Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 15 aprile 2014

Chiharu Shiota Silenzio e impossibilità


My Last article on Wall Street International Magazine

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REPORT - Japan, Arte

Chiharu Shiota

Silenzio e impossibilità



Gli anni della storia sembrano lunghi e lontani, ma in realtà non sono che un soffio, e gli avvenimenti apparentemente dispersi in quella dimensione della storia che è il tempo sono in realtà vicini e collegati da quel misterioso robustissimo filo che è la memoria degli uomini.
Andrea Rossi, In nome del petrolio, 1986.

La prima volta che incontrai l’opera di Shiota fu alla Strozzina di Firenze in occasione della mostraFrancis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea. L’installazione pensata dall’artista giapponese classe ’72 si chiama In Between ed è secondo me, un titolo esplicativo, un titolo che contiene appieno l’essenza della poetica di Shiota. Nei lavori dell’artista è proprio “fra”, “nel mezzo” delle cose, degli oggetti ripetuti e riproposti più volte, che ci sentiamo spaesati e attirati nei mondi di memoria collettiva.

Percorsi perturbanti e quasi claustrofobici, fitti reticolati di fili neri avvolgono e si dipanano nell’ambiente, tessendo ampi circuiti, e dentro queste reti ecco che possiamo trovare porte, fogli, lettere o valigie. Trace of memoryLetters of the thanksOther side, tutto titoli che riportano in un altrove passato, quasi dimenticato, polveroso. Con le opere di Shiota ci si trova a diretto contatto con archeologie di memoria, archivi di oggetti appartenuti a chi sa quale ambiente, a chissà quale storia o persona.

Il nero travolgente, notturno, silenzioso, teso, dei fili che legano ricordi, è rigido ma leggero, riporta esattamente a un grafismo ipnotico e sofisticato di origine orientale. Quei fili neri sono tutte le parole disciolte nell’inchiostro che si fanno confini e tratti, lunghezze e ponti, una rete web che diventa fisica, interconnettendo accessi e oggetti-luogo che diventano mondi abitabili e inquietanti. Gli oggetti luogo, non sono che link abitabili dallo sguardo.

In Other side diverse porte, o di un bianco azzerante, o consumate e logore si presentano in successione, quasi interrogandoci, mettendoci di fronte ad una scelta; se tu voyeur disperso ti troverai davanti a uno di questi varchi avrai il coraggio di tirare la maniglia e spingerti al di là? Avrai il coraggio di tuffarti in un ginepraio infinito di trame, di legami di relazioni, di incontri? Avrai il coraggio di mischiarti nell’impatto con il disordine? Di entrare nel sottobosco dell’anima delle cose? Cosa non sono queste fitte trame nere di fili se non la vita stessa, se non la difficoltà e l’intreccio che ci mantiene collegati tra il mondo e la memoria?

Nell’arte di Shiota viene resa plastica una concezione fenomenologica di matrice, husserliana, la relazione e l’esperienza con e del mondo è messa al centro della riflessione artistica. Over the continent, presentata al National Art Center di Tokyo nel 2013, vede partire da un piccolo e microscopico punto una quantità fluttuante e pulviscolare di fili rossi che si dipanano nello spazio, ciascuno legato, o meglio ancorato a una moltitudine di scarpe di donne, uomini e bambini. Oltre i percorsi, i continenti, i confini geografici, questi astronauti, o esploratori distratti, sono i nostri antenati, sono tutti o nessuno, siamo noi, o saranno altri, cono essenze assenti ma presenti nello spazio della memoria, sono percorsi stati o da compiere. Sono passi in più, nell’avanti della speranza, una tensione, una spinta verso l’oltre, ma legati a un rosso del tempo battuto e trascorso, di un tempo accaduto e tinto con il tono del sorgere più acceso.

Over the continents però appare anche come un monumento funebre, una catalogazione di vittime, un’enumerazione macabra; vittime di violenza, solitudine, abbandono, guerra? La morte giace nel ricordo teso del filo rosso. After the dream mantiene un tono inquietante e onirico, surreale e fantasmagorico, lunghe vesti pallide diafane ed evanescenti fluttuano nello spazio di labirintiche diramazioni filose. Smaterializzate e terribilmente vuote, tunnel di lattea memoria. Appartenute e abitate da chissà quale corpo, anziano o giovane, chissà quale pelle ci scivolò all’interno e perché, e dove…

