Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
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giovedì 5 giugno 2014

Elogio della primavera


Link:

http://wsimag.com/it/arte/9387-elogio-della-primavera

Enjoy!

:)





Da ormai cinquecentotrentadue anni è primavera. E ancora da prima, e così sarà all’infinito di questi battiti. La prima vera primavera, quella che Botticelli creò dal suo estro, un quadro che profuma nella memoria di tanti.
Ricordo ancora di come la prima volta trovatami agli Uffizi me lo ritrovai davanti, un inno alla grande bellezza, la bellezza sinuosa delle forme delle velature, quei frutti e quelle foglie potevi sentirli profumare, anche a distanza di secoli, ritornavano in auge attraverso tutti gli sguardi che vi si erano posati. La venere casta, al centro della figurazione, con un panneggio vellutato come la pelle odorosa di un'albicocca accesa, inclina il suo volto con grazia estrema, quella stessa grazia che trova le onde trasparenti che lente scivolano sulle carni avorio delle tre grazie, che burrosamente formano un cerchio, una ciclicità che inneggia alla vita, alla resurrezione, al dolce svegliarsi che è materia prima della primavera.
E le dita delle mani sollevate e intrecciate tra loro, un intreccio di seduzione che evoca una caduta di champagne in una coppa di cristallo, la trasparenza e la preziosità sono colori e valori che fanno eco. Ma i personaggi che da sempre hanno esercitato un potente fascino su di me sono sicuramente l’intrepido e volante Zefiro, Clori e Flora. L’azzurro bronzeo di Zefiro alimenta le ombre e l’espressione soffiata e decisa che trova compimento nelle braccia cinte sui fianchi di Clori, Zefiro evade leggero sospinto senza luogo, come una tempesta in agitazione, i panneggi che lo avvolgono coraggiosi curvano tormentosi, creando onde di sublime passione zelante. Flora, la vera protagonista del quadro, è cosparsa di fiori dalla punta dei capelli biondi fino alla punta dei piedi scalzi che tentano timidi e quasi incerti di sollevarsi. In tutto il quadro si tratta di una continua elevazione, chi alza la spada al cielo, chi vola al di sopra delle teste promettendo amore, o chi unisce sobriamente le mani al cielo, chi alza una mano in segno di un’approvazione sacra, che sta per essere catturata dal vento.
Non siamo che elastici di congiunzione tra blu e marrone, cielo e terra, profilo e altro profilo. Come non si può rimanere che smarriti in questo non luogo danzante e bloccato in un bocciolo, come non si può ritrovare il coraggio della rinascita e del rinnovo che ogni piccolo fiore fa in primavera? L’armonia di un fiore, il suo lento sbocciare, è un aprirsi al mondo, un accogliere in sé l’aria dell’universo, il tempo e gli umori di un epoca. Come si può non pensare a Flora come a ognuno di noi? Un tutt’uno con la madre terra, un respiro intenso e vitale, uno sbocciare perpetuo che porta con sé la gestazione della creazione.
Una natura che porta con sé il cambiamento, la vita, la deriva, la caducità, la rarità, la forma e il colore. Botticelli tramite quei panneggi e quelle trasparenze ci riporta a una sofficità di visione eterea, inebriante di semplice leggerezza, ma una semplicità complessa che non si risolve, che non dischiude il suo ultimo petalo, che non si fa subito raccogliere, ma che si fa enigma vibrante.

