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12 MAG 2016 di FEDERICA FIUMELLI
Tutto ciò che è profondo ama mascherarsi; le cose più profonde odiano l'immagine e la similitudine (Nietzsche)
Maschera come vuole l'etimologia della parola sta a significare persona. La maschera, nella mostra curata da Antonio Grulli alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, diventa luogo autentico di incontro tra tre persone di differenti generazioni.
Il celebre Autoritratto con maschere, 1899, del pittore belga James Ensor diviene l'innesco e il pretesto per un dialogo enigmatico tra Piero Manai e Luigi Presicce, entrambi gli artisti hanno infatti preso come punto di partenza la suddetta opera per alcuni lavori. Si crea così una voce triangolare che trova nell'assimetria geografica e temporale una corrispondenza colta, trasversale, e puntuale, rituale e preziosa.
L'esposizione può essere letta come una riflessione sul corpo, sulla trascendenza, la mancanza e l'enigma imprescindibile che risiede come edera nel profondo substrato dell'esistenza. Lo sguardo pittorico di Presicce e la pittura scultorea di Manai si infrangono l'uno nell'altra in una complessità stratificata che richiama l'essenza e l'arcaicità della materia. È una questione di gesti primordiali, importanti e intrisi di armata e mascherata coscienza.
Come ha affermato in un'intervista lo stesso Presicce "Compiere un gesto è tanto significativo quanto il non compierlo". E ancora: "La fissità è il punto esatto da dove parte o finisce il gesto, l’azione è fatta per chi si annoia, il movimento per chi non ha la pazienza di vedere". L'enigma di Presicce risiede nella bellezza della monumentalità che viene celebrata e ritualizzata con estrema cura nella fissità del tableau vivant. Il sapere dell'artista si denuda e si presenta davanti a noi nella complessità di storie e archetipi che si stratificano con una dignità eloquente.
Presicce performer ci conduce ogni volta in una riflessione sul significato del medium pittorico, e non solo. Enigma è, non a caso, il titolo di due oli su carta intelata di Piero Manai che ben mostrano/dimostrano una delle essenze dell'esposizione. Due corpi frammentati si ergono quasi specularmente per frammenti, e nella mancanza risiede il potere dell'evocazione e la forza del mistero.
Nelle parole di Tilman Osterwold in occasione della mostra monografica dedicata a Manai e tenutasi nel 2005 alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna "Nella gestualità e nella fisionomia degli individui tracciati dall'artista corporeità e sensibilità (percettiva) vivono nell'altalena di incertezza e autoconsapevolezza". E ancora: "I suoi colori monolitici, grigi e terrei riportano a quelli del tedesco Anselm Kiefer e la sua modalità compositiva, formalmente e tematicamente tarata sulla scultura all'italiano Enzo Cucchi; il suo nichilismo pittorico quasi monocromo all'austriaco Arnulf Rainer".
Piero Manai, oltre a interrogarsi sempre sulle logiche e sulle funzionalità della pittura ha indagato la storia dell'arte e i suoi maestri, non a caso "la sua autoconsapevolezza artistica trova un parallelo in Goya, Nolde, Brancusi o Bacon, in Géricault, Van Gogh, Schiele o Rainer, Beuys o Medardo Rosso, Cézanne". L'essere colti e consapevoli ha permesso sia a Manai che a Presicce di potere dialogare indagando la profondità dell'immagine, servendosi dei diversi mezzi artistici per riportarci lì da dove eravamo naufragati, dalla pittura, la più antica maschera artistica.
E se corpo e pittura sono due sottili echi che sembrano rincorrersi negli spazi della de’ Foscherari, nei monoliti di Manai la pittura si fa corpo autentico di una fisicità trascendentale, ha scritto sempre Osterwold "Monolitico è l'effetto della figura umana, ma anche l'immaginazione artistica di Piero Manai. La pittura, il processo pittorico, producono un effetto monolitico: la corrispondenza di colore, di forma, spazio nella struttura aperta dello sfondo, dove vibra la pienezza del vuoto". E ancora "La pittura si aggrappa alla sua forma compatta e monolitica, rinforzando, allo stesso tempo, i suoi labili contorni. Poi, quando le linee di colore sgorgano grondanti dalle pietre, pare disfarsi in una liquida melanconia".