Silenzio e impossibilità, in un concerto solistico, immobile e danzante nel tempo, In silence, il pianoforte e la sedia sono prigionieri, sono ostaggi di un suono in decadenza; atonale e disperato, il flusso materico dei fili è un pentagramma infranto, (note spezzate e disperate, deserte, filacciose) nel quale la luce non può che filtrare ostacolata. Gli oggetti di Shiota ci lanciano un appello nello spazio dello sguardo, chiedono quasi di essere raggiunti per essere salvati, per non essere dimenticati si circondano di neri nostalgici e puri, asettici, simmetrici e stratificati. Sono oggetti stratificati dal passaggio di sguardi e ricordi, caricati all’ennesima potenza di un isolamento forzato, sono rinchiusi nella loro presentazione come scrigni trasparenti. Questi fili infiniti danno quasi fastidio, bloccano il respiro, ostacolano lo sguardo, intrappolano e sembrano risucchiarti, sembrano espandersi come virus contagiosi.

Shiota accumula e ripete, a volte distrugge bruciando come in Waiting del 2002, un agglomerato di sedie a cui dà fuoco, ma dà fuoco anche a pianoforti, ed ecco che tra le accumulazioni e le distruzioni si annida intrepido il ricordo di Arman, e ci viene riproposto un nouveau réalisme tessuto ossessivamente. Un'eco. Il tratto dei fili infinitamente neri di Shiota si scagliano nello spazio in maniera divisionista rendendo vibrante e infinitesimale l’atmosfera, sporcandola quasi. Cosa starà guardando quella donna dalla schiena neve e nuda, spoglia e isolata dalla finestra? La chioma scura muliebre prende vita in un fitto reticolato che si espande e srotola nell’ambiente. Una femminilità ragno che dà le spalle e proietta la visione nell’asettico altrove riscritto da quei tratti di inchiostro filamentoso.

Gli ambienti di Shiota possono diventare anche scenografie abitabili, dove i corpi rimangono appesi e sospesi atarassicamente, come Matsukaze il lavoro per il Théâtre Royal de la Monnaie, a Berlino. Epifanie mistiche e corporee. Cercando una destinazione, collettivamente, con le più disparate valigie con dentro ogni sorta di ricordo, di souvenir (come nell’opera Accumulation-Searching for the destination), l’esperienza della memoria si fa concreta, e siamo pronti per partire nella moltitudine di visioni, che si fanno salto nel vuoto, da cornici-finestre (come nell’opera A room of memory) in cui quello che è stato e quello che sarà si confondono.


Articolo di:  Federica Fiumelli














Il Tè dei Matti @SpazioSanGiorgio, Bologna

Lorenzo Guaia artist
dal 22 Marzo al 30 Aprile 2014



“Ogni tazza di tè rappresenta un viaggio immaginario”
Catherine Douzel
Tè nero, verde, bianco, giallo. La bevanda che porta dietro l’aroma dell’antichità si racconta già di per sé attraverso i colori.
Colori che sanno di follia, riflessione e incontro come anche Carroll descrisse nel tè dei matti tra il Cappellaio e Alice.
Legata a civiltà orientali questa pianta magica ha ispirato il lavoro dell’artista Lorenzo Guaia che ne fa ossessione materica e grafica.
L’artista unisce la fisicità consumata della bustina da tè alla sua rappresentazione simbolica.
I lavori di Guaia consistono in tavole di legno pressoché quadrate, rivestite con decine di bustine di tè, raggrinzite, stropicciate dal tempo, dall’ocra al sabbiato all’argilla, dal marrone chiaro allo scuro fino ad un rosé sfumato, i colori formano un tappeto surreale e tattile, come un sottobosco fatato.
Ogni filtro rappresenta un preciso momento di vita, di giornate timide o memorabili, attimi di vita quotidiana. Opere che diventano così ritratti e autoritratti aromatizzati del tempo, che profumano di istanti vicini o lontani.
L’artista elegge i filtri a cellule di vita bevuta, o a pixel quadrati e medievali come frati cappuccini avvolti nel loro saio, le opere diventano così mosaici di visioni al tè.
Il profumo degli infusi, imprigionato per sempre nelle bustine, apre immagini e sensazioni trasportando gli occhi, la mente e i ricordi in spazi speziati e lontani. La bustina diventa così attrice della scena pronta a spostarsi, stringersi, piegarsi appena per lasciarsi delicatamente dipingere.
Le tazze di tè, protagoniste indiscusse dei lavori di Guaia, sono bidimensionali, iconiche, stilizzate e simboliche, dal sapore pop ma senza alcuna prepotenza espressiva. Il supporto rende il soggetto soft ed elegante, non invasivo, estremamente educato.
“La filosofia del tè è igiene perché richiede la più rigorosa pulizia; è economia perché dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nel complicato e pretenzioso; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto tra i nostri sentimenti e l’universo.” 
Così scriveva Okakura Kazuko, nel “Libro del tè” nel 1906. E ancora:
“Il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè e neppure la leziosa innocenza del cacao.”
Le grandi e robuste linee di contorno rosse o nere delineano prepotentemente la tazza custode di tè bollenti o raffreddati, in attesa di essere sorseggiati da labbra sognanti, sospese in chissà quale luogo, sembrano fluttuare sulla loro stessa materia, il bianco della porcellana prende così vita tra le rughe, cime e angoli dei filtri. Probabilmente Tien Yiheng aveva ragione nell’affermare che “Il tè si beve per dimenticare il frastuono del mondo.”
Filtri vintage di una memoria collettiva e singolare.
E ancora tazze capovolte e antigravitazionali volteggiano, tazze ribaltate o quasi speculari, un teatrino di composizione silenzioso e immobile nella rigidità del tempo.
Linee di confine si adagiano sul corpo sinuoso delle bustine tracciando confini metafisici e immaginati davanti al fumo bollente e nebbioso di un tè.
Ma ecco che talvolta su quel confine alla deriva, dalla terrosità dei filtri nasce con grafismo vagamente orientale e leggero, un lucido e nero albero, foglioso ed etereo, evanescente e decorativo, sospeso come i sogni nel profumo di un tè.
Il viaggio di Guaia è delicato, in punta di piedi, tra aromi funambolici e sospesi, quasi con il timore e la paura come Sydney Smith scriveva: “Che la creazione possa finire prima dell’ora del tè.”
Federica Fiumelli  



