Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 17 gennaio 2017

Gilberto Zorio. Le opere oscillano e fluidificano da un secolo al successivo.




12 GEN 2017
di
… Sussurro. Mi presento con le mie strutture, i marrani, le stelle, le canoe, i sibili, i desideri incolmabili, le esagerazioni … Mi presento con le necessità di tentare le voragini rovesciate che anelano il grande, rosso, grande lampo dell’arte. Arte prima pulsione, Arte veicolo del sogno intelligente, Arte assidua nell’intelligenza. Arte convinta rivoluzione rincorsa, Arte felicità pensante che sogna, che precede l’utopia; Arte elegante, Arte orgogliosa, Arte operaia, Arte sconfitta che sconfigge il buio. Benvenuti.
(Gilberto Zorio, Torino, ottobre 2000)
Questo scriveva l’artista in occasione di una mostra personale nella città che tanto gli ha dato e alla quale ha dato tanto negli anni Sessanta, così lontani, così vicini, la bella e algida Torino, quando il movimento italiano dell’arte povera capitanato da Germano Celant prendeva sopravvento nel panorama artistico internazionale. Ho riportato questo pezzo per sottolineare quanto l’artista sia uno di quegli artisti dotati di una penna straordinaria in grado di investire la scrittura di potente evocazione e bellezza. 

L’arte di Zorio è fatta di oscillazioni temporali, e colmo di meravigliosa energia torna per quest’anno, nel cuore di Bologna, alla galleria de’ Foscherari, la stessa che proprio nel 1968, a cura del già citato Celant ha ospitato la mostra Arte Povera. Le opere oscillano e fluidificano da un secolo al successivo... vuol essere un viaggio nella poetica dell’artista e nell’arte stessa, una mostra che raccoglie opere che slittano nelle intensità di mezzo secolo. Una felice spossatezza, una nostalgia del futuro, come scrive lo stesso artista. Un’esposizione magica, da fruire anche al buio, per assorbire tutta l’incandescenza e la forza della visione immaginifica di Zorio. Una visione eccitata, costruita da simboli e archetipi, ma che ben si tengono lontani dalle metafore, all’artista infatti ha da sempre interessato la potenza stessa dell’immagine o del materiale impiegato, e non il loro valore simbolico. 

Marrani volteggianti, motori, sibili, canoe, sospensioni, pelli di animali, stelle, letti, ampolle in pyrex, metalli, liquidi, giavellotti, è impossibile non rimanere sorpresi e incuriositi da questi strumenti, mistici, ambigui, ancestrali, dall’esistenza possibile e impossibile. Quella di Zorio è una continua ascensione alla speranza, l’arte acquista significato solo come atto di estrema e disperata speranza, una possibilità di redenzione, miglioramento, innalzamento, purificazione. Contrasti, appoggi, le dicotomie si innalzano, in modo che la galleria acquisti una dimensione eterea, preziosa, ritagliata fuori da un tempo prestabilito, il tempo diventa per un momento democratico, circolare, forse ellittico, il tempo scivola, fluttua, viaggia, come glassa, come burro caldo sul pane croccante, si infrange, si scioglie e si muove tra e con i nostri sensi. 

È un mostra che slitta tra il silenzio e il rumore, tra la luce e il buio, tra la pesantezza del metallo e la fluidità e mobilità di un liquido, tra la concretezza di una forma o di un oggetto e l’aleatorietà di un pensiero, qualunque esso sia. Con la fruizione al buio, ci troviamo di fronte a un altro volto, a un’altra mostra, a un altro ambiente, siamo immersi in un percepire stellare, cosmico, la materia pulviscolare si dipana nello spazio, senza peso, illuminando le nostre attese. Fremiti di galassia, un concretismo magico, straniante, che trova una vibrazione materica nelle pulsazioni luminose. 

Letto del 1966 e Per purificare le parole del 1980 sono due opere storiche che si fondono temporalmente con le altre presenti del 2016: Marrano con treccia, Canoa aggettante, Stella calibrata. Che dire su quest’ultima? La stella atavica e cosmica da sempre è utilizzata dall’artista fin dagli esordi, un simbolo dalla semplice complessità, antico come le stesse origini dell’uomo, perfetta negli equilibri e nelle proporzioni, tanto da raccogliere in se stessa le purità canoniche dell’uomo vitruviano, così elegante da non potere fare male. La stella catalizza in sé l’energia millenaria del tempo e della memoria, come elemento costitutivo del DNA del sogno dell’uomo, appartiene all’altrove e sorregge, o viene sorretta dalle alchimie. Ogni essere umano è un recipiente di minerali e di acqua, le sue vene, i polmoni e organi sono uno straordinario laboratorio chimico fatto di tubi e alambicchi. Così affermò l’artista in una conversazione con Celant. 

Tutto in Zorio è trasformazione, come nei processi alchemici costituiti proprio dagli alambicchi in vetro o in piombo, le conflittualità di energia scaturite dalla tensione tra i materiali, sono questi gli ingredienti di una visione mitica di un’arte sia operaia che sognante. Mettere a nudo i propri strumenti e meccanismi, un'arte pronta a rivelarsi pur mantenendo un’aura di fascino e mistero, che cede al dubbio e alla perplessità la sua più segreta energia. L’arte di Zorio è un’arte alla continua ricerca di un moto di energia pura, di movimento, di luce, di incandescenza, di reazione, di fluorescenza, di esplosione cosmica indefinita. Scienza e arte si intrecciano come impronte in un percorso mistico, enigmatico, dai contorni fragili e intercambiabili, l’unica certezza è il provocare una visione di inspiegabile stupore nell’osservatore, che rimane rapito dagli interstizi inarrivabili della cosmogonia artistica di Zorio. 

