spari nell'occhio di chi guarda. La moltitudine di proiettili raccolti diventano pixel inesplosi e in alternanza di vuoti e pieni definiscono ombre, sagome e profili di un'identità di un popolo.
Shalhoub eredita dall'arte povera e concettuale l'attenzione per i materiali, l'energia e per le idee, la fusione di istinto primordiale e oggetto dal nouveau realisme, la poesia di Gonzalez-Torres che da un intimismo universale va al singolare, e al misticismo di un primo Kapoor. Interessanti sono anche le due tele presenti in mostra dai titoli entrambi riferiti alla pioggia, due acrilici su tela,J'attends la pluie e Pluie de la mer in memoria di Vittorio Arrigoni, l'attivista giornalista italiano sostenitore della soluzione binazionale in merito al conflitto israeliano-palestinese, ucciso da gruppo terrorista. Un pacifista che amava concludere sempre i suoi articoli con "stay human".
Shalhoub ripropone nelle due tele un colore informe e graffiato, disperso e quasi strappato, aspettando la pioggia in un flusso di memoria liquido. La mostra termina nell'ultima sala con un video intitolato Jerusalem avant la priere del 2014. E in una paziente e silenziosa attesa si consuma la visione. Se dapprima ci troviamo dinanzi a un muro di candele di cera, portando tempo a noi stessi ci accorgiamo che lentamente, questo impedimento decade, sciogliendosi e mostrandoci una Gerusalemme dal sole calante e sopito, in un'atmosfera dorata e sacra.
Una chiusura video che fa da cerniera, ripercorrendo l'intera poetica di Shalhoub, uno sguardo genuino, labile, dicotomico, prezioso che si disvela con il movimento del tempo liquidamente come cera, pungente come proiettili e filo spinato, raffinato come l'unione di amore e dolore. Opere caduche che pur restando umane ci restituiscono l'eterno. Un interstizio al miele tra lo sparo e il suono di un'arpa.
Non c'è vita che per un attimo non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo in quell'attimo
.
(Wislawa Szymborska)