domenica 30 marzo 2014

Incontrandosi nelle curvature. Villanueva e Mapplethorpe.

Ultimo articolo su Frattura Somposta!

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Incontrandosi nelle curvature.
Villanueva e Mapplethorpe.

Il mio sguardo cadde in una centrifuga pallida, troppo bianca, accecante, azzerante, una cancellazione. Tutto spariva nello stesso momento in cui l’occhio vi si posava distratto.
I faretti luminosi amplificavano quel “white” inglobante e trasbordante, latteo, imparziale, neutro, stavo passeggiando ad Arte Fiera quando mi sono imbattuta nei lavori dell’artista spagnolo Santiago Villanueva.
I lavori esposti sono del 2011 “Series Touch Therapy”, dei senza titoli completamente bianchi, lucidi, smaltati, che risucchiano per l’alta tattilità che invocano sussurrando, si, perché sono incredibilmente leggeri e anacronistici alla vista, e invogliano, provocano gentilmente, hanno voglia di essere toccati.
Villanueva riesce a sfruttare il formato standard della tela, l’oggetto più usato e manipolato nella storia dell’arte, ma la riveste di fredda e lucida plastica contemporanea, mischia storia  e futuro, scolpisce la tela, facendole colare addosso materiali come polistirene, vernice e vetronite.
La produzione artistica di Villanueva dal 2008 al 2013  vede una ricerca stremante verso la purezza tridimensionale delle forme, una lucidità erotica e sublime, apostrofo di un’atmosfera metafisica. I colori usati sono appunto lucidi e monocromi, dal bianco al nero, al blu, al rosso, tonalità cromatiche specchianti, offrono una realtà speculare distorta e scivolosa.
Gocce filanti e eterne cadono dal soffitto e sotto la loro rotondità ecco contrapporsi una cumulo di polvere bianca. Compatezza e scomposizione si trovano contrapposte ma tonalmente in armonia. Tutto è cancellato tutto è ancestralmente concepito. La grande goccia ricorda il latte materno uscente dal seno, o il liquido spermatico, sostanze vitali in grado di generare vite. Vite che in Villanueva sono armonie composte ad hoc, la formalità, ma ancora di più la materia eccede in ogni curva o colore.
Forme disciolte e bloccate per sempre, dinamismo e staticità unite nel soffio vitale della scultura plastica e lucida che riflette distorta lo sguardo.
La serie esposta ad Arte Fiera, rapisce per le pieghe indiscrete che la tela concede a noi voyeur. Non si spoglia, è timida e fiera, come una donna al primo amore, è vergine, è pura, troppo eterea per essere macchiata da qualche rammarico imperfetto.
Le onde, le increspature sono ai margini, outsider informi che si riposano su loro stessi, stropicciature di un pugno su qualche letto disfatto, rievocano alcuni panneggi di una grecità remota. Ricordano anche i panneggi delicati e soavi di Canova, di Psiche qua non è rimasto che la piega distratta, al quale la bellezza è rimasta aggrappata per sempre e poi basta. Le tele-scultura di Villanueva, emanano anche un forte senso di interruzione, un’interruzione armonica, nell’oceano monocromo e piatto della tela bianca che improvvisamente verso la cima o l’angolo infondo trova irrequietezza increspandosi improvvisamente. Un cambio di rotta, una virata, verso una voglia stropicciata e scremata.
Avvicinandosi all’opera e osservando attentamente le onde, ci si perde in quel mare di lattea memoria, i ricordi scivolano nell’orgasmo freddo dell’abisso, e in una colata di neve, qualcuno sembra gridare sofficemente: “
sono qui, nascosto tre le linee curve di un passaggio. Sono qui per ricordarti di quanto sia morbida una pelle un freddo inverno, o di quanto sia caldo sciogliersi nell’estasi di un sogno vellutato.”