È così che la Canoa aggettante si libra sospesa per un viaggio fluido, tra le narrazioni di un’energia, come a colpire la nostra immaginazione, come una freccia, si fa mezzo per un altrove luminoso, intermittente, tra i sospiri di una speranza, talvolta chiamata arte.
Non pensare a quanto è rimasto indietro […] se quanto hai già trovato è fatto di materia pura, non potrà marcire. […] Se è stato soltanto un attimo di luce, come l’esplosione di una stella allora non troverai più nulla quando ritornerai... Ma avrai visto un’esplosione di luce. E anche solo per questo ne sarà valsa la pena.
(Paulo Coelho, L’Alchimista, 1995).








Richard Nonas. RIVER-RUN

link: http://julietartmagazine.com/it/events/richard-nonas-river-run/




La galleria P420 di Bologna, ospita per la chiusura di questo 2016 la personale dell’artista americano Richard Nonas, classe 1936, dal titolo RIVER-RUN. Richard Nonas ha lavorato come antropologo per una decina di anni studiando sul campo gli Indiani d’America nel Nord Ontario, Canada e continuando la sua pratica etnografica in Messico e in Arizona. A metà degli anni ’60, all’età di 30 anni, ha deciso di dedicarsi alla scultura. La sua esperienza da antropologo ha profondamente influenzato la sua pratica artistica e il suo impegno nel sentire e percepire lo spazio. Attraverso un vocabolario minimalista Nonas ha sviluppato un corpo di lavoro che ha indagato il tema del luogo. Nonas ha esposto in numerosi musei, istituzioni e gallerie in tutto il mondo realizzando installazioni di diverse dimensioni sia da interno che da esterno come le installazioni permanenti nel villaggio abbandonato di Vière et les Moyennes Montagnes,Digne-les-Bains, Francia (2012) e alla Fondazione Ratti (2003-2011).

Un intraducibile istantaneo accadere come suprema sintesi dell’esistenza, quando la parola non basta, allora la forma connette e condivide atmosfere, idee, memorie e sensazioni in un confluire inarrestabile che trae le proprie radici nel dubbio. La scultura compie un gesto antico, primordiale, ragionato e sentito, avvertito, si pone ancestralmente all’inizio di un tutto pronto ogni volta a cessare, per ripetersi, differentemente. Da capo. Se è vero che il minimalismo e l’antropologia hanno regalato gli strumenti della poiesis, è anche vero che Nonas ha saputo disfarsi di correnti, scuole, etichette, conclusioni o appartenenze per librarsi leggero all’originarietà dell’esperienza. Per spogliarsi ogni volta di risposte. Contemporaneamente affermazione e negazione, l’arte di Nonas, ci proietta, ci getta nel dubbio, senza proteggercene. Il dubbio si innesta viralmente nell’occhio di colui che osserva, che come un amante in caduta libera, con la potenza di un fiume in corsa, si ritrova a confrontarsi con l’ambuguità del coito, dell’esperire, dell’accadere, del fluire.

L’arte di Nonas è costruita abilmente da forme e materiali semplici (legno, ferro, pietre) che at-traggono in inganno, la semplicità non è che la componente erotica, seduttiva, che conduce invece ad una più profonda lettura umana, ad una più profonda analisi, ad un più profondo intercalare e declinare l’esperire; perché come sosteneva anche Jung non esiste nulla di più complesso della semplicità. La scultura si fa grammatica di una letteratura intraducibile del visibile ma soprattutto del non visibile. Le forme divengono così punteggiatura, imbevute, tra numerose correnti libere di possibilità, dando ritmo all’essenza così dannatamente sfuggevole e mutevole. E allora spazio all’ambiguità, che viene misurata e resa lirica, per compiersi e fondersi nello scambio osmotico tra arte e vita in luoghi pieni di umana significanza, come racconta lo stesso artista, dal forte impatto emotivo, che urlano di un silenzio profondo, e ci portano nell’abisso della dicotomia dell’essere.

RIVER-RUN è il flusso inarrestabile, il progredire ciclico della vita, l’essere e il cessare, una forza dicotomica indomabile che fluisce nell’incontro tra arte e vita. Dal riferimento colto, preso da un celebre testo di Joyce, RIVER-RUN diviene il senso più intimo e più intraducibile dell’esposizione e della poetica dell’artista, un divenire mutevole che ricorda il panta rei di Eraclito. Nonas differenzia il concetto di spazio da quello di luogo, se il primo viene inteso come proprietà fisica di pura misurazione, il secondo, pieno di significato umano, crea legami e situazioni, connette l’uno all’altro in un antico algoritmo, i places di Nonas sono infatti luoghi di forte impatto emotivo, dove la condivisione e la forza di evocazione sono all’origine del tutto.

RIVER-RUN interpreta la forza dei places, portando con sé molteplici visioni possibili di guardare e osservare il mondo, dove il dubbio e l’ambiguità trovano corpo in materiali crudi, grezzi, pesanti, industriali o naturali, mantenendo forme semplici, e ordinarie.

RIVER-RUN vuole essere un punto privilegiato d’osservazione, tramite il quale la scultura si fa mero strumento critico, dove l’interrogarsi diviene una corsa, un fluire inarrestabile.