Federica Fiumelli














martedì 21 ottobre 2014

Nemo's


My last article on WSI mag:
http://wsimag.com/it/arte/11570-nemos


Uno sparo. Uno strappo, un graffio. Era carta che si levava e a ogni abbandono dalla superficie era un rigenero. E poi l'acrilico nero flottava ma si posava deciso e irrequieto allo stesso tempo. Quel rumore di carta appallottolata e stracciata e toccata e vissuta e schiaffeggiata e incollata e accarezzata e accolta e scelta era come adrenalina pura che si andava a innestare tra i sensi. Un sottovuoto. La mela di Newton non si posava e rimaneva un pensiero indivisibile che gravava sulla gravità. La colla era come miele denso e le parole dei giornali come api si posavano distratte rapide per poco tempo, quello che bastava per essere di passaggio brevemente. Le linee sanno di liquirizia e fumo. 
"Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?". 
Così affermava Mark Renton in Trainspotting
E ancora Lou Reed canterebbe come segue:
I don't know just where I'm going
But I'm gonna try for the kingdom if I can
'Cause it makes me feel like I'm a man
When I put a spike into my vein
Then I tell you things aren't quite the same
When I'm rushing on my run
And I feel just like Jesus' son
And I guess that I just don't know
And I guess that I just don't know
E ancora scelgo queste strofe saltandone alcune: 
And I guess I just don't know
And I guess that I just don't know
I wish that I was born a thousand years ago
I wish that I'd sailed the darkened seas
On a great big clipper ship
Going from this land here to that
Ah, in a sailor's suit and cap
Away from the big city
Where a man cannot be free
Of all the evils of this town
And of himself and those around
Oh, and I guess that I just don't know
...
Ma "we can heroes just for one day" risponderebbe lo Ziggy Stardust per eccellenza. 
Hero-in il lavoro dell'artista Nemo's eleva l'essere uomo a eroina-eroe di un tempo dismesso rannicchiato su se stesso in un tunnel dalle sembianze tutt'altro che familiari. L'uomo è compresso nello spazio mortifero di una siringa. Il mondo si droga dell'uomo, ormai più stupefacente dello stupefatto. Underpressure, il contagio è a misura umana. Questo lavoro pensato per la IV biennale di Socino a Marco è il risultato di disegno, acrilico e carta da giornale, una cifra stilistica essenziale di Nemo's. Ma chi è Nemo's? 
La scelta del nome è già piuttosto affascinante, da Nemo capitano delle venti leghe sotto il mare, al corrispettivo latino no-one. Una tag perfetta per chi lentamente impara a conoscere le creature di Nemo's. Sono dei nessuno in misura di una bellezza straziante. Strane equazioni visive che riflettono situazioni comuni. Ma l'apostrofo S rimane un inequivocabile marchio di fabbrica. Un distintivo d'identità.
Ma andiamo per ordine. L'artista stesso ammette di non sapere se aver imparato prima a disegnare o scrivere. Un'immagine però resta vivida, un disegno di un cerchio rosso e due occhi lo resero molto felice, e la visione di un illustratore locale grazie al suo papà permisero a questa giovane mano di non smettere di disegnare (e fortunata-mente). Il resto è storia verrebbe quasi da dire.
Ma chi sono questi uomini che popolano i muri scelti accuratamente e mai per caso dall'artista? I lavori di Nemo's prevedono un prima e un dopo e questo grazie alla tecnica del collage scelta dall'artista che diventa un linguaggio nel linguaggio. La carta da giornale che l'artista utilizza è a tutti gli effetti un metalinguaggio. Oltre ad essere determinante per riconoscerlo ovunque, la carta è precaria, è suono, rumore, vita. I lavori di Nemo's invocano il tattilismo più sfrenato, anche di marinettiana memoria se vogliamo. Strappo dopo strappo, onomatopeica-mente presente cosa rimane? I personaggi si scarnificano mostrandoci impalcature ossee smaccatamente white. L'umanità apostrofo 'S è facilmente riconoscibile, quasi fatta in serie, si presenta nuda e cruda, e la pelle è caduca tanto quanto la nostra. I tatuaggi della loro pelle sono le nostre parole e la nostra storia. 