Tra le righe perse di un marmo si assaggia la freddezza di un liscio tormentoso.
E in questo erotismo congelato ritrovo per caso la glaciale compostezza formale delle muscolature impresse da Robert Mapplethorpe.
Chi meglio di lui nella cultura underground newyorkese anni ’80 seppe coniugare alto e basso? Pornografia e nudo, il tutto con un taglio impeccabile, una purezza formale e una prospettiva implacabile? Quanta grecità classica in alcuni scatti fotografici? Quanta proporzione e grazia in enormi falli in primo piano? Nervature che scivolano lente nello sguardo, con sobrietà. Muscolature che diventano seconde pelli, e secondi panneggi.
Schiene, cosce, glutei, piedi, ginocchia, ogni incontro nel corpo è armonia e linea, il muscolo diventa pura forma, e la linea di una gamba è un grido nell’infinito.
Mapplethorpe cancella e azzera volgarità o impurità, tutto è calibrato ed equilibrato.
I corpi sono liquidi freddati, curve su curve, paesaggi quasi metafisici.
Come non ricordare anche i bellissimi fiori? Immortalati in bianco e nero, esprimono  il loro erotismo attraverso i petali sinuosi, pieghe d’amore, una sensualità trasbordante da ogni pistillo che diventa per l’occasione un ipotetico fallo.
Le curvature dei petali divengono così panneggi di un tempo perduto, la natura è uscita da sé per svestirsi di candidi panneggi.
Villanueva e Mapplethorpe in maniere diverse incitano in noi la tattilità, propongono uno slancio a toccare quelle curve, quei corpi, quelle insenature profonde e vorticose, invogliano a perdersi tra le loro forme collinari e perfette.
Vogliono essere toccati…ce lo sussurrano.
Paesaggi corporei e paesaggi materici attraverso i quali o sguardo non può che correre perdendosi leggiadro nel soffio vitale della forma.
E’ un naufragio erotico, continuo e armonico.
Qualcuno sembra sospirare: incontriamoci là nell’infinito di quella curvatura, scivolando lentamente.

Federica Fiumelli

























venerdì 14 febbraio 2014

David Casini. Un pensiero in altezza

Ultimo articolo uscito sul Wall Street International Magazine.
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REPORT - Italy, Arte

Le opere di David Casini

Un pensiero in altezza

Le opere di David Casini

Agrodolce. Un pensiero in altezza, al marmo e miele, frutta candita e ottone, un violino e grandine. Si tratta di soffici ed eleganti dicotomie, ma anche di composizioni alchemiche. Le opere dell’artista David Casini si adagiano su bianchi, cristalli e accostamenti delicati, segreti da schiudere a ogni sguardo per la bellezza complessa alla quale sono legate. Casini, nativo di Montevarchi, può vantare nel frastagliato panorama contemporaneo di una sostanziale artigianalità e manualità, qualità che si sono un po’ perdute a discapito dell’emergere di altre idee e movimenti artistici nel XXI secolo, tecniche e materiali originari di quel cuore aspro e dolce della Toscana custoditi e trattati dall’artista anche a distanza.
Di fondamentale importanza è infatti il periodo trascorso nella sobria Ginevra che determinerà la nascita di nuove idee estetiche portando l’artista a diverse espressioni: da questa terra erediterà le tradizioni rielaborandole e ispirandosi ai paesaggi svizzeri, e riverserà nelle sue opere un maggior impiego di freddezza e luce. Attention del 2003 è un esempio di lavoro nel quale l’artista ha rielaborato una leggenda, il mito dell’eroe svizzero Guglielmo Tell, e lo fa in maniera decisamente personale e interattiva, facendo dialogare due parti di un’unica scena disegnandone una parte sul muro e l’altra (riprendendo una tradizionale tecnica toscana) cucendola su una poltrona di design.