La scultura, come ha scritto l’artista in uno dei suoi numerosi scritti, non è che il cuore dell’arte e queste sue affermazioni lo dimostrano: “Sculpture is the place where place is only barely possible. Is it the place where we begin to meet the meaning of culture. (…) Sculpture is that just unreacheable place. Sculpture is the object mark of paradox in our spatial – and special – being.
(…) Sculpture is absence acknowledged through placeness, then re-objectified. Sculpture is the solidified presence of absence, here and now. Sculpture is the hard heart of art. – And that’s quite enough for me.”

Nonas ci lascia attraverso le sue parole un erudito testamento della sua poetica, rientrando così in quella categoria di artisti dalla penna nobile, dal pensiero tagliente, agitatore del dubbio, sia nel silenzio della carta, che nell’immensità della forma, celebrata da un gesto aperto alla pluralità del tempo.

Federica Fiumelli 









 

Sissi. Motivi Ossei

link: http://formeuniche.org/sissi-motivi-ossei/


 


Il mio corpo è anche il corpo di Violette. L’odore di Violette è come la mia seconda pelle. Il mio corpo è anche il corpo di papà, il corpo di Dodo, il corpo di Manès […] Il nostro corpo è anche il corpo degli altri.
Daniel Pennac, Storia di un corpo

Parlare del lavoro di Daniela Olivieri in arte Sissi, significa parlare del nostro corpo attraverso il corpo dell’artista. La ricerca di Sissi, così viscerale, volta da sempre a indagare gli aspetti emotivi e identitari, fanno dell’artista un’archeologa, un’anatomista ma prima di tutto una persona appassionata alla costituzione infinitesimale dell’essere umano e delle cose.
La creazione per Sissi è architettura, è necessario scovare una struttura, un sistema, che sia esso nervoso od osseo, che sia trama e ordito, occorre trovare e incontrare qualcosa che sostenga e dia forma a un divenire.
“Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole”. Questo scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso. E il linguaggio artistico di Sissi, che comprende le più svariate tecniche, dal disegno, all’installazione, alla tessitura, al libro d’artista, alla performance, alla fotografia, alla scultura, è un linguaggio che diviene pelle, profondamente superficiale, dicotomico, in grado di rivelare e rilevare ogni vibrazione tellurica organica e psico-emotiva. Vibrazioni che in punta di dita si trasformano e si compiono nel gesto dell’artista, in questa mostra ad esempio, una grande installazione scultorea, tentacolare ci accoglie.

In Motivi Ossei, ospitata alla G.A.M. Galleria d’Arte Maggiore di Bologna a cura di Maura Pozzati, il paesaggio di germinazioni ossee è composto dal servizio di piatti (ossei) del banchetto dell’ultima performance L’imbandita tenutasi presso il suggestivo oratorio di San Filippo Neri e da opere appositamente realizzate presso la storica Bottega Gatti di Faenza. Ci troviamo dinanzi a ossa che divengono stucchi settecenteschi, dove il servizio di piatti in ceramica – come sottolinea bene Maura Pozzati nel delizioso catalogo –  smette di essere solo contenitore di cibo per assumere le sembianze di un paesaggio naturalistico tardo barocco. Il riferimento e l’ispirazione tratti dalla visione della Cripta dei Cappuccini di Roma, è forte ed evocativo. Le sculture in ceramica sono autentiche e originarie pulsazioni, la materia vibra sotto i nostri occhi, così candida e tormentata, nei tornanti della forma trasuda con quanto ardore e minuzia il corpo dell’artista abbia fecondato l’opera, l’abbia abbracciata, schiaffeggiata, palpeggiata, resa respiro e movimento. Come una sinfonia, una danza, una materia da masticare e inglobare. Sissi seduce attraverso la sua manualità e si distingue per sensibilità in un panorama contemporaneo spesso puntellato di anonimia e distacco. L’immaginario di Sissi è un meraviglioso ibrido tra rigore scientifico e un’immaginazione feconda quasi dannunziana, carroliana, barocca e fantastica, che trova attraverso il piacere, e i sensi, la più alta forma di espressione. Basta pensare ai primi lavori con gli abiti, alle lezioni nei teatri anatomici facenti parti di un progetto plurimo e ambizioso come quello di Anatomia Parallela per comprendere quanto il corpo sia luogo di scambio e di passaggio, un oggetto mitico e rituale attraverso il quale l’esterno e l’interno sono in continuo dialogo osmotico. Superficie e viscere in un solo tango.
La ricerca di Sissi, chiede tempo al tempo, lo sottrae e lo dilata. Le ore passare nei vari studi e atelier è quasi palpabile, tattile e lo si capisce e lo si comprende dalla cura che l’artista rivolge a ogni aspetto della creazione.
A sostegno del dinamismo espressivo dell’artista, in mostra si trovano anche i disegni dal virtuosismo pulsionale, Motivi ossei e Nodo Osseo, nei quali il segno diviene struttura portante di un’interazione sospesa tra lo scientifico e il fantastico, appunto. Nel menù dell’imbandita, la gastronomia barocca, decorativa e opulenta, proposta, si palesa negli eccessi e nella follia di confessioni trasparenti in gelatina.