E le pietre sono protagoniste di questo dialogo fatto di rimandi e suggestioni rimbalzanti, le pietre tornano bloccate nell'eternità di un attimo fissato per sempre nella fotografia della performance di Presicce Santo Stefano, i coriandoli, le pietre del 2015, sospese in un clima tra l'arcaico e il grottesco, nella trama fitta ma ben costruita dell'atemporalità liquida che costeggia gli interventi di Presicce.
L'enigma sussurrato da Manai viene ripreso e riflesso nelle sculture di Presicce, come un richiamo, come un appuntamento, o meglio come un accadimento dettato dal fato, Nel costato e Nel nome del padre , nelle quali la figura umana si mostra nel sacrificio del frammento, dell'incompiuto e dell'assenza, della ferita come margine dell'altrove. Nella prima la terracotta, nella seconda ottone, gesso, piume, fimo, acrilico e make up, i materiali non sono che veicoli per una sublimata stasi.
La fotografia è un'altra linea che scorge come guida al dialogo tra i due artisti, in Presicce il lavoro fotografico accompagna sempre la ricerca e lo svolgersi dell'atto performativo diventando a tutti gli effetti sia strumento di indagine che opera, in Manai è altrettanto imprescindibile l'atto fotografico, soprattutto tramite la polaroid che permette un'istantaneità, una fisicità, e un'intimità del tutto particolari. Note, infatti, sono le polaroid di Manai attraverso le quali, alla stregua di Arnulf Rainer o Egon Schiele, l'artista si è autoritratto indagando l'espressione psicofisica intervenendo poi a posteriori con gesti pittorici.
Il gesto si ritrova e si identifica come autoritratto nell'opera magna, e fondamentale per il percorso dell'artista, nelle cinquantasei opere, carboncini su carta intelaiata, Autoritratto con maschera, 1899 del 1980. Una moltitudine centrifuga di volti in nero sono stati concepiti come strumenti di indagine, come elementi monocellulari, i carboncini riconfermano l'interesse di Manai per l'analisi del linguaggio del corpo e della mimesi facciale già visibili nella serie delle polaroid.
Una mostra questa, cardiaca, al limite tra la vibrazione e la cessazione del battito, che indaga con estrema complessità e profondità l'identità della pittura, dell'opera d'arte in se stessa e della figura umana, come elementi di una costellazione ancora da monitorare, che scioglie e lega nell'enigma sia l'assenza che la cura.
Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.
giovedì 12 maggio 2016
Autoritratto con maschere Piero Manai e Luigi Presicce alla Galleria de' Foscherari di Bologna
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Bowie before Ziggy and A clockwork Orange #OnoArteContemporanea
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“David Bowie non è solo il più straordinario gigante della musica pop degli ultimi quarant’anni. È stato un corpo santo, per usare l’espressione coniata dall’architetto Luca Ruali. È stato per me e per tanti altri l’inizio di una vocazione, il padrino di una passione, un esempio da seguire, un padre da difendere sempre e comunque, e il simbolo perfetto di tutte le possibilità che l’uomo ha per migliorare se stesso. […]Ma Bowie era un corpo santo, la bellezza della dedizione alla bellezza come valore principale della specie, e non ci sono malefatte nel suo curriculum.” Così Gianluigi Ricuperati su Rivista Studio ha scritto uno dei più bei pezzi dedicati alla scomparsa del grande mito. Parlare di un gigante come Bowie non è mai facile, come rendere omaggio alla sua pazzesca e dionisiaca figura. La Ono Arte Contemporanea di Bologna ha deciso per la terza volta di ricordarlo celebrando la sua immagine attraverso i ventisette scatti di Michael Putland e il lavoro grafico di Terry Pastor, designer che realizzò la copertina di Ziggy Stardust e Hunky Dory.