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni? O piuttosto delle nostre crude cronache? Purtroppo Shakespeare per un problema generazionale non poteva certo pensare a Il Sole 24 ore. Quel che è certo è che difficile assomigliare alle parole che si dicono per riprendere un pensiero alla Stefano Benni. Forse è proprio per questo che la generazione Nemo's fa fatica a rispecchiarsi nella società e le creature si presentano come numeri primi intrisi di solitudine. Ma senza cadere nella disperazione e nel pessimismo più leopardiano, questi esseri dai corpi opulenti e dagli arti troppo sottili per volare veramente, in questo squilibrio disarmonico ci fanno riflettere, portandoci a una lettura più profonda, ci ricordano la nuda vita decantata da Agamben, ricollegandoci ai concetti di bio politica di Foucault. 
Foucault legava indissolubilmente le politiche di governo al regime di realtà, dal dopoguerra il mercato è diventato il luogo dove si denota il senso della realtà. Il governo degli uomini si struttura secondo direttive e logiche fantasmatiche di potere che sia esso economico o politico. Nella fase della biopolitica il soggetto politico è la popolazione. La libertà è un paradosso. Agamben sosteneva infatti che il potere del governo si esercitava direttamente sulla vita, sul bios, sul nudo dato biologico. Il legame tra politica e vita è sicuramente mortifero e il campo di concentramento diventa paradigma di questa unione. Agamben fa così riferimento all'homo sacer:
"Sacer è colui che è stato escluso dal mondo degli uomini e che, pur non potendo essere sacrificato, è lecito uccidere senza commettere omicidio”. 
L'homo sacer così possiede solo la nuda vita, è un outsider, escluso dalla comunità, può essere ucciso da chiunque, viene definito anche una singolarità qualunque. E questa singolarità è proprio quello che custodiscono l'umanità apostrofo 'S. Gli esseri di Nemo's sono riconoscibili e identificabili tra loro perché quasi identici nei tratti compositivi ma allo stesso tempo sono singolarità, perché ogni pezzo di carta, ogni goccia di acrilico e ogni messaggio sono differenti. Fiori rari che si increspano su muri sempre diversi. Trovo significativo al fine della poetica dell'artista il titolo di un altro lavoro, il primo dove viene utilizzata la carta non a caso, R-UMoRi. 
I rumori sempre diversi scandagliano i sensi e come gli umori sono albe di giorni diversi. I sensi e l'emozione. La tecnica di usare il collage di carta riciclata permette al tempo di trasformare esteticamente l'opera al fine di una ricezione sempre diversa. Corpi lievitati, costellati da molteplici bocche come fossero serrature abbandonate, cuciture, appare un baby con palloncino rosso reale alla mano, false speranze? Il grafismo di Nemo's è risonante e sonoro, leggero ma perturbante, centrifugo e dinamico, la grafica è essenziale e la skin-paper acquista colori tonali tenui, omogenei nella loro differenza costante, una cipria di parole e fatti quotidiani. 
E allora colpiscono le linee di contorno che si fanno come tracce del tempo nei solchi degli alberi, si fanno massicce e numerose, si ripetono, in un virtuosismo allucinato, caricaturale e grottesco. Cerchi concentrici che vogliono essere suonati a suon di strappi come vinili di memoria latente. Gli occhi sono sassi lanciati in un oceano di pelle di parole, che lasciano il loro affondo visibile in quelle stradine di acrilico noir. E sono presenti anche intorno alle bocche, tracciando un all'ingiù quasi irrecuperabile, sono espressioni franate, catastrofiche. 
Intenso il lavoro fatto contro lo sfruttamento minorile che vede ogni giorno un numero elevato di bambini strappati al loro tempo per produrre oggetti di consumo quali scarpe. In Choose is better a Madrid, un bimb-uomo in posizione fetale fluttua evanescente aggrovigliato in una matassa malvagia rossa che lo tiene appeso insieme a desolanti scarpe. L'aborto del diritto all'infanzia è qui compiuto sotto le fila di un capitalismo beffardo. Sempre a Madrid altro lavoro intensamente poetico, Free like a birds vede racchiuso un uomo nella sua intera nuda vita in una gabbia appesa e sospesa, l'uomo rassegnato, spalanca la bocca e gli occhi non possono che guardare la moltitudine gialla, piumata di uccellini che circondano la prigionia, in un contrasto visivo da pugno allo stomaco, da montagna russa, una dicotomia contrappuntistica che cuce a sé libertà e controllo, immobilità e vita. 