Il cibo lussureggiante e beffardo, volto a deliziare e soddisfare, a divenire godimento estetico, sia visivo, olfattivo che gustativo, pronto a entrare in corpi sognanti e affamati fa dell’artista una regista famelica e bizzarra in grado di farci condividere sensazioni reali, di connetterci in un gesto antico, laddove oggi, in una realtà sempre più orientata a piaceri inconsistenti, virtuali ed effimeri tutto ciò sembra distante.
Delle performance gastronomiche rimangono anche scatti notevoli (Cene, Aiuola delle delizie), nature morte iperrealiste nelle quali forme, colori, odori e sapori si sovrappongono orgiasticamente e dionisicamente, i quali vengono resi eterni e attraenti, le tavole imbandite distillate in due dimensioni, quelle della superficie fotografica ci proiettano in una fantasia dilatata, eccentrica, fascinosa, malinconicamente decadente, provocante, trasbordante, assordante, ridondante, appartenente a un qui, lontano, a un accadimento consumato in punta di dita.
Così riesco a vedere, e a percepire, l’arte di Sissi, della quale ho potuto apprendere durante i miei anni di studio in Accademia avendola avuta come insegnante, come un’arte in punta di dita, che vibra, che pulsa tra interno ed esterno attraverso un corpo immerso nel più microscopico e incandescente granello di vita.

Federica Fiumelli






martedì 6 dicembre 2016

Intervista con i fondatori di Gelateria Sogni Di Ghiaccio, #Bologna






Gelateria Sogni Di Ghiaccio ha già nel nome un sano gene per essere considerata un’opera d’arte a se stante. Dietro la denominazione si cela però la volontà di progettualità e ricerca dei due giovani direttori artistici, Filippo Marzocchi e Mattia Pajè, entrambi diplomati all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Un piccolo spazio no profit, volto alla condivisione e alla sperimentazione dei vari linguaggi cross disciplinari che vivono e si compenetrano nel vasto panorama contemporaneo. Nel cuore storico di Bologna un luogo dove dare spazio all’incontro e all’interscambio tra giovani artisti emergenti, critici, curatori, studenti, appassionati o semplici curiosi.
Consigli per la fruizione: da tenere mente e cuore al fresco.


Come nasce Gelateria Sogni Di Ghiaccio? So che dietro il nome c’è una precisa storia, fruibile sul sito. In più potreste farci una breve presentazione di chi siete e di come siete arrivati, da giovani artisti, a occuparvi anche di direzione artistica?
 
Gelateria Sogni Di Ghiaccio è un contenitore, nasce dalla volontà di contribuire attivamente alla creazione di momenti espositivi e creativi nell’ambito dell’arte contemporanea, dalla volontà di supportare il lavoro di artisti attivi e dalla necessità di costruire un luogo dove lavorare e archiviare le nostre ricerche personali.
Il nome Gelateria Sogni Di Ghiaccio è già un’operazione artistica: quando abbiamo mostrato lo spazio, ancora in fase di costruzione, a Roberto Fassone, ci ha proposto di donare un’opera per la nostra neonata collezione, che consisteva nel battezzare il luogo con un nome scelto da lui, sul quale noi non avremmo avuto nessuna possibilità di modifica. La proposta era così intrigante che abbiamo accettato e in effetti siamo stati fortunati: il lavoro di Roberto ci piace molto.
Gelateria Sogni Di Ghiaccio è animata da tre giovani artisti: Marco Casella, Filippo Marzocchi e Mattia Pajè, che condividono lo spazio di lavoro quotidianamente. Marzocchi e Pajè (i sottoscritti) gestiscono anche la direzione artistica e si occupano della programmazione e dell’organizzazione dei momenti espositivi nello spazio.
Ci sono diversi fattori che ci hanno portato ad interessarci ad una forma di direzione artistica:
Sicuramente il primo è stato il nostro desiderio di vedere da vicino e fruire il lavoro di determinati artisti, soprattutto giovani, che ci piacciono e che passano raramente a Bologna. Fino a poco fa esistevano pochissime realtà in città che lavoravano con i giovani, e anziché lamentarci della situazione abbiamo provato a dare vita ad una proposta.
Altro fattore è la considerazione dell’opera d’arte come qualcosa di estremamente fluido e non attribuito ad un’unica autorialità. Abbiamo notato che volevamo renderci mezzi attivi per la produzione di arte contemporanea, provando a sfondare i limiti del nostro produrre soggettivo e personale. Ponendo come obiettivo ultimo la produzione di un’opera d’arte e non l’esaltazione di una personalità artistica, abbiamo deciso di dedicare le nostre forze ed il nostro tempo per cercare di rendere possibile e di far esistere le opere di altri artisti, senza porre nessun vincolo personale alle scelte di produzione. Dopo i primi esperimenti in spazi non deputati (ad esempio la mostra Atomic Blondie, Festival della Divina Casa di g.olmo stuppia, tenutasi in un appartamento privato), abbiamo deciso di aprire uno spazio che potesse accogliere al meglio questo modo di agire.
Estendendo la nostra personale pratica artistica a comprendere attività di gestione e di organizzazione abbiamo inoltre realizzato quanto questa estensione faccia parte del nostro lavoro in maniera indissolubile.
Consideriamo GSG come un ampliamento del nostro modo di operare nell’arte, e come uno dei progetti più importanti del nostro lavoro.

Uno spazio indipendente che vuole dedicarsi specialmente alla sperimentazione e all’ibridazione di differenti linguaggi, è oggi più che mai una vera scommessa, e osiamo dire un atto di coraggio, avete avuto dei modelli ai quali vi siete ispirati o che ammirate? Anche esteri?