Corre l’anno 1972, aprile, nell’allora residenza dell’artista, Haddon Hall, Putland ritrae un Bowie before Ziggy, un artista posto dinanzi, prima, di una delle sue innumerevoli e prismatiche macro proiezioni del sé. La serenità, solarità, la bellezza sorridente e avvolta nell’abito disegnato da Freddie Buretti, entrano nell’immaginario collettivo, in punta di piedi, come se Putland avesse colto in quegli scatti in bianco e nero, un’intimità preziosa, luminosa e rara come certe stelle. Si racconta: “L’idea era quella di ottenere un look a metà tra l’immagine di Malcom McDowell con un occhio mascherato e un insetto. Era l’epoca di Ragazzi Selvaggi di William Burroughs…ed era un incrocio tra questo e Arancia Meccanica che cominciò a mettere insieme la forma e l’aspetto di ciò che Ziggy e gli Spiders stavano per diventare.” Ed è alla ONO che icone che hanno cambiato per sempre la storia dell’arte e della cultura, dal cinema alla musica, si incontrano nei backstage e nelle retrovie del mezzo fotografico. In mostra infatti parallelamente alla grazia androgina di Bowie si può ammirare soddisfatto la propria sete voyeuristica il lato B di uno dei capolavori assoluti di Kubrick, Arancia Meccanica, tratto dall’omonimo romanzo di Burgess, una pellicola che viene preceduta dalla sua fama, che viene tutt’oggi erroneamente ricordata per l’eccesso di violenza mostrata anziché sulla riflessione che innesca inerente alla libertà che ogni uomo ha di scegliere tra bene o male.
In occasione del quarantacinquesimo anniversario dalla sua uscita il film viene riportato allo spettatore tramite gli scatti i Dmitri Kasterine, il quale cominciò la propria carriera fotografica in piena Swinging London. Fu Kubrick alla fine di una giornata sul set de Il Dottor Stranamore del 1964 a chiedere a Kasterine di lavorare per lui, aggiungendo “You stand in the right place”. Così iniziò il loro sodalizio, che portò Kasterine a lavorare anche sui set di 2001: A Space Odyssey e A Clockwork Orange. Nelle foto del set di Arancia Meccanica, il Kubrick amante del dettaglio si rileva dalla cura e l’attenzione che il regista dedicava ad ogni scena, pazzeschi gli scatti di Kubrick con la macchina da presa disteso a terra sotto la celebre scultura fallica The Rocking machine di Herman Makkink, ispirata probabilmente all’opera Princess di Brancusi. Nulla nelle pellicole di Kubrick veniva lasciato al caso: dall’architettura, all’arredamento, il vestiario e la musica, tutto veniva magistralmente combinato dall’occhio sinestetico del regista. Una volta visti, come dimenticare gli abiti pensati dal talento italiano Milena Canonero? O i tavolini, sedie e dispenser realizzati dalla scultrice Liz Moore, come le opere di Allen Jones? Come scordare Rossini e Beethoven alternarsi tra il Korova Milk Bar e un sottopassaggio di città?
Se tutto questo si cela tra il surreale e il fantastico, ancora più intrigante è osservare le preparazioni sul set, scoprendo anche in questo caso un’intimità del tutto unica tra il regista e la propria opera. Sia Putland che Kasterine hanno avuto il pregio di trovarsi esattamente al posto giusto al momento giusto coniugandolo alla capacità di rubare al mito preziosi attimi di singolare bellezza. Negli spazi della ONO si incontrano così, inediti, Bowie e Kubrick, fautori celebri entrambi di un’idea di arte wagneriana, totale, dove arte ed estetica si compenetrano a trecentosessanta gradi dimostrandoci una realtà altra, dove l’immortalità di un’opera resta dicotomicamente eterna e contemporanea. Due artisti immensi con i quali oggi come domani è e sarà necessario confrontarsi.