E guardando nel profondo del vuoto che fa eco senza ritorno, ecco che l'intervento a Camden, Londra, presenta un uomo in orizzontale con una ferita, interstizio, serratura, tasca, al posto del cuore. Un enorme scavo di buio pesto. In mano un paio di forbici e la classica bocca spalancata tra lo spavento e la sorpresa, quinte teatrali abbandonate che mettono in scena drammi bulimici. Ma ecco che come al solito l'artista non sceglie a caso il proprio muro. Quando scende l'oscurità della notte ci rendiamo conto che la torcia che l'uomo tiene in mano è stata creata su un'illuminazione già esistente nel panorama urbano. 
Il disegno si innesta perfettamente nel già esistente per inglobarlo in un secondo tempo nella propria narrazione. Fare luce nelle interiore è un viaggio che spaventa ma Nemo's é strong è un balsamico alla menta, è carta da Fisherman's Friend, fa rimanere a bocca aperta noi come i propri personaggi. Molto critici anche gli ultimi lavori Rip Off a Sapri e Men like Cows a Vedriano. Nel primo caso l'uomo nudo (quasi larva bloccata per una successiva metamorfosi), è tirato per gli esili arti da due ceffi benvestiti, probabilmente business man a giudicare dal look. Ancora una volta la nuda vita è strattonata dalle potenze vigenti. A Vedriano invece la mutazione kafkiana è avvenuta con un eco di orwelliana memoria. L'uomo bovino dá show di sé, e ancora una volta, le chiazze dark tipiche del manto dell'animale in questione non sono che porte buie e profonde, precipizi dell'oscurità più gocciolante, finestre abbondante, dalle quali nessun papa o profeta potrà declamare salvezza. 
Trovo interessanti, molto interessanti anche le prime produzioni (dall'acrilico su tela, agli sketches ad altri supporti) dell'artista sempre rivolta con sguardo attento al dato contemporaneo che tanto ci influenza, e allora una Pietá che stringe tra le braccia un corpo che al posto della testa ha un bel monitor TV a tubi catodici acceso sul Grande Fratello, e ancora tv-volti Mediaset che si impiccano. O ancora il papa che orchestra uomini come un abile regista, o un coppia taglia over nuda seduta specularmente su poltrone da quiz show, rosse, che tenta di cambiarsi cambiando canale, (qualcuno spera nello spegnimento totale e permanente) signori scuri e lugubri incarnati e incarnanti i simboli di potere che al posto di un bicchiere di Starbucks succhiano linfa cerebrale da giovani cervelli. 
Nemo's riflette sulle forze di potere, sui simboli della cultura di massa, sui mass media e riconferma le tesi che già dai futuristi per arrivare a McLuhan o Orwell di come i moderni strumenti di comunicazione potessero influenzarci e di come questi esercitino su di noi vere e reali forme di controllo. E allora ecco che ci rivediamo come la nuda vita in quella gabbia sospesa, tra lo spaesamento e l'illusione fittizia di poter essere liberi. Cagacemento rimane uno dei pezzi su muro più forti (da menta strong) dell'artista, del 2010, a Milano, la creatura famelica, rosea e nuda si nutre avidamente di alberi per espellerli dal retro sottoforma di edifici, ed edifici, ed edifici in cemento, un'enumerazione più grigia di uno smog metropolitano. Sembra sentir cantare il rock politik Celentano ai tempi del ragazzo della via Gluck. "Perché continuano a costruire le case? E non lasciano l'erba. Non lasciano l'erba. Chissà se andiamo avanti così, chissà come si farà...". Chissà. 
L'immaginario allucinato della generazione apostrofo 'S come l'ho definita, targata Nemo's, ci lascia perplessi e perturbati in aperta riflessione con le cose che attorno a noi vivono anche se non ce ne accorgiamo, perché sì, non me ne vogliano i benpensanti se non mi avvalgo di una chiusura troppo raffinata ma Nemo's "spacca" letteralmente (o straccia in riferimento ai collage on wall) i lati B, d'altronde Cagacemento ce la dice #strong. Menta(l)mente.