Partiamo dal presupposto che noi abbiamo sempre vissuto gli spazi d’arte come agenti temporanei, che agiscono e se ne vanno; da artisti ci preoccupiamo molto dello spazio che andrà ad accogliere le nostre operazioni, tanto da inglobarlo spesso nella stessa progettualità dell’opera che andrà ad ospitare. Quello a cui abbiamo mirato è la costruzione di uno spazio che sia adatto e adattabile a qualsiasi operazione in esso venga effettuata, che sia caratterizzato il meno possibile e che sia pulito (questa è una delle modalità in cui ci troviamo bene in un luogo), in primo luogo per lavorarci dentro ed in un secondo momento per ospitare il lavoro di altri artisti.
Prima di aprire GSG abbiamo seguito per sei mesi la direzione artistica di un altro spazio no profit a Bologna, LOCALEDUE, esperienza che ci ha formato notevolmente da tutti i punti di vista.
Se dovessimo individuare un modello che ammiriamo diremmo assolutamente quello di LOCALEDUE, dove la volontà, la carica, la professionalità e il divertimento si uniscono per diventare attività. Stimiamo molto il lavoro di Fabio Farnè e Gabriele Tosi, che hanno dato vita a una delle nostre realtà preferite, un punto di riferimento per la sperimentazione e la ricerca a Bologna.
Siamo inoltre molto interessati alle differenti modalità di operare che assumono i diversi artist run spaces in Italia e all’estero e quegli spazi ibridi che rimangono legati ai territori, agendo senza porre vincoli agli artisti invitati.
Il punto di partenza che abbiamo adottato è quello di costruire dei momenti in cui singoli artisti si confrontano con lo spazio dedicato all’esposizione, lasciando la totale libertà agli artisti stessi di gestire la situazione espositiva come preferiscono, supportando e aiutando la realizzazione del lavoro senza mai vincolarlo concettualmente.
Da artisti cerchiamo di rimanere tali e non calarci in altri ruoli, ci limitiamo a invitare artisti o curatori nel nostro spazio e offriamo loro aiuto per realizzare un progetto.
Per noi aprire uno spazio è una piccola realizzazione; più che di coraggio lo definirei un atto di volontà. La volontà è il motore del nostro lavoro.

Come si rapporta “Gelateria Sogni di Ghiaccio” rispetto alla città di Bologna, che come sappiamo, ha un preciso background culturale?

Bologna ha sempre portato con sé la sua storia, è stata una delle città più attive nell’ambito culturale italiano, dai movimenti politici alle più varie sperimentazioni nel teatro, nella musica, nell’arte e nella cultura underground.
Qualche tempo fa avevamo notato che, seppur nelle vene della città scorreva ancora sangue creativo, non esistevano molte proposte riguardanti i recenti sviluppi delle arti contemporanee né abbastanza situazioni che potessero offrire occasioni di sperimentazione ai giovani operatori del settore.
Questa situazione rendeva il territorio bolognese piuttosto fertile per la nostra idea di spazio e abbiamo deciso di stabilirci, almeno temporaneamente, per dedicarci a questo progetto.
Crediamo molto nelle potenzialità della città e negli artisti che la abitano e ci lavorano; sia da artisti che da direttori artistici cerchiamo di contribuire per alimentare la proposta culturale, le collaborazioni, lo scambio e la sperimentazione in libertà.

Che domanda vorreste che vi facessi?
Vorremmo che ci chiedessi come poter collaborare.



Intervista a cura di Federica Fiumelli per FormeUniche







Porto dell'arte. Arte in appartamento. A Bologna. Intervista con i fondatori.





Irene Angenica e Davide Da Pieve sono i due giovani fondatori di Porto dell’Arte – Appuntamento per la promozione di artisti in appartamento nato dalla volontà di promuovere artisti attraverso una serie di eventi espositivi che si svolgeranno all’interno di un appartamento abitato, nel cuore di Bologna. Un progetto-scommessa che vuole essere soprattutto un dialogo-sfida con l’artista messo alla prova con gli spazi domestici, ma anche una differente modalità di fruizione per i visitatori.
Porto dell’arte nasce quest’anno sotto l’insegna della ricerca e della condivisione. Potreste raccontarci la genesi del progetto, e perché avete deciso di dargli questo nome?

Cominciamo dal nome, apparentemente banale perché l’appartamento si trova in via del Porto, ma è stato scelto per il suo valore metaforico di luogo di scambio, di crocevia. Il nostro intento è quello di permettere ai giovani artisti di fare esperienza per poter salpare, per rimanere in metafora, verso destinazioni più grandi.
Sia tu che Davide avete avuto e avete importanti collaborazioni ed esperienze formative con istituzioni artistiche sia all’estero che in Italia. Quando avete deciso di far nascere questo progetto con la volontà di proporre arte in uno spazio domestico vi siete ispirati a qualche particolare realtà? Avete qualche modello di riferimento che sia italiano o straniero?

In realtà la volontà è un po’ quella di rompere con altri luoghi espositivi di questo genere. Noi non siamo né una Home Gallery e tantomeno uno di quei luoghi espositivi casalinghi in cui i proprietari trasformano le stanze in temporanei white cube. Ci siamo documentati sul fenomeno delle mostre in appartamento, ma è difficile ricondurre a una sola esperienza ciò che noi vogliamo fare. Per prima cosa abbiamo delineato delle strade molto precise sia critiche, sia curatoriali; selezioniamo esclusivamente progetti installativi e performativi, perché instaurano un particolare legame con l’ambiente in cui nascono. Gli artisti lavoreranno in un uno spazio fortemente connotato con lo scopo di intrecciare la loro ricerca, il loro stile, con ciò che già si trova nell’appartamento.
Essere in qualche modo uno spazio indipendente, dalle scelte di gestione a quelle curatoriali comporta una grande libertà. Come considerate la pratica curatoriale delle nuove generazioni? Avete anche in questo caso qualche persona che stimate? Che ruolo ritenete abbia la curatela oggi? E rispetto alla critica?