« Let the children lose it, let the children use it, let all the children boogie. »
Federica Fiumelli
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Il disegno, il segno, la linea di Riccardo Baruzzi #P420
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“É in cielo che tu devi salire, Astolfo, su nei campi pallidi della luna, dove uno sterminato deposito conserva dentro ampolle messe in fila, le storie che gli uomini non vivono, i pensieri che bussano una volta alla soglia della coscienza e svaniscono per sempre, le particelle del possibile scartate nel gioco delle combinazioni, le soluzioni a cui si potrebbe arrivare e non si arriva.” Italo Calvino, “Il castello dei destini incrociati”
Il disegno, il segno, la linea. In questa digressione la ricerca artistica di Riccardo Baruzzi si palesa e si celebra nella volontà costante di mantenere una soluzione a cui si potrebbe arrivare e non si arriva. É attraverso il corpo della pittura che il disegno viene indagato e percorso in queste opere di mancanza. Perché di mancanza si parla nei lavori di Baruzzi. Una mancanza che manifesta la complessità del potente ma sottile velo, limen, che intercorre tra fenomeno e noumeno, tra figurazione e astrazione. La linea infatti, elemento di conoscenza imprescindibile nella cifra stilistica di Baruzzi, come una fedele ma spesso infedele compagna, vuole assomigliare più al pensiero che non alle cose. I soggetti non sono importanti, quello che conta è tracciare un intervallo delicato, audace, sofisticato, essenziale, un segno che è espressione originaria di una caduta nell’incompiuto. Baruzzi ci narra attraverso le proprie opere in maniera anti didascalica, la potenza evocativa dell’artista risiede nella mancanza di descrizione. Baruzzi accenna. Nell’esplorare i limiti che intercorrono tra i supporti e l’opera come in “Ordine” o tra disegno e pittura come in “Quasimezzochilo”, l’artista ci offre delle composizioni visive, brevi, sincopate, musicali, intermittenti, perché un altro elemento imprescindibile nel lavoro di Riccardo Baruzzi è il suono.
La linea si amalgama al suono in un’ascensione che è produzione di segno. La linea calligrafica e sensuale di Baruzzi incide il proprio di-segno in interstizi sonori di visione; l’autonomia semantica del segno in sé per eccellenza come appunto è la linea, bagna, scorre, allinea, compone, spalma, seduce e conduce nell’imprevisto, in qualcosa che può accadere ogni volta differentemente nell’occhio di chi osserva. Baruzzi, artista famelico, affamato e insoddisfatto, sagace funambolo incarna lo spirito dell’uomo che ride di Victor Hugo, “Aveva crisi di smarrimento, la sua mente subiva l’oscillazione tipica dell’imprevisto, che ciclicamente, sembra portarci a capire qualcosa, per poi portarci a non capire più niente. A chi non è capitato di avere nel cervello un bilanciere del genere?” In questa oscillazione dicotomica i disegni di Riccardo Baruzzi operano alla stregua di haiku, brevi componimenti poetici di origine orientale, che nella loro assoluta atemporalitá non ci privano di una concreta e sensuale corporeità. Nella caduta dei limiti proposta da Baruzzi, la cessazione, la perdita e la sintesi sono elementi costitutivi di una ricerca che si pone come una possibilità di cura dell’immagine. Come ha ribadito Simone Weil “Ciò che limita é senza limite.”
Riccardo Baruzzi, Dal disegno disposto alla pittura. 2 Aprile – 4 Giugno 2016 @ P420 di Bologna
Federica Fiumelli
sabato 23 aprile 2016
Textural Videogames: Universi per un’Esperienza Emozionale
Potete acquistare il libro "Textural Videogames: Universi per un’Esperienza Emozionale" a cura di Playing The Game al quale ho contribuito con un mio saggio breve dal titolo: "Rhizomatic Poetry" indagando il rapporto tra videogiochi e arti visive.