Il periodo che va dal 2003 al 2013 è costellato da varie opere, diverse tra loro con il comune denominatore di un amore crudele, ma romantico come la volontà di ricreare la realtà pur rimanendone legato. Casini osserva e si ispira a un qualcosa che appartiene a tutti ma che puntualmente viene visto e non guardato, lo spazio. Trasfigurare l’ambiente assorbendone, come una carta non sazia di inchiostro, le forme e le peculiarità. Espax, installazione ambientale presentata a Napoli nel 2006, prevede una grossa apertura nel soffitto da cui esce maestosa una forte, azzerante luce bianca rinforzata dall’utilizzo di neon: l’opera in questo caso assume l’aspetto di una soglia, di un passaggio a un altro ambiente, a un altro spazio, a un altro tempo. Questo concetto, di trasformazione e di passaggio, di sospensione, ritornerà sovente nella poetica dell’artista. L’esplorazione di spazi anacronistici e astratti continua in Corruptible matter, un titolo già esplicativo, che volge a sottolineare la materia, la carne e il verbo attraverso cui si esprime quello che ci circonda.

Casini si serve della prospettiva come di una amante, rivolgendosi ai vate del rinascimento italiano, quali Piero della Francesca, l’Alberti e Mantegna; pesca dal passato, dalle radici di una terra e di una cultura e li riinnesta come un regista in ambientazioni cinematografiche futuristiche, in un continuo dialogo tra passato e futuro. Casini è il caos del presente, è quello che accade, che si mischia però in un silenzioso ordine trascendentale che acceca come le nervature di marmo bianche, il tromp l’oeil sulla pavimentazione della galleria ginevrina faro dell’artista, l’Analix Forever. Questa illusione prospettica ci inganna e ci fa cadere nel sorriso beffardo di chi vuole aprire allo sguardo possibilità. Un fuori tempo che ha i suoi battiti, anche se sono caldi come il rumore dei passi nella neve. Ecco ancora dicotomie e ossimori. Casini è anche abile scultore, con propulsione tattile e tridimensionale (anche nella scelta di fili metallici per la cucitura rafforzando il valore di matericità) crea architetture in ceramica riguardando l’architettura anni Venti del futurista italiano Antonio Sant’Elia, e come tacchi, quelle altezze gotiche sono altezze di idee che si gettano in un altrove immaginato, sono slanci che mirano a un ascetismo in continua ascensione.

Ma questa elevazione è pur sempre ancorata a qualcosa, a nuvole di corallo, ed ecco nuovamente il contrasto e la differenza che si fanno presente; il basamento delle sculture in ceramica è infatti di puro corallo. E cosa sono i coralli se non le briciole del cuore della terra? Altra parola chiave nel lavoro di Casini è Krystallos, nonché titolo di una mostra del 2008. Dal greco antico (nuovamente un sguardo alla storia) la parola cristallo rimanda all’acqua ghiacciata per l’eternità dagli dei e conserva in sé quindi un concetto di infinito fermo e deciso, un legame con l’universo. Marmo, cristallo, ceramica, sculture di ghiaccio, quarzi, verticalismi, un’enumerazione materica sofisticata, da leggere per la complessità di stratificazioni alle quali appartengono, quella di Casini è una wunderkammer di ricordi profumati liberati da qualche armadio vintage ma proiettati in visioni che devono ancora accadere, in momenti che non sono stati ancora inventati.

Nel 2009 con l’opera Genera l’artista vince il Talent Prize, un riccio di mare, vetro, quarzo, il titolo del lavoro semanticamente valido, accentua sull’importanza del generare. Quello di Casini, è un simbolismo composto da costruzioni a più livelli, perché l’antico, la biologia, gli oggetti preziosi si mischiano sotto l’immaginazione dell’artista che crea e detta mondi rispettandone le radici e le profondità, generando frozen theatre di antica e futura memoria. Da stilista ridefinisce le fisionomie non trascurandone le essenze.E viene alla mente un passaggio di Calvino, da Le città invisibili:
Guardato il fiume, valicato il passo, l'uomo si trova di fronte tutt'a un tratto la città di Moriana, con le porte d'alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa. Se non è al suo primo viaggio l'uomo sa già che le città come questa hanno un rovescio: basta percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio. Da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un diritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi.
Un rovescio, e si avrà la faccia nascosta di un qualcosa di altro, perché l’immaginazione ridisegna la realtà. Le opere di Casini sono nascite e morti, racchiuse in container trasparenti, rendono visibile la loro invisibilità perdendosi in uno spazio-tempo congelati. Ma se l’opera d’arte è sempre una ferita e apertura, quelle dell’artista si presentano appunto come riti e porte di passaggio per l’altrove tanto agognato. Rito di passaggio, un caminetto che diviene appunto metafora di un viaggio immaginato per chissà dove, Casini non ha valigie ha solo percorsi sognati.
E sopra al camino, ecco souvenir onirici e surreali che si mischiano tra loro in un cocktail di organico e inorganico, i cubetti di ghiaccio non sono che dicotomie. Altro lavoro interessante, è L’illogica abitudine del 2011 che riflette sulle costruzioni abusive sul Mediterraneo: ed ecco ancora una sfilata di microsistemi, coralli, resina, ferro e vetro, uno skyline di architetture nascenti da coralli, che puntualmente generano, e generano, immaginando, pensieri che plasticamente si traducono in altezze ed esoscheletri architettonici.