Siamo ben felici di vedere che sta tornando sempre più in voga la pratica di artisti che investono il ruolo di curatore per altri artisti. Questa è una pratica molto vecchia, già nell’Ottocento troviamo i primi “artisti-curatori”, ma resta un fatto molto affascinante e solidale. Noi tentiamo di lasciare un grado di libertà molto alto agli artisti, la nostra è una fucina per giovani, quindi diamo la possibilità di fare un’esperienza espositiva vera e propria: lo scambio di idee, il dialogo sono elementi fondamentali per la creazione e realizzazione dell’opera, ma, una volta effettuata la nostra selezione, cerchiamo di interferire il meno possibile.
A proposito di critica, avete deciso di non accompagnare le esposizioni con alcun testo critico, nemmeno su sito e sui social dando così importanza alla relazione che si instaura nell’atto dell’accadimento che avviene nell’incontro tra artista e spazio, e tra fruitore ed opera. Come mai?

Praticamente ti sei risposta da sola. La nostra volontà è proprio quella di creare un rapporto diretto e in qualche modo speciale tra il visitatore e l’opera esposta. Non c’è dubbio che oggi l’atto critico stia sempre più relegato alla scelta, alla selezione di un’artista, ma la nostra situazione, all’interno di un appartamento, è molto diversa. Quando apri la porta il visitatore diventa un ospite, egli varca la soglia di uno spazio privato che ha delle implicazioni e specificità che altri luoghi non hanno. Dunque accogliere le persone diventa un fatto verbale e la presentazione dell’opera giunge da sé. Nel corso delle nostre mostre non troverete dunque i classici “fogli di sala” ma un invito al dialogo; aspetto che abbiamo cercato di mantenere anche in rete, presentando il lavoro in modo diretto, solo attraverso immagini e video, sfruttando così l’immediatezza e la dinamicità che caratterizza la fruizione dei contenuti presenti online. Stiamo comunque lavorando per la pubblicazione di una raccolta di testi critici che documenterà tutte le prime esperienze di Porto dell’Arte.
Paolo Bufalini, il collettivo CHMOD e Simone Tacconelli sono stati i primi ospiti di Porto dell’arte. Che rapporto avete instaurato con gli artisti e soprattutto come definireste il lavoro che hanno deciso di presentare?

Gli artisti sono sempre nostri coetanei questo ci aiuta a creare dei rapporti paritari, si finisce col diventare subito amici. I lavori che ci vengono presentati nascono sempre da un dialogo tra noi, gli artisti e l’ambiente domestico. Paolo, Simone e il collettivo Chmod sono riusciti ad affrontare lo spazio dato modificandolo e interpretandolo secondo il proprio stile e la propria poetica. Nonostante la diversità dei lavori presentati, la necessità di sperimentare è stata continua e costante creando un buon dialogo con l’ambiente circostante.

Porto dell’arte nasce in un preciso contesto culturale. Come vedete inserita, una realtà come la vostra, all’interno di una città come Bologna, con una precisa storia e un preciso background culturale? E soprattutto perché proprio Bologna? Per necessità di studio e lavorative o perché ritenete che sia ancora una città sulla quale si possa investire e scommettere?

Un po’ entrambe le cose. Studiamo e lavoriamo a Bologna e pensiamo che questa sia una città dove i giovani sono sempre in fermento. Proporre nuove esposizioni significa voler dare una voce in più alla cultura di questa città, creare la possibilità di mettere in pratica un sfida ulteriore, per giunta in uno spazio angusto e più complesso rispetto alla norma.

Porto dell’arte si presenta allo stato attuale come un interstizio flessibile e prismatico all’interno del quale tutto (dallo spazio domestico all’opera proposta) interagisce con l’altro. Che feedback avete ricevuto dai visitatori, dagli artisti e dagli altri operatori culturali in queste vostre prime esposizioni? E che obiettivi si pone, porto dell’arte nel futuro prossimo?

Abbiamo ospitato molti visitatori, alcuni di essi estranei al mondo dell’arte contemporanea e soprattutto siamo riusciti a coinvolgere molti giovani. Secondo noi questo è un punto a nostro favore, vuol dire che stiamo facendo un lavoro che coinvolge la nostra generazione. Allo stesso modo artisti, docenti, operatori culturali e alcuni galleristi stanno frequentando il nostro spazio e, anche da parte loro, fin ora abbiamo ricevuto solo feedback positivi, ma attendiamo ansiosi anche quelli negativi, spesso più costruttivi e stimolanti! Per quanto riguardo il futuro, abbiamo già una serie di mostre programmate che sveleremo di volta in volta e speriamo che l’attenzione resti alta come è successo sin ora.

Ultimissima domanda, siete entrambi molto giovani e sappiamo bene come sia difficile lavorare nell’ambito culturale, tant’è che cimentarsi in attività di questo genere diviene quasi un atto di coraggio. Cosa vi ha portato ad appassionarvi all’arte? 