#Enjoythegame
Emoticon smileFrancesco Candeloro. Altri passaggi
link: http://wsimag.com/it/arte/20005-francesco-candeloro
"La città consente di vedere senza essere visti e di essere visti senza vedere."
(Serge Daney)
Immaginate un'alba oppure un tramonto, la luce che ne deriva e che si insinua e si riposa tra le pieghe delle architetture di una città che ha l'eleganza di un'anziana signora e l'ansia e la trepidazione di una giovane studentessa. Nell'essenzialità lineare di plexiglass eletta dall'artista Francesco Candeloro, la città di Bologna viene riportata nelle opere esposte alla galleria Studio G7 nel cuore del centro storico del capoluogo emiliano.
La mostra Altri passaggi racconta come lo skyline del paesaggio urbano può essere ripreso e suggerito in maniera decisa, astratta e colorata, e riporta lavori appartenenti alla ricerca più recente di Candeloro. L'artista, veneziano di nascita e di formazione, utilizza per la maggior parte plexiglass neutro o colorato al quale a volte associa carta variamente trattata. Se la luce naturale va a infrangersi tra le architetture urbane, nei lavori dell'artista la luce viene accolta nell'opera stessa, i fogli di plexiglass si sovrappongono allo sguardo restituendoci la complessità stratificata intrinseca della visione.
I profili di Bologna, dalla Basilica di San Petronio ai merli di palazzo dei Notai, una torre, gli elementi lineari si sovrappongono e si intersecano confondendosi nelle trasparenze shocking. Ma non solo Bologna, nei ricordi dei viaggi, anche Amburgo e Napoli, i profili si alternano nell'astrazione dai contorni di una mappatura espansa. All'antica e imponente bellezza dei dettagli architettonici si confonde la fluidità eccentrica delle trasparenze fluo in una dicotomia che fa da ponte per visioni ancora da incontrare.
Esiste qualcosa di più intimo di un profilo? Un'intimità che assume le vesti di un confine così sensibile e originario che dai profili aguzzi resi dall'artista derivano frequenze di una matrice personale e profonda. Ritmi incandescenti rubati dalla memoria di una città, che si sdoppia, e nella specularità si annida l'affascinante ambiguità. Il colore e la geometria sono due elementi che coincidono in questa simultaneità urbana, dove gli sguardi (nostri) e dei personaggi fotografati e riportati tramite aerografo o stampa UV nelle opere cubiche si incontrano in una pluridimensione costituita da luoghi che non sono che linee, come passaggi per altre visioni.
"La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole".
(Italo Calvino)
Federica Fiumelli
Coscienze Accese. Un gioco perpetuo di oscillazioni di senso
La coscienza è molto più della scheggia, è il pugnale nella carne.
(EM Cioran)
Anche se è passato un anno ad aprile, la mostra Coscienze Accese, alla Galleria La Fortezza a Gradisca d'Isonzo, in provincia di Gorizia, merita uno sguardo attento per avvicinarsi, conoscere e approfondire pratiche artistiche e curatoriali di una giovane generazione.
ON - OFF. on - off. La coscienza alla stregua di un interruttore funziona solo con la volontà di un gesto.Coscienze Accese è un gesto che la curatrice insieme agli artisti hanno compiuto per provocarci l'inizio di una combustione cerebrale. I cinque artisti selezionati, Barbara Baroncini, Con.Tatto, Daniele Pulze, Debora Cavazzoni, Jessica Ferro appartengono tutti più o meno alla stessa generazione. Una generazione che si interroga sul senso di interpretazione della vita e dell'arte.