Con Back Home del 2012 allo Spazio Morris di Milano, l’artista ha affrontato da vero amante il rapporto tra lo spazio e la vita, e nel mezzo l’arte. Casini infatti ha vissuto fisicamente per alcuni mesi lo spazio della galleria, accarezzandolo, a volte ferendolo, amandolo o prendendosene gioco, ha dialogato e sedotto quell’ambiente. La galleria divenendo lenzuola di un letto disfatto è diventata vita vissuta, vita vera, un laboratorio di creazione e archivio di memoria, stratificazione di odori e pensieri, uno spazio vivo a immaginazione sciolta, disciolta e aperta. Casini torna a casa, riutilizza tutto ciò che è fisicamente suo, nella mente e sulle mani, coniugando il suo gusto tra passato e un futuro da inventare, così specchiere vintage, vernici sintetiche, ottone, spugne marine, coralli si incontrano per dare vita a riflessi di vibranti forme neonate, partorite da visioni immaginate, ma legate all’idea di riflesso, di una riflessione attraverso lo specchio, una ricerca profonda su un’identità reale e antica. Un dejà vu, perché di sicuro da qualche parte si sono già viste, quelle forme si sono già incontrate, e allora sono impronte di attimi vissuti, sono orme e tracce.

Tu non mi conosci sdogana dai cliché delle convinzioni, perché se di primo impatto crediamo di trovarci di fronte a una testa di cinghiale tassedermizzata, beh, ci sbagliamo. Basta ruotargli attorno per rimanere estraniati. La cavità della testa è infatti divenuta una grotta piena di cristalli di quarzo, inganno e preziosità; l’animale e il minerale che innestandosi secondo energiche fantasie diventano qualcosa di altro, mischiandosi non si definiscono, e quella diventa una cavità profonda di pensieri affilati. Come quando fuori piove invece è una poesia plastica, un mash-up visivo, un dj set di oggetti, un’installazione che fa incontrare pietra minerale, un trasformatore, una pompa elettrica, un nebulizzatore, vetro, ferro, plastica, ottone, silicone, legno e acqua. Gli oggetti di Casini si incontrano sempre, non per vanità, ma per coincidenze fortuite, generando sempre qualcosa di altro. Si tratta di microcosmi, e vengono alla mente le poesie di Sanguineti, non a caso la raccolta delle poesie che vanno dal 1951 al 2004 si intitola appunto Mikrokosmos, densa di frammenti e montaggio, ritrovano affinità nei lavori di Casini per le ascendenze matematico-scientifico, sovrapposizioni, universi autonomi, e per l’uso di un linguaggio ben radicato nella realtà materiale.

Tutto sembra funzionare del 2012 ribadisce l’idea di macchine celibi, installazioni da piccolo alchimista, si passa anche dal pensare a un’opera come prodotto di una macchina (da un’artigianalità da cui l’artista era partito) a una concezione di macchina come opera. L’aspetto erotico della macchina inoltre viene correlato ai meccanismi del sesso libero, rappresentato visivamente dai fumi e dai fluidi, immateriali ed evanescenti come il godimento. Casini è un trasformatore, un catalizzatore di energie, un traduttore di fantasie erotiche e non, creando così mondi celibi ma esteticamente fruibili. La questione temporale e quella spaziale emerse si affermano ulteriormente con il titolo dell’opera Momento in cui tutto questo ha uno spazio esposta alla quarta Biennale D’arte Contemporanea a Salonicco.