Camminavo a piedi nuda, scalza, nell’archeologia della memoria, mi immaginavo tra resti di templi antichi, in un passato che è storia collettiva, che rimane ancorato come una traccia di rossetto su una sigaretta o su un bicchiere di vino bianco, l’odore è leggero, ma umido e vicino. Tra le sedimentazioni dell’esistere si cela un calco in gesso, è un volto appartenente alla statuaria classica, reciso da un corpo di muscoli fantasma, che giace supino e bendato. Si lascia accarezzare da un panneggio di stoffa reduce da un’esplosione vorace di vari colori. Che un qualche tessuto tardo quattrocentesco sia volato attraverso i giorni e sia giunto per fare da supporto non invadente al misterioso calco?
Il volto è interamente coperto di pigmento giallo di cadmio, puro, talmente puro, proprio come le forme sinuose delle tre grazie botticelliane. E accanto al volto bendato e al panneggio ecco spuntare una farfalla. Le nervature delle ali fanno vibrare e risuonare all’infinito un sussulto cosmico, un battito del cuore, il nascere di una lacrima, la contrazione di un sorriso, la finitezza della bellezza umana. Struggente lirismo, e poesia che si fa scavo, reperto, stratificazione sensoriale. Scorza di limone e latte.
E’ un'eco sordida di arpa. Le corde tese producono note, che non si possono vedere ma solo sentire, perché anche noi siamo bendati, e siamo liberi dal tempo del qui e ora. Il tempo diventa un flusso continuo, un pigmento informe, troppo accecante e azzerante per essere colto. Un tempo che abbaglia perché lega passato e futuro. L’opera Senza Titolo del 1970 di Claudio Parmiggiani, è un monumento alla memoria scalza e folle, libera di rotolarsi in un campo di grano dorato, talmente bella da non poter essere. Parmiggiani abbina in un trittico visivo una composizione dalla grazia ridondante, dall’eleganza, dalla sottigliezza e dalla fragilità uniche. La farfalla si posa sull’instabilità della vita stessa e viaggia attraverso la polvere dei secoli per riportarci a una classicità perduta ma che vede nella polvere un risveglio cromatico denso e intenso, suggestivo, e delicato. Un giallo che si fa deittico ed eclissi di tempo.
E’ il risveglio della prima vera primavera, i ricordi riempono i polmoni di polline e tutto rinasce, sboccia e cresce con la consapevolezza che tutto è in divenire per poi finire, per essere poi rispolverato dell’esistenza stessa. L’opera di Parmiggiani è ritrovo e riscoperta continua del tempo che è. E la farfalla elude all’ascesa, al movimento, allo slancio in punta di piedi come nella foto di Robert Mapplethorpe. Una composizione silenziosa, in bianco e nero, anche qui, si grida sottovoce per non crepare il vetro sottile dello sguardo.
Uniche protagoniste due gambe maschili, erette, tese, concentrate, collinari e muscolose, diventano paesaggi in verticale, distese di vegetazioni di un uomo che danza tra ombre e luce che vibrano e si stagliano tre la curve, di un sedere scultoreo, c’è il senso della proporzione classica, c’è la seduzione della trasparenza, data dalla scelta di fotografare solo una parte di corpo. Vediamo e non vediamo, siamo bendati, lo sguardo è velato, non c’è totalità, ma solo una parte per il tutto. E una parte forse può bastare per riempire il cuore di elan vital. Le punte dalla natura muliebre calzano i piedi dell’uomo con devozione e passione stringendo a sé la pelle, un’umiltà che si fa sforzo, esercizio e sospensione, e bellezza, grande bellezza... una bellezza che sorregge, che innalza, che slancia e che unisce.
Sulla sinistra, timido compare un panneggio latteo, quei panneggi che hanno accompagnato questo breve percorso tra il vento, da Botticelli fino a Mapplethorpe per passare da Parmiggiani, punti di luce, filtri di reminiscenza. Tre opere che ci raccontano accogliendoci sulle loro ginocchia, l’elogio della rinascita, della sensualità, del ritmo, della fragilità, della bellezza, per perdersi scalzi in punta di piedi tra i pigmenti della memoria, nudi e liberi, bendati e folli. In ascesa. Leggermente.
Federica Fiumelli







domenica 30 marzo 2014

Incontrandosi nelle curvature. Villanueva e Mapplethorpe.

Ultimo articolo su Frattura Somposta!

(www.fratturascomposta.it)

Enjoy!

:)






Incontrandosi nelle curvature.
Villanueva e Mapplethorpe.