I: La mia passione per l’arte è stata graduale, non c’è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Sicuramente le personalità che hanno influito a fomentare questa mia passione sono state tante, impossibili da citare tutte, ma se c’è un artista a cui potrei accendere un lumino devozionale quello è sicuramente Kurt Schwitters.
D: Ho frequentato una scuola d’arte già dalle superiori, e al contempo ho sempre saputo che non avrei mai fatto l’artista. Penso sia fondamentale non riflettere solo sul pensiero di un critico o di un artista, ma al contrario, è importante cercare sempre nuovi stimoli per migliorarsi e proseguire la propria strada.

Federica Fiumelli












Arcadia: Rachele Maistrello in mostra a Bologna, a Gelateria Sogni Di Ghiaccio




Rachele Maistrello, nata nel 1986 a Vittorio Veneto, si è formata tra lo IUAV di Venezia, L’ENSBA di Parigi e lo ZHdK di Zurigo, e oggi è sicuramente una delle artiste più interessanti della sua generazione.
Come affermato in una intervista per Vogue, si è avvicinata all’arte, con particolare attenzione verso la fotografia, per una necessità, un bisogno di comprendere e leggere la realtà oltre quello che normalmente si vede; l’artista fa della propria poetica una visione sdoppiata del reale. Fra i suoi riferimenti culturali e artistici: Adrian Paci, Guido Guidi, Beat Streuli, Armin Linke, Giorgio Agamben, Annette Messager e Angela Vettese, ma non solo, Bruce Nauman, ogni scritto e film di Pasolini, il giardino di Niki de Saint Phalle, le fotografie di Ghirri, Eggleston, Diane Arbus, Giacomelli, Alessandra Sanguinetti, Philip-Lorca di Corcia, certi film di Fellini e di Chaplin, e moltissima letteratura: Stendhal, Pavese, Conrad, Dostoevskij, Henry James, Dante, Flaubert, Melville, Goethe.
Gelateria Sogni Di Ghiaccio, nuovo spazio indipendente per l’arte contemporanea a Bologna, ha deciso di accogliere proprio la Maistrello per la loro prima esposizione visitabile fino al 28 novembre. Per questi luoghi, l’artista ha proposto Arcadia.
Arcadia tempo di un luogo mitico, geografia del mito nel quotidiano, è un’opera composta a sua volta da più realizzazioni interdipendenti tra loro, un dialogo tra reale e surreale, alla ricerca del significato di profondi stereotipi e simboli antropologici come stelle e galassie.
Arcadia la ritroviamo nei video. First attempt, un fondale della Via Lattea preso dalla Nasa, a metà tra rigore scientifico ed estetica patinata, viene trascinato da un ambiente all’altro, dalle periferie bolognesi a luoghi domestici, più intimi, nei quali l’artista è entrata in punta di piedi come un voyeur bizzarro e ingordo. Sono state riprese così scene nelle quali bambini giovanissimi, contrapposti alle figure per età antitetica dei nonni, parlano, ci osservano, una bambina si cimenta al piano, qualcuno, prova a suonare, sempre, goffamente, note distorte. Ma è proprio questo elemento di distorsione, d’imperfezione, di tentativo di stonatura che reca efficacia al topos di Arcadia, dove il montaggio è stato per lo più escluso e l’illuminazione mantenuta naturale. Sotto i ponti autostradali, nelle periferie, dove le strade sono echi desolati, ragazzine fanno capriole e “cazzeggiano” sonnecchiando tra la noia e l’estasi, proprio sulla scenografia mobile. L’universo si fa gioco o diviene gioco di una giovinezza in crisi, forse abbandonata, ma questa volta di scena in una “festa mobile”. Proprio come scrisse Hemingway nella prefazione della sua Festa Mobile: “Se il lettore lo preferisce, questo libro può essere considerato opera di fantasia. Ma esiste sempre la possibilità che un’opera di fantasia come questa getti un po’ di luce su ciò che è andato sotto il nome di realtà”.
In questi lavori della Maistrello il mitico e il quotidiano si fondono interrogandosi, su diversi tempi e diversi luoghi, dal dilatato all’immediato, per frammenti di visione e sospensione. Il tempo del video, quello della performance e quello della fotografia sono un unico luogo, atemporale come Arcadia, dove i dettagli, come le biglie o gli adesivi rappresentanti reazioni stellari di combustione, trovano una logica di compimento.
In Third attempt, atto conclusivo di questo dialogo, la scenografia viene smantellata e le sue componenti installate in un ambiente naturale all’alba, sulla cima di uno dei calanchi del Parco Regionale dei Gessi Bolognesi, come viene sottolineato nel testo critico: “La costruzione dell’immagine diventa così un atto fisico in cui il raggiungimento della vetta sorregge lo slancio verso l’icona”. L’esposizione si conclude così, in un atto catartico, dove l’artista si disfa dei suoi mezzi per ricongiungersi nello spazio etereo del simbolo.
Come viene definito nello statement dell’artista: “La sontuosità del kitsch, la contraddizione del tautologico, l’iconologia del periferico, sono tutte facce di una medesima ricerca: sulle persone, sulle loro private eroicità, sui loro simboli quotidiani. Il risultato si compone di opere fotografiche, collages, disegni, video e installazioni”.
Il lavoro della Maistrello, più che trasversale, consiste nell’interrogare, nell’esplorare, nello scivolare in altri mondi tramite l’utilizzo di altri mondi, che essi appartengano alla letteratura o a momenti di osservazione nati all’angolo di un bar, poco importa, quello che conta è che reale e surreale riescano a con-fondersi per dimenticare e farci dimenticare la monogamia del credere che quello che esiste sia comprensibile solo a una semplice apparenza. Arcadia come possibilità mobile, in molteplici spazi di accadimento e condivisione dove il mito risorge in attimi di quotidianità stonata.