The Monsters Mash @ Spazio San Giorgio, Bologna








Art of Sool
Opening Saturday 27th September 2014 - 7pm
27th September - 1st November 2014

La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.
Chuck Palahniuk, Cavie, 2005

Un mash up mostruoso, ecco che cos’è “Monster Mash”.
Sia mash che mostro sono parole che vogliono porre l’accento sulla mescolanza, sull’ibridazione, sul melting pot, sul mescolone, sul cocktail, sull’infuso, sulla contaminazione di mostruosità mostruose.
Forse si tratta di un’ apologia del mostro?
Ma prima di farne una celebrazione è giusto porsi: che cos’è un mostro?
È per il senso comune definito come un personaggio reale o immaginario cui vengono attribuite caratteristiche straordinarie per i quali ci si discosta dalla norma, si trascende quindi il normale e l’ordinario. (Ma cos’è poi definito normale?)
Spesso usato con accezione negativa, mostro viene definito anche chi deforme o chi presenta anomalie estetiche.
Ma è venuto prima il mostro o l’uomo?
Antico come questa domanda probabilmente retorica, di mostri se ne parla fin dalle origini, allora scappa un’enumerazione che farà sicuramente eco nella memoria di tutti: dal mondo egizio a quello greco basta pensare a Cerbero, alle gorgoni, al minotauro, a polifemo, al ciclope, e ancora in altre civiltà e culture, ai troll agli orchi, alle loscuste, alle bestie del mare, a Satana stesso, al floklore e alle fiabe, dai golem, alla mandragola, la bestia della Bella e la Bestia, a Quasimodo nel gobbo di Notre Dame, ai folletti agli gnomi, ai lupi mannari, ai vampiri, alle streghe che hanno popolato libri o film, a Dracula, a Frankestein, Freddy Krueger, a King Kong, a Mr. Hide, all’uomo che ride di Victor Hugo, alle mummie, alle fantasmagorie allucinate del cinema espressionista tedesco dei primi decenni del Novecento (da Nosferatu al Dott. Caligari), al più recente immaginario che va dagli alieni ai cyborg, ai post-human, agli esseri biomorfi e neo tecnologici che hanno popolato l’immaginario di Floria Sigismondi con i celebri videoclip per Marilyn Manson o David Bowie.
Sembra proprio che l’essere umano li generi e li crei per confrontarsi e interrogarsi in qualche modo su se stesso.
L’essere mostruoso ha da sempre infatti ispirato tutte le arti visive, dalla pittura alla scultura, al cinema, alla musica, come non ricordare uno su tutti, il padre dei moderni visionari, Goya, il quale affermava proprio che:
“Il sonno della ragione genera mostri.”
E allora ecco che irrazionalmente e ironicamente, in taglio super neo-pop, il collettivo degli “Art of Sool” ci sforna una generazione di mostri ad hoc.
Confezionati in vero stile sool, dal grafismo famelico e preciso, leggero e vivace, la banda di mostri che ci sguinzagliano è tutto sommato confortante e per niente spaventosa.
Si perché se la società vigente ci vuole tutti bell’impacchettati con lo stesso fiocco, in questa età della super iper comunicazione, in piena globalizzazione, dove la standardizzazione sembra la nostra vera ombra, quest’ombra tanto vale perderla come faceva Peter Pan.
E i Sool lo sanno bene, tant’è che i loro mostri sono realmente diversi, sono dei freak, outsiders, dei mash-up visivi altisonanti, sono differenti perché probabilmente riconoscono le loro paure e cacciano via la maschera dell’omologazione e delle finte e buoniste velleità “umane”.
I cliché se li mangiano a colazione.
I mostri del giovane collettivo bergamasco attingono dal più vasto e folle immaginario, si cibano di ogni cosa o idea facendo sbarcare l’estro collettivo della gang dalla strada, al fumetto, dal wall painting, all’illustrazione, questi ragazzi si nutrono di pane e fantasia, lavorano a più mani, e la loro polifonica bravura e passione rischiara chiassosamente su qualsiasi supporto prendano in considerazione: dal muro alla tela, non c’è pietà per questa invasione salvifica mostruosa. Le immagini di fatto sono caotiche e rumorose, un vero rave visivo.
Un baccano pazzesco, accentuato dalle scritte a fumetto, dalle onomatopee e dalla scelta di composizione a patchwork.
Plastici e volumetrici e i personaggi riempiono tutto lo spazio, ove ce ne sia, la mostruosità è virale, dai colori caramellosi, e rotondi, sembrano intonsi a qualsiasi pioggia acida. Anche nei bianchi e neri tutto è gommoso.
Sono già di per sé corrosivi al punto giusto. Geneticamente modificati sono troppo indie per far veramente paura, sono underground, o al massimo vivono di notte, alla deriva, dei clown situazionisti acronici. Sono maschere di loro stessi e hanno superato Pirandello, non hanno bisogno di nascondersene dietro una vera di maschera, perché loro sono così, tutti diversi divisi dall’uguale.
Originari più che originali, un po’ come ferite aperte, uniche e irripetibili, pullulano e schizzano di vita, pian piano cicatrizzano il dolore e ne fanno un’identità. DNA ad alto tasso di sballatura.
Una parata di flâneur grotteschi, dall’umorismo smaltato che scivola tra le rotondità abbondantemente presenti.
Sembrano urlarci: mostrate i vostri mostri.
L’etimologia di mostrare non a caso, significa: far vedere, presentare ad altri perché veda, esamini, osservi. Rivelare, lasciare vedere. Offrirsi alla vista.
Quindi vuol dire anche un po’ donarsi, e questo soprattutto oggi fa paura.
Fa paura vedere, e allora ci si accontenta di guardare.
Abbiate perciò coraggio di scendere dalla giostrina felice della perfezione apparente.
Mica facile però quando ti s’incolla l’etichetta sul volto.
Un elogio al disagio e alla bruttezza, qualcuno se ne frega della grande bellezza. Decadenti da ridere, un brutto rock, perfino Ensor si farebbe un selfie tra la monster walking targata Sool.
Comicità a parte, i Sool con questa new generation, ci fanno riflettere sulla paura dell’essere diverso, perché è più facile omologarsi che mostrarsi veramente. Ed oggi il mondo è pieno zeppo di paura e l’uomo preferisce giudicare ed escludere piuttosto che capire e integrare.
Chi sono allora i veri mostri?
Prendendo a prestito una cara frase dal film “Forrest Gump” viene quasi da dire:
“Mostro è chi mostro fa.” O forse ancora più opportuno apportando una lieve modifica: “Mostro è chi mostra di sé non fa.”