Il mio sguardo cadde in una centrifuga pallida, troppo bianca, accecante, azzerante, una cancellazione. Tutto spariva nello stesso momento in cui l’occhio vi si posava distratto.
I faretti luminosi amplificavano quel “white” inglobante e trasbordante, latteo, imparziale, neutro, stavo passeggiando ad Arte Fiera quando mi sono imbattuta nei lavori dell’artista spagnolo Santiago Villanueva.
I lavori esposti sono del 2011 “Series Touch Therapy”, dei senza titoli completamente bianchi, lucidi, smaltati, che risucchiano per l’alta tattilità che invocano sussurrando, si, perché sono incredibilmente leggeri e anacronistici alla vista, e invogliano, provocano gentilmente, hanno voglia di essere toccati.
Villanueva riesce a sfruttare il formato standard della tela, l’oggetto più usato e manipolato nella storia dell’arte, ma la riveste di fredda e lucida plastica contemporanea, mischia storia  e futuro, scolpisce la tela, facendole colare addosso materiali come polistirene, vernice e vetronite.
La produzione artistica di Villanueva dal 2008 al 2013  vede una ricerca stremante verso la purezza tridimensionale delle forme, una lucidità erotica e sublime, apostrofo di un’atmosfera metafisica. I colori usati sono appunto lucidi e monocromi, dal bianco al nero, al blu, al rosso, tonalità cromatiche specchianti, offrono una realtà speculare distorta e scivolosa.
Gocce filanti e eterne cadono dal soffitto e sotto la loro rotondità ecco contrapporsi una cumulo di polvere bianca. Compatezza e scomposizione si trovano contrapposte ma tonalmente in armonia. Tutto è cancellato tutto è ancestralmente concepito. La grande goccia ricorda il latte materno uscente dal seno, o il liquido spermatico, sostanze vitali in grado di generare vite. Vite che in Villanueva sono armonie composte ad hoc, la formalità, ma ancora di più la materia eccede in ogni curva o colore.
Forme disciolte e bloccate per sempre, dinamismo e staticità unite nel soffio vitale della scultura plastica e lucida che riflette distorta lo sguardo.
La serie esposta ad Arte Fiera, rapisce per le pieghe indiscrete che la tela concede a noi voyeur. Non si spoglia, è timida e fiera, come una donna al primo amore, è vergine, è pura, troppo eterea per essere macchiata da qualche rammarico imperfetto.
Le onde, le increspature sono ai margini, outsider informi che si riposano su loro stessi, stropicciature di un pugno su qualche letto disfatto, rievocano alcuni panneggi di una grecità remota. Ricordano anche i panneggi delicati e soavi di Canova, di Psiche qua non è rimasto che la piega distratta, al quale la bellezza è rimasta aggrappata per sempre e poi basta. Le tele-scultura di Villanueva, emanano anche un forte senso di interruzione, un’interruzione armonica, nell’oceano monocromo e piatto della tela bianca che improvvisamente verso la cima o l’angolo infondo trova irrequietezza increspandosi improvvisamente. Un cambio di rotta, una virata, verso una voglia stropicciata e scremata.
Avvicinandosi all’opera e osservando attentamente le onde, ci si perde in quel mare di lattea memoria, i ricordi scivolano nell’orgasmo freddo dell’abisso, e in una colata di neve, qualcuno sembra gridare sofficemente: “
sono qui, nascosto tre le linee curve di un passaggio. Sono qui per ricordarti di quanto sia morbida una pelle un freddo inverno, o di quanto sia caldo sciogliersi nell’estasi di un sogno vellutato.”
Tra le righe perse di un marmo si assaggia la freddezza di un liscio tormentoso.
E in questo erotismo congelato ritrovo per caso la glaciale compostezza formale delle muscolature impresse da Robert Mapplethorpe.
Chi meglio di lui nella cultura underground newyorkese anni ’80 seppe coniugare alto e basso? Pornografia e nudo, il tutto con un taglio impeccabile, una purezza formale e una prospettiva implacabile? Quanta grecità classica in alcuni scatti fotografici? Quanta proporzione e grazia in enormi falli in primo piano? Nervature che scivolano lente nello sguardo, con sobrietà. Muscolature che diventano seconde pelli, e secondi panneggi.
Schiene, cosce, glutei, piedi, ginocchia, ogni incontro nel corpo è armonia e linea, il muscolo diventa pura forma, e la linea di una gamba è un grido nell’infinito.
Mapplethorpe cancella e azzera volgarità o impurità, tutto è calibrato ed equilibrato.
I corpi sono liquidi freddati, curve su curve, paesaggi quasi metafisici.
Come non ricordare anche i bellissimi fiori? Immortalati in bianco e nero, esprimono  il loro erotismo attraverso i petali sinuosi, pieghe d’amore, una sensualità trasbordante da ogni pistillo che diventa per l’occasione un ipotetico fallo.
Le curvature dei petali divengono così panneggi di un tempo perduto, la natura è uscita da sé per svestirsi di candidi panneggi.
Villanueva e Mapplethorpe in maniere diverse incitano in noi la tattilità, propongono uno slancio a toccare quelle curve, quei corpi, quelle insenature profonde e vorticose, invogliano a perdersi tra le loro forme collinari e perfette.
Vogliono essere toccati…ce lo sussurrano.
Paesaggi corporei e paesaggi materici attraverso i quali o sguardo non può che correre perdendosi leggiadro nel soffio vitale della forma.
E’ un naufragio erotico, continuo e armonico.
Qualcuno sembra sospirare: incontriamoci là nell’infinito di quella curvatura, scivolando lentamente.

Federica Fiumelli