Risvegliare la coscienza che in questo caso per me diventa sinonimo di conoscenza è voler scavare e scivolare nel corpo, nella carne del sapere alla stregua di una lama. In per non essere banale Barbara Baroncini ci propone un lavoro composto da otto frasi incise su zinco, brevi affermazioni che utilizzano gli stereotipi della comunicazione nelle cartoline postali, pensate per essere ipoteticamente inviate da chiunque, per chiunque. L'artista ribalta letteralmente, semioticamente e semanticamente l'ordine dell'ordinario. Lo spettatore qualunque è così costretto ad accendersi di nuovo sguardo per poter non essere banale.
Nei video proposti dal duo artistico Con.Tatto quello che si vuole indagare sono le relazioni, tra noi e l'altro ma anche tra noi e le nostre fragilità che in realtà non sono che abilità. Nei lavori di Con.Tatto il corpo diviene strumento di indagine e di riflessione della conoscenza che abbiamo o che ancora sicuramente non deteniamo sull'essere umano.
Debora Cavazzoni invece si interroga sul senso della tassonomia scientifica e innesta cortocircuiti nella fruizione. In Sinestesia, ad esempio, numerosi volatili vengono messi sotto vuoto in barattoli che normalmente sono impiegati per conservare alimenti; l'etichetta utilizzata per l'identificazione non è che una rilevazione di differenza. Ogni grafico della frequenza del cinguettio diventa un elemento incomprensibile per l'osservatore, che non può che percepire l'inesprimibile diversità nella categorizzazione.
Daniele Pulze per questa occasione ha pensato invece a un preciso site-specific. Le opere dell'artista, non a caso, solitamente nascono in relazione allo spazio che le ospita. Pulze è inoltre interessato all'interazione possibile tra un evento fisico e la sua immagine, il suo lavoro si ispira alla patafisica di Alfred Jarry, e in The very very big green balloon's room un grosso pallone verde va a inserirsi tra gli spazi della galleria. Le possibili descrizioni che accompagnano l'opera dimostrano l'anima patafisica dell'artista; il pallone verde può far convivere tante realtà, così si passa dall'ossigeno prodotto dalla cannabis a Salvini, dagli scarti Apple agli ecosistemi autosufficienti, alle sonde utilizzate da Google per mappare; l'archeologia di possibili soluzioni vive nel macro spazio dilatato dell'assurdo.
Le pitture e le xilografie di Jessica Ferro si ispirano invece al mondo dell'entomologia, le metamorfosi e le mutazioni di forme che compaiono alla visione spiazzano e conducono lo spettatore in un fitto e ossessivo reiterarsi di dettagli macroscopici. Ciò che appare in un modo quasi mai lo è, e in questo caso l'occhio scientifico e ispettorio dell'artista ci accompagna in un viaggio a un livello profondo e regresso negli interstizi della natura. La coscienza è un essere espanso, tellurico, sensibile e in un certo senso selvatico che richiede una sollecitazione attenta, attiva e intensa. La coscienza vuole accendersi e ha bisogno di farlo soprattutto oggi, nel pieno trionfo capitalistico dell'anestesia, perché, diciamolo, al potere fa comodo una conoscenza spenta e omologata, connessa a una scevra consapevolezza.
A volte gli interruttori di accensione non sempre sono facilmente raggiungibili, il sapere e la conoscenza sono a portata di mano solo per quelli che quella mano vogliono tenderla, e allora porto con me l'immagine di quando ero bambina e in punta di piedi mi tendevo verso l'alto, con la volontà di un gesto, il salto per accendere la luce diveniva così il simbolo di uno sforzo, di una tensione verso qualcosa.
È così che Coscienze Accese vuole innescare, come in un domino, un gioco perpetuo di oscillazioni di senso volte come proiettili a risvegliare dal torpore e dal sonnambulismo critico, pensieri di meravigliosa e incosciente significanza.
Federica Fiumelli
venerdì 12 febbraio 2016
Geometric Journey. #NoCurves Solo Show
link: http://wsimag.com/it/arte/19198-geometric-journey
Anche quest’anno in occasione di Arte Fiera il Poliambulatorio Giardini Margherita, struttura sanitaria privata che pone particolare attenzione al benessere psicofisico dei pazienti, proporrà sabato 30 gennaio alle ore 18, all’interno della sua sede, una mostra d’arte contemporanea nata dalla collaborazione con Spazio San Giorgio.