Le opere di Casini accadono qui e ora, nel caos del presente che si fa spazio, legandosi a un filo di raso al passato e al futuro. Un lavoro estremamente dialogante ed elegante che vede appunto la dicotomia tra artificiale e organico, connettendo il museo archeologico, luogo d’esposizione, alle spugne di mare e ai minerali che leggiadre vibrano esili, ricordando vagamente l’evanescenza appesa e sospesa di Calder oltre alla concezione di aleatorietà. Casini ci riporta a una frase significativa: “Arte torna Arte”, espressione coniata dall’artista Luciano Fabro, un pensiero rivolto all’arte come un continuum che si rinnova e si rigenera traendo forza da se stessa e dalla propria storia, mantenendo come Sanguineti scriveva “Uno sguardo vergine sulla realtà: ecco ciò ch'io chiamo poesia.”

Pubblicato: Mercoledì, 12 Febbraio 2014
Articolo di:  Federica Fiumelli










giovedì 16 gennaio 2014

Thierry De Cordier

Ecco l'ultimo articolo pubblicato su
Frattura Scomposta:
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Thierry De Cordier

“La poesia, che non è un’arte di arrangiare i fiori, ma urgenza di afferrarsi a un bordo nella tempesta.”
Erri De Luca, Sulla traccia di Nives, 2005

Stavo passeggiando per la Biennale quando ritrovatami in una sala, all’improvviso il mio sguardo è stato letteralmente attratto, prosciugato vorticosamente dalla pittura oscura, funerea, glaciale di Thierry De Cordier.
Filosofo, performer, scultore, scrittore e poeta, con un vita nomade alla spalle, l’artista è nato e lavora tutt’ora in Belgio.

Tele maestose, oli e pastelli o su tela o su tavola.
La pittura di De Cordier è una pittura tormentata, dominata da una furia iconoclasta, sembra voler spazzar via lo stesso sguardo che attira su di sé.
È prepotente, troppo forte, ribelle, il mare in tempesta sfugge anche alla pennellata.

E’ anche una pittura analitica, attenta al dettaglio dell’informità marina, talmente reale da sembrare più vera del vero, ma perturbante, sul filo di un certo iperrealismo magico.

I freddi mari nordici sembrano sfondare la tela, non si contengono, sono gelidi a tal punto che feriscono, strozzano la visione, bloccano il fiato proprio lì come prima di buttarsi da un’altissima scogliera.
Ricordano i naufragi Shakespeariani, perdite di identità per un risorgimento successivo; e poi spifferi, fantasmi, ricordi perduti, spazzati via da una furia corrosiva e demolitrice.

Atmosfere sfumate e leggere invadono lo spazio della tela, aprendosi come finestre in microcosmi perduti e dimenticati da chissà quale Dio.
Le creste spumose delle onde pallide e diafane sono ritratti di anime sperdute e angosciose, sembrano quasi ricordare “La donna del Mare” di Ibsen dal sapore dei fiordi Norvegesi, una storia di attrazione mistica verso l’origine delle acque gelide e tormentate.

I moti marini, i movimenti ondosi rappresentati da De Cordier hanno una potenza pervasiva, esplosiva, invasiva e indomabile, hanno una carica espressiva si gelida ma allo stesso tempo ricordano la forza demoniaca legata al caso nel dripping alla Pollock.

Una potenza espressiva coinvolgente e liberatoria.
Quelle acque chissà quali coste hanno bagnato con le loro lacrime di dolore?
E chissà quali scenari e orizzonti hanno guardato? Chissà da quanti velieri carichi di speranze sono state cavalcate e chissà quali volti, di amanti e non, hanno riflesso nelle loro trasparenze marine.

Le onde bianche sono gli echi lontani di amori tragici e maledetti come in “Cime Tempestose”, sono apici drammatici, lembi di lenzuola in cui qualcuno si è promesso d’amare per sempre, anche oltre la tempesta della morte, come nelle tormente di neve che accompagnavano gli spiriti di Heathcliff e Catherine.
“Io amo Heathcliff, Io odio Heathcliff, Io sono Heathcliff.”
Una maledizione d’amore che annega nella perdita del sé.
La pittura di De Cordier, ha il retrogusto di favole antiche, di memorie sbavate di trucco, di fredde e tormentose storie che hanno segreti ancorati nel’oscurità.

I mari del nord che l’artista elegge come muse inarrivabili sono l’altra faccia della luna e irrompono nel nostro immaginario come le sinfonie di Mendelssohn. L’onda come la sinfonia butta giù con un fragoroso calcio la porta anestetizzata della nostra percezione.

Non si può porre resistenza, si viene travolti e basta, come i velieri che hanno tentato inconsciamente di vagare nella tempesta.
Tempeste che sono battaglie di demoni e tristezze interiori, mai uguali a sé stesse ci cacciano alla deriva, su spiagge ipotetiche, rocciose come nel “Naufragio vicino alle rocce” del 1870 di Ajvazovskij.