Federica Fiumelli - Spazio San Giorgio











domenica 21 settembre 2014

Senza perdere tempo, per Ross

My last article on Wall Street International Magazine:

http://wsimag.com/it/arte/10851-senza-perdere-tempo-per-ross

Enjoy!

 :)


Come un pomeriggio d’autunno ma in piena estate, entrare delicatamente tra le increspature dell’atmosfera, bagnata, umida, soffice e particolarmente diversa. Una di quelle giornate guscio che si schiudono per l’alba raffinata che si portano appresso, come un’ombra preziosa e troppo fragile. Una giornata silenziosa ma bella da gridare e da stringersi ancora di più. La sensazione era quella di un cuscino di piume, vere, sottili, e così leggere da volare via con il più timido dei sospiri e così bianche che il latte più liquido sfiorirebbe. Ma queste piume erano libere, la fodera del cuscino non le conteneva più e si sparpagliavano tutte confuse, sempre con molta grazia. Poi un tonfo, attutito, di una chiave rugginosa, ambrata, metallica, ci cade sopra, e scompare tra gli ultimi rumori soffocati, tra il piumato pallido.
We might live like never before
When there's nothing to give
Well how can we ask for more
We might make love in some sacred place
The look on your face is delicate
Così canterebbe malinconico Damien Rice con la sua voce, sospirando lentamente. Adagio. Con un lento crescendo.
E poi il video di Javier Pérez che narra di una ballerina danzante. Una danza che diventa al tempo stesso sforzo e lotta, visto che alle classiche punte sono legati coltelli dalle affilate, spietate e crude lame. Ma lei continua a provare, prova a muoversi, sopra un pianoforte in un teatro semibuio, accoccolato da tiepide e fioche luci. La stessa complessa e difficile danza che ha portato Félix Gonzalez-Torres ad amare la vita, l’amore e il suo compagno Ross, sopra di tutto.
Un incipit, una serie di escursioni estetiche per introdurre “sensorialmente” ciò che il lavoro il Gonzalez-Torres mi ha fin dal primo sguardo regalato. Cresciuto a Porto-Rico, da 1979 si trasferì a New York dove continuò a studiare arte e fotografia. In un post-moderno che trova nella sfera quotidiano-intimistica la propria radice, Gonzalez-Torres ha puntato sempre all’essenza nelle sue installazioni dall’aspetto minimalista.
Pochi materiali, pressoché comuni, quali caramelle, lampadine, fogli di carta, gomme da masticare, predisposti in cumoli, ma anche coppie di orologi, fotografie, grandi cartelloni posizionati in aree urbane.
Come la ballerina del video “En puntas” di Pérez, l’artista portoricano grida ad alta intensità in un silenzio delicato, al dolore, alla malattia, a quella lama spietata che è l’AIDS. La malattia che si portò via Ross e poi lo stesso Félix.
Ma quella lama nel video, lascia segni e tracce incancellabili sul quel pianoforte muto. E l’arte di Gozalez-Torres ne sono la prova, sono il regalo inestimabile che un uomo dall’intensità e dal lirismo vibrante, colonne portanti della sua poetica, ci ha lasciato. Lui stesso affermava: “L’arte è soprattutto un modo per lasciare una traccia della mia esistenza: io ero qui. Ho avuto fame, sono stato tradito, ero felice, ero triste, mi sono innamorato, ho avuto paura, ho avuto tante speranze, ho avuto un’idea, avevo un buon fine, ecco perché faccio arte
E proprio perché lui era ed è vivo nelle sue opere, noi non dobbiamo essere da meno. E per questo tutti i suoi lavori prevedono uno spettatore attivo, che sia lì, che sia presente anch’esso, le sue opere sono destinate a consumarsi, scomparire, ad esaurirsi, proprio come la nostra esistenza.
L’opera che ha acceso letteralmente il mio cuore, attivandomi profondamente, facendomi cadere tra le piume bianche, sordidamente e delicatamente, lasciando un segno dentro di me, una di quelle opere che ti cambiano il modo di guardare, e ti fanno salire il nodo alla gola, sempre in punta di piedi, è sicuramente “Untitled” (portrait of Ross in L.A.) del 1991.
Apparentemente il gioco di un bambino, profondamente diversa. Un’opera che con il suo valore simbolico, si disvela lasciandoci stupiti.
Un cumulo di caramelle colorate, equivalenti al peso dell’amato Ross. Gli spettatori non devono e non possono restare indifferenti, ma devono interagire e far vivere l’opera come se fosse il corpo di Ross in carne ed ossa. Come? Prendendo semplicemente una caramella per farne quello che si vuole, scartarla, mangiarla, spostarla. Ogni cosa è Ross. E noi davanti a quella piccola montagna colorata di caramelle, sappiamo. O meglio riconosciamo, e sapere o riconoscere vuol dire ricordare, perché Félix ci parla dell’amore, dell’amore perso, e dal particolare vola all’universale, perché ognuno di noi ha un cumolo di caramelle lì sul cuore. E quando scartiamo quella caramella, spogliamo un’esperienza comune. L’esperienza dell’aver amato, dell’aver vissuto, dell’essere stato, e siamo lì senza copertura. Siamo nudi. Davanti a tanta semplicità. L’artista non prevede grandi esecuzioni manuali tecniche, prende delle caramelle e ci spoglia. Ma come lo stesso Jung affermava: “La vera difficoltà sta nell’essere semplici.” Semplicità che attenzione, non va assolutamente confusa con la facilità che ammette l’assenza di un processo creativo. Niente da aggiungere, niente orpelli, kitsch o superfluo. L’arte di Félix mira al cuore. Dritto, dritto. Fitto. L’essenza. Ecco. L’assenza vive tramite l’essenza, sempre in ogni lavoro. Mi viene in mente un passo che vede protagonisti Beckett e Giacometti che Paolo Rosa in L”arte fuori di sé” riprende per ricordare quanto sia importante levare per restituire l’invisibile, soprafatti come siamo oggi da una saturazione semiotica continua propinata soprattutto dai mass media e dalle tecnologie.