La scelta di quest’anno è No Curves, tape-artist noto al panorama non solo italiano per le sue opere realizzate con nastro adesivo e taglierino. "Il negozio di liquori si trovava al termine di una lunga file di insegne al neon, nel punto in cui la Hollywood Freeway tagliava il Sunset, linea divisoria fra le luci scintillanti e il buio della zona residenziale". (James Ellroy, Perché la notte)
La vita non si attacca solo sotto le suola delle scarpe, ma si insidia anche lì, insospettabilmente sotto una superficie adesiva, come di notte, un sospiro è uno strappo. Veloce si attacca senza rotondità di appello, il nastro adesivo si scaglia, si taglia, si sovrappone, si srotola sulle superfici più variegate. Dalla strada alla galleria, la linea non è che di passaggio, e non rimane mai, lei cade dritta e inaspettata, lei va, lei non è fatta per restare, solo per attaccare.
No Curves è già nel nome una dichiarazione d'intenti: "We believe in angles and straight lines." L'artista, uno dei più grandi esponenti della tape art ci invita a guardare il mondo da una linea retta a testa in giù. Nessuna curva, nessuna rotondità, nessuna forma languidamente morbida. Line is the new romantic, il cuore non ammette cerchi o semicerchi, quello che pulsa è la linea che scorre in overdose di superfici. Tutto è lineare, geometrico, essenziale. Rigore e rumore, di nastri che si dipanano.
L'immaginario di No Curves popolato soprattutto da miti ed eroi, da icone o leggende, nel contemporaneo dai punti di riferimento precari, si mostra per riduzione, semplificazione. Anche quando si tratta di pure forme geometriche o di paesaggi, le essenze vengono trattate con estremo riguardo lineare, lasciando all'osservatore una manciata di linee alla deriva dell'immaginazione. Nastri di adesivo si depositano lì tra porzioni di superficie a formare tracciati iperlineari dalla schiettezza super colorata.
No Curves guarda alla storia dell'arte, alle avanguardie, ai grandi maestri, dalla sintesi simbolista, alle geometrie spigolose del cubismo sintetico, al dinamismo futurista, alle astrazioni concrete di Mondrian, alle icone pop, al decorativismo anni Ottanta. No Curves sceglie, calibra, prende, taglia, organizza, allinea, spezza, sposta, piega, ama, odia, interpreta quelle strisce adesive colorate nell'ordine della propria economia visuale. Se al primo impatto le immagini ci sembrano autentiche grafiche vettoriali ecco che avvicinandoci scorgiamo una vera pelle formata da pieghe di materia, o meglio di materiale. A nastro, l'artista si eleva dall'imperante e fagocitante digitale per restare fedele alla linea, alla sua linea, l'analogico.
L'artista e la sua linea, data da rotoli colorati di scotch e un taglierino, ridonano alla manualità una voce, a fasi alterne, dimenticata. Il tocco di No Curves è evanescente, non ammette profondità se non un dialogo raffinato tra piani spesso trasparenti, che divengono ombre sottili, come lame, in perfetta sintonia o sincronia con le strisce colorate. Vibranti sovrapposizioni elettroniche. Il segno dell'artista, e non è inappropriato parlare di segno dato che la striscia adesiva a tutti gli effetti viene recisa-incisa sulla superficie o nello spazio alla stregua di una traccia a matita, è delicato, elegante, deciso, liscio, tagliente, aguzzo, ordinato, pulito, riservato definito, al gusto di un alcolico "strong". Fedele, la linea, non è fatta per restare, è già alla ricerca altrove chissà dove, di nuova vita da attaccare e alla quale attaccarsi.
Nuovi orizzonti, nuovi luoghi, nuove linee.
Federica Fiumelli
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