E ai bordi, ai margini di quelle stesse tempeste, scopriamo che ci si aggrappa anche la poesia, che si era persa leggera tra i venti taglienti e taciturni.
Le ostilità smaltate delle correnti del nord sono ritratte nelle grandi tele che diventano così oblò, rendendo lo spazio espositivo il sotto ventre di una nave e noi i viaggiatori di mari che sono cupe fantasie squarcianti.

Federica Fiumelli












La Porta dei Sogni, Raimondo Galeano Artist @ SPAZIO SAN GIORGIO, Bologna

La Porta dei Sogni
Raimondo Galeano
 dal 11 Gennaio al 8 Febbraio 2014





"La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori.” Alda Merini
Il colore non esiste. E’ questa l’affermazione che ha spinto lo studio e la ricerca scientifica, artistica ed estetica di anni e anni dell’artista bolognese Raimondo Galeano.
La luce dà forma e colore a tutte le cose, io dò forma e colore alla luce”, queste le parole chiave della poetica di Galeano formatosi inizialmente a Roma con la Scuola di Piazza del Popolo. 
L’artista supera i limiti della pittura e va oltre, si affida direttamente a qualcosa di più complesso e   maestoso, all’uso della luce.
Lo studio di Galeano si concretizza in un sorta di camera oscura, un modus operandi affine alla fotografia e alla cinematografia. 
Grafia della luce. 
Luce che scrive, luce che dipinge. Una luce attiva che disvela il suo fascino come la più bella e seducente delle amanti. La pittura si spoglia del colore e si dona alla verità formale della luce. 
Appena il buio scende, si viene sedotti da opere luminescenti e ci si trova dinnanzi ad immagini che entrano in scena: l’immagine diventa verbo, irrompe nell’apparire della visione, diventa  protagonista galoppante e si fa attrice del momento. Come una diva, icona dell’immaginario collettivo. 
E proprio di icone si vestono le opere in esposizione, simboli cult dell’immaginario cinematografico fantastico e surreale.
Peter Pan, Trilly, Mary Poppins e altri personaggi fantasy saranno i protagonisti di qualcosa che va oltre una semplice mostra.  
Cosa di più fantastico di una pittura di luce? Cosa di ancor più fantastico, quando la fantasia dei personaggi del cinema brilla incandescente rendendo preziosa l’oscurità? Galeano “stilista”, veste di luce le icone del cinema ponendole letteralmente sotto il riflettore. 
L’artista diviene faro, unico nel suo genere e unico nella storia dell’arte.
Galeano si serve della luce per donarci immagini splendide e splendenti, quasi ritratti fotografici in negativo fluo. Di fronte ad una sua opera, come all'interno di una sala cinematografica buia, meraviglia e attesa ricordano momenti emozionanti di scene proiettate che possono cambiare la storia del cinema, commuoverci o farci sorridere.
La pittura di Galeano è una pittura dialettica e performativa, attiva. 
Mai uguale a se stessa, nè di giorno, nè di notte. Come una scia di stelle, di giorno tele lattee quasi scremate e monocrome si trasformano di notte, al buio, in qualcosa d'altro, regalandoci le immagini che si nascondono alla luce. Ecco la trasformazione, la metamorfosi, il passaggio.
Il bruco diventa farfalla, e la pittura si accende, si va in azione. 
Ciak si gira.  La tela come un set cinematografico sfavillante.
Una pittura quindi in costante rinnovo che si allinea straordinariamente all’ideologia contemporanea: luce quale soggetto informe, ineffabile e immateriale che richiama perfettamente la concezione di tecnologia.  
Una pittura quindi tecnologica quella di Galeano.
Galeano artista, performer, drammaturgo, regista e scultore di quella creatura libera, bizzarra, indefinibile, priva di limiti che è la luce.
Più che una mostra, una vera e propria esperienza sensoriale.
Spazio San Giorgio
Federica Fiumelli 










Sabato 11 e 18 Gennaio e sabato 1 e 8 Febbraio 2014 h. 16.00-18.00, Workshop con l'artista nell'ambito del programma Pop for Kids - Arte a Misura di Bambino. Per info e prenotazioni: INFO@SPAZIOSANGIORGIO.IT 

 Orari di apertura:
Martedì-Mercoledì-Giovedì 9.30-15.30 
Venerdì 10.00-13.00 / 17.00-19.00 
Sabato 16.00-19.00 
in altri orari su appuntamento / chiuso Domenica e Lunedì

Spazio San Giorgio – Via San Giorgio 12/A - Bologna - 3495509403
Ingresso Libero