“Beckett aveva scelto l’albero come unica scenografia del suo primo allestimento parigino di “Aspettando Godot” e ne aveva affidato la realizzazione a Giacometti.“Ci doveva essere un albero. Un albero e la luna. Siamo stati lì tutta la notte, con quell’albero di gesso, a togliere, ad abbassare, a fare i rami più sottili. Non andava mai bene, per nessuno dei due. E uno diceva sempre all’altro:”Forse”. Passa il tempo. Nessuno in sala, o sul palcoscenico, osa fiatare. Quando Giacometti si alza deciso. Attraversa il teatro, sale su un praticabile e guardando da vicino il proprio albero comincia a togliere un rametto dopo l’altro. Ogni tanto si ferma e grida a Beckett seduto laggiù nel buio della platea:
Giacometti – Adesso va meglio no?
Beckett – E’ perfetto. Adesso va proprio bene.
Giacometti – Un momento ancora. Aspetta…e così?
Beckett – Bè, così è perfetto.
Giacometti – Aspetta, ecco.
Quando Giacometti fu soddisfatto, dell’albero era rimasto soltanto l’esile tronco. Dalla platea, dove i due si ritrovarono per fumare insieme, si vedeva un cosa striminzita e storta, una specie di niente della natura che a loro sembrò l’ideale.”
E come non ricordare l’eco cinquecentesco e rinascimentale michelangiolesco, del levare per giungere all’essenza che è già lì, spetta solo all’artista donare all’invisibile forma visibile.
“Neve che conserva l’impronta di un uccello”, con queste parole Jean Cocteau deiniva le sculture di Giacometti. Lo stesso effetto lo lasciano le opere di Félix. Opere che sono esse stesse concetto e simbolo di un durata temporale effimera. Tutte sembra decisamente volto a perire. Ma è proprio questa caducità che freudianamente parlando conduce alla bellezza.
Bellezza che è quindi imperfezione come in “Untitled (perfect lovers)” 1991, due orologi pressoché identici, sono fissati alla parate, sincronizzati e vicini, come una coppia. Improvvisamente uno si fermerà, uno andrà avanti. La solitudine è una condizione imprescindibile. Inevitabilmente qualcosa finirà.
Ogni anno nella giornata mondiale contro l’AIDS viene ripetuta un’installazione, per la prima volta esposta il primo Dicembre 1991 al Williams College Museum of Art, “Untitled” (Placebo), un tappeto argenteo di caramelle disposte in un rettangolo, che piano piano tenderà a dissolversi, perché i passanti potranno portare con sé parte dell’opera, scegliendo di prendere una caramella. Un deposito di lacrime amare, Félix incarta il suo dolore per non dimenticare, e noi diventiamo custodi di un pianto e di uno straziante sofferenza che in questo modo però trova vita e evita l’inerme. Mangiamo una caramella, mastichiamo il dolore. Se non se ne parla, lo si deve almeno manipolare in qualche modo. Una distesa metafisica, una paesaggio della memoria, che acquista valore solo se “calpestata” dallo spettatore, ecco come si presenta l’opera.
L’arte si confonde con la vita, e Gonzàlez-Torres lo fa tramite l’utilizzo di materiali anonimi, ha reso pubblico le proprie battaglie personali, come l’essere immigrato cubano negli USA, l’omosessualità, l’AIDS, ha dimostrato quanto l’amore può generare.
E l’elettricità generata dalle due lampadine usate per l’installazione “Untitled” (March 5th) #2 non è solo fisica ma simbolica. L’immaterialità della luce diventa simbologia della coppia, un elàn vitale dal flusso irregolare e fragile. Il flusso di luce da stabile si protrarrà all’intermittenza e ad un fioco perire. Vi è sempre quindi un attivo dinamismo lirico, sottile, leggero, so delicate..
Un altro lavoro, sempre del 1991 che non può non essere ricordato, è la decisione di far diventare cartellone pubblicitario, una foto intima, preziosa, l’immagine di un letto disfatto, quel letto dove probabilmente si era consumato l’amore con Ross.
Ross che è l’elettricità dei lavori di Félix.
Guardando quella foto ognuno di noi si può riflettere, navigando così a fior di pelle in un torrente di ricordi, che ci riporta alla mente i momenti nei quali esser spettinati, tra quelle lenzuola stropicciate, ci faceva sentire vivi. Si perché quel letto vissuto è l’impronta sulla neve, passeggera ma con un peso specifico sul corpo della memoria di tutti quanti noi.
Ma se non ricorderemo, sicuramente l’arte di Félix fa riflettere sul sottile confine così scivoloso tra arte e vita, tra pubblico e privato.
Félix è un po’ di ognuno di noi. Ross è un po’ di ognuno di noi. Entrambi sono parti di un sentire comune, potente ed intenso. Amplificato. So delicate. So strong.
Rileggo spesso l’intervista che Cattelan fece a Félix per Mousse Magazine, e che concludeva così:
Cattelan: Credi che questa mostra scatenerà molti ricordi nella mente delle persone?
Gonzàlez-Torres: No. La gente semplicemente non ricorda. È come in Casablanca, quando Humphrey Bogart dice: “Molto tempo fa, la notte scorsa.” Le persone non ricordano la notte scorsa.
Cattelan: Allora perché farlo? Per cosa?
Gonzàlez-Torres: (pausa) Onestamente, senza perdere tempo: per Ross.
Così tra le note di “Olsen, Olsen” dei Sigur Rós, scivoliamo via, tra le piume bianche, in un pomeriggio autunnale in piena estate. So delicate.
Federica Fiumelli