Federica Fiumelli




Sophie Ko. Geografie temporali. Terra






12 NOV 2016
di
 
Eraclito sosteneva che il tempo fosse un gioco splendidamente giocato dai bambini, secondo Romano Battaglia invece il tempo era come un fiocco di neve, scompare mentre cerchiamo di decidere di cosa farne, Charles Dickens lo paragonava a uno dei più antichi tessitori.
Le Geografie Temporali dell'artista georgiana Sophie Ko, per la prima volta a Bologna, alla Galleria de' Foscherari, sono il tempo dell'immagine. La mostra riflette su quello che il contemporaneo soffre, e cioè la mancanza di tempo e la sovrabbondanza di immagini, due poli opposti antitetici che mirano a sottolineare un bisogno, una necessità di ascolto dell'origine, di un'essenzialità perduta sotto i fasti di un logorroico e isterico capitalismo.
Quello che si chiede di accogliere con questa esposizione, è l'ascolto, il silenzio, la materia, la terra. Questa mostra vuole essere un viaggio nel naufragio dell'esistenza, ma non in senso nichilistico, anzi, quella alla quale siamo invitati, è una visione microscopica del senso della rinascita; il senso della dicotomia, della contraddizione, di essere inizio e fine in un continuum sinestetico.
I lavori esposti, sono composti da pigmenti puri e/o da ceneri derivanti da combustioni di immagini, solo Kaspar Hauser, è l'unico acquarello dove la dimensione figurativa viene recuperata. È proprio questo lavoro che fa da anello di apertura o chiusura a questo viaggio espositivo, il mito della figura di Kaspar Hauser, è una presenza umana minuscola, fragile, in balia di un silenzioso bianco, alla ricerca di una terra perduta o promessa, il mito moderno e romantico dell'uomo avvolto dalla totalità del cosmo ci orienta a una complessità stratificata, ardua, Kaspar Hauser diviene lo snodo di passaggio, il punto centrale delle clessidra, dove il corpo si affusola per permettere alla sabbia di passare. E allora il tempo sottile, scorre, passa, corrode, sfila, scivola, scappa da noi e insieme a noi, per altri luoghi, altre mete, altri spazi dove potersi compiere.
L'uomo accende a se stesso una luce nella notte, Atlanti, Terra e Stella polare, i titoli dei lavori, aprono e introducono chiaramente al significato della poetica dell'artista, una ricerca volta all'essenza vibrante della materia, alla costituzione più intima dell'uomo, Le geografie temporali della Ko sono storie epiche che stanno all'origine della narrazione, a un passo, un soffio, poco prima della parola. Le teche verticali contenenti le ceneri si dispongono allineate una a fianco all'altro, come un'eco. Solo con Atlanti la verticalità viene abbandonata per fare posto a una trasversalità aguzza, appuntita, serrata e decisa come nei profili della Scogliera sulla costa di Caspar David Friedrich. I riferimenti della Ko sono colti, dalla pittura sino alla letteratura, la maestosità tumultuosa di queste impronte nella polvere celebrano un'intensità pari ai versi di Rilke o alle sinfonie di Felix Mendelsshon, in particolare cito l'overture Die Hebriden Op. 26.
Le geografie mutano con il tempo e vertono sul concetto di limite, quello che intercorre tra visibile e invisibile, tra noumeno e fenomeno, tra dentro e fuori dal tempo. Le geografie temporali sono esse stesse tempo, tra concetto e spirito, contengono in sé contraddizioni e pluralità, sono esse stesse immagini, combustioni, resti delle stesse, per poi divenire eleganti fenici e rinascere come nuove immagini. "Che cosa resta delle immagini quando se ne è fatto scempio? Cenere e colore." Ci invocano ad avere cura della nostra cenere, in un momento di massima usura delle immagini, qui ci si interroga sul valore più alto e più ampio della visione.
Come afferma il curatore, Federico Ferrari in Finis initium, "la cenere è quel che resta, quel che ci resta", la Ko iconoclasta e iconofila allo stesso tempo, ci conduce sul filo del paradosso proprio di ogni costituzione dell'essere.
Come cavalieri düreriani nella sala delle tredici Geografie temporali di Terra ci troviamo avvolti e sopraffatti dalla profondità di essa, come anime osserviamo la caducità propria del guardare, dell'esperire, del vivere stesso, è come avere un punto privilegiato per osservare la fine, la cessazione, la consunzione, l'abrasione, la morte, come ultimo atto. Dal fondo del sepolcro, scalzi, rimiriamo e avvertiamo il sublime, l'enigma, l'impercettibile mutare del tempo che intraducibile, si traduce difatti con le crepe tra le masse di cenere e pigmento, come rughe, come corpi attraversati da rivoli di memoria, si fanno carne e sguardo frammentato, impalpabile. Le Geografie sono corpi e lembi di materia residuale, a metà tra la fantasmagoria e il reale.
"La materia, il colore, tracciano una - iconografia dell'invisto - come ribadisce Ferrari, è come se l'artista ci affidasse una mappa con l'unica istruzione di perdersi. E come il tempo gioca con la cenere, cambiandone forme e destini, come i bambini con la sabbia, anche noi giochiamo a perderci come Kaspar Hauser, naufraghi nella cosmogonica attitudine dell'arte.