Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

giovedì 12 maggio 2016

Bowie before Ziggy and A clockwork Orange #OnoArteContemporanea

http://julietartmagazine.com/it/events/bowie-ziggy-clockwork-orange/




“David Bowie non è solo il più straordinario gigante della musica pop degli ultimi quarant’anni. È stato un corpo santo, per usare l’espressione coniata dall’architetto Luca Ruali. È stato per me e per tanti altri l’inizio di una vocazione, il padrino di una passione, un esempio da seguire, un padre da difendere sempre e comunque, e il simbolo perfetto di tutte le possibilità che l’uomo ha per migliorare se stesso. […]Ma Bowie era un corpo santo, la bellezza della dedizione alla bellezza come valore principale della specie, e non ci sono malefatte nel suo curriculum.” Così Gianluigi Ricuperati su Rivista Studio ha scritto uno dei più bei pezzi dedicati alla scomparsa del grande mito. Parlare di un gigante come Bowie non è mai facile, come rendere omaggio alla sua pazzesca e dionisiaca figura. La Ono Arte Contemporanea di Bologna ha deciso per la terza volta di ricordarlo celebrando la sua immagine attraverso i ventisette scatti di Michael Putland e il lavoro grafico di Terry Pastor, designer che realizzò la copertina di Ziggy Stardust e Hunky Dory.
Corre l’anno 1972, aprile, nell’allora residenza dell’artista, Haddon Hall, Putland ritrae un Bowie before Ziggy, un artista posto dinanzi, prima, di una delle sue innumerevoli e prismatiche macro proiezioni del sé. La serenità, solarità, la bellezza sorridente e avvolta nell’abito disegnato da Freddie Buretti, entrano nell’immaginario collettivo, in punta di piedi, come se Putland avesse colto in quegli scatti in bianco e nero, un’intimità preziosa, luminosa e rara come certe stelle. Si racconta: “L’idea era quella di ottenere un look a metà tra l’immagine di Malcom McDowell con un occhio mascherato e un insetto. Era l’epoca di Ragazzi Selvaggi di William Burroughs…ed era un incrocio tra questo e Arancia Meccanica che cominciò a mettere insieme la forma e l’aspetto di ciò che Ziggy e gli Spiders stavano per diventare.” Ed è alla ONO che icone che hanno cambiato per sempre la storia dell’arte e della cultura, dal cinema alla musica, si incontrano nei backstage e nelle retrovie del mezzo fotografico. In mostra infatti parallelamente alla grazia androgina di Bowie si può ammirare soddisfatto la propria sete voyeuristica il lato B di uno dei capolavori assoluti di