lunedì 14 luglio 2014

Milan Grygar. Sound on paper


link: http://wsimag.com/it/arte/9941-milan-grygar-sound-on-paper



17 mag19 lug 2014 presso Galleria P420, Bologna

Alla nota del fiume si accordò un altro suono. L’uomo con un bastoncino, batteva sul fango secco. Quel rumore ritmico, il pulsare di un cuore, richiamò qualcuno. (Stefano Benni)
Proprio un bastoncino sta all’origine della ricerca artistica tra immagine e suono dell’artista slovacco Milan Grygar. Un bastoncino limen che si fa confine leggero e opaco tra il vedere e l’ascoltare, miccia di un'unione esplosiva tra anime separate ingiustamente.
Era il 1964 e l’artista racconta che mentre stava disegnando, usando uno strumento insolito come un bastoncino intinto nell’inchiostro, si accorse che nel silenzio dello studio il picchiettio e lo sfregamento del legno sulla carta creavano un ritmo elaborato. I passi di danza di quel bastoncini accesero la miccia. L’artista poi registrò intenzionalmente su nastro quei suoni e gli sembrarono interessanti tanto quanto il disegno che avevano generato.
L’arte occidentale ha sempre tenuto separati la vista e l’udito, la poetica di Grygar invece vede l’indissolubile legame sensuale tra essi. La galleria bolognese P420 presenta la mostra personale dell’artista slovacco, e all’interno di essa si possono ammirare gli Acustic Drawings, i Sound Plastic DrawingsLinear Score, gli acquarelli e un paio di video che mostrano l’artista al lavoro.
Proprio da uno di questi video sono rimasta colpita: l’artista stava inserendo bastoncini accesi e bruciati nel becco di uccellini-giocattolo che meccanicamente si alzavano e si abbassavano come quando becchettano. Gli uccellini-giocattolo si spargevano dunque a caso sul foglio lasciando tracce nere di quei bastoncini. Un fare-gioco dunque quello di Grygar che richiama la distinzione kantiana tra Poiesis e Prattein, entrambi termini del greco antico indicante un fare.
La Poiesis però si distingue per il suo alludere a un fare fine a se stesso, un fare non finalizzato, perché il fare e il divenire sono dimensioni e condizioni dell’esistere nel mondo e del mondo. Poiesis che è il fare-poetare del gioco. Un’arte che accade dunque e che contiene la propria linfa vitale nel movimento e nell’azione. Gli Acustic Drawings sono quindi un letto disfatto dopo aver fatto l’amore, sono segni di gesti concreti, di un agire sul foglio, la componente performativa è densa e fortemente percepibile e non bandita allo spazio privato dello studio, perché questi disegni sono atti performativi eseguiti in tempo reale davanti al pubblico.
Grygar, illusionista, mago, musicista e coreografo dei suoi giocattolini a molla inchiostrati, strumenti da disegno insoliti che estraeva da un cappello a cilindro, spettacolarità ludica e caso controllato sono le vallette più sexy di quello spettacolo di magia. Suono e visione, intenzione e caso, azione e traccia, anime complementari pronte e mischiarsi nella poetica dell’artista slovacco. Ma se gli Acoustic Drawings manifestavano visivamente un suono già trascorso e vissuto, a partire dagli anni 1987-68 l’artista esplora una via opposta, inizia così a comporre immagini come partiture dalle quali si potranno produrre composizioni sonore. Ed ecco che in mostra si possono ammirare iSound-Plastic Drawings e Linear Score, lavori a china su carta, composizioni di linee parallele diritte e curve, disegnate così meccanicamente da sembrare stampe digitali o lavori grafici fatti al computer. A prima vista nessuno sospetterebbe di una manualità così precisa e zen, ma ecco che avvicinandosi si notano discrepanze, le linee cambiano colore, dal rosso al nero, di orientamento e posizione rispetto alla griglia prefissata. Leggere e sordide variazioni, virate impercettibili.
Grygar affida ai musicisti la traduzione delle linee nello spazio cartaceo in suoni nel tempo. La linea come durata corona l’artista eleggendolo a sismografo sensibile di tempo, un tempo che si può vedere e ascoltare, un tempo che diventa suono su carta. Come sottolinea il curatore Simone Menegoi, “La linea – ha affermato l’artista a proposito di una serie successiva e affine a quella deiLinear scores – è un’impronta di energia, un orientamento nello spazio, sulla superficie e anche nel tempo. E’ una durata.”
Le austere criptiche e astratte composizioni geometriche che l’artista partorisce come partiture sono quindi testamenti di un rigore formale assoluto, una linea che è sforzo di precisione che richiede tempo, spazio e metodo. Una linea che si fa cerchio interrotto, o linea diagonale ma scaglionata e quadrettata, che si tinge di rosso o decide di perdersi nel nero. Solo concependo i Sound Plastic Drawings come lavori compiuti dall’artista a mano con la china, si può comprendere l’importanza e il valore simbolico che Grygar dà alla durata, e così al concetto di tempo che è proprio della dimensione sonora. Mi sembra di immaginarlo lì su quella distesa pallida della superficie cartacea, concentrato in ascolto, sempre, di quel silenzio che accade, dando forma al tempo. Linea dopo linea, traccia dopo traccia, per un’archeologia visiva quasi folle e autonoma.
Occorre quindi a nostra volta sostare più di qualche minuto davanti alle composizioni plastiche e sonore dell’artista, per far naufragare la visione in quel campo di battaglia di linee dove tutto è sospeso nella forma dell’eternità. Sono infine esposti in mostra una serie di acquarelli senza titolo piuttosto colorati, dalla pennellata circolare o tozza, breve, intensa larga e ripetuta, ma sempre diversa come un suono. Acquarelli su carta che ribadiscono come il disegno attraverso il gesto e il movimento si unisca e ricolleghi alla dimensione temporale e quindi a quella sonora.
La Langer sosteneva che il suono fosse un simbolo insaturo e che per essere significante e non mero significante vuoto necessiti di un ascolto sensibile; è quindi l’ascoltatore a conferirgli esistenza, quella stessa esistenza minacciata dall’altra caratteristica, quella della fugacità che evoca un vissuto depressivo di caducità. La fragilità del suono quindi può trovare la propria esistenza nel tempo grazie alle tracce che l’hanno generato o alle partiture che lo genereranno: è forse mediante la visione che il suono può diventare vivo nel silenzio di una carta? Guardate per ascoltare, ascoltate per vedere.
Sono arrivato alla conclusione che ciò che prevale nel mondo è la correlazione: il suono è connesso alla visione, e la visione non può esistere senza suono. Tutto ciò che un essere umano fa è connesso: i fenomeni visivi e acustici sono complementari.
(Milan Grygar)
Galleria P420
Piazza dei Martiri 5/2
Bologna 40121 Italia
Tel: 051 4847957
info@.p420.it
www.p420.it
Orari di apertura
Da Mercoledi a Venerdì ore 15.00 - 19.30
Sabato ore 9.30 - 13.30 e 15.00 - 19.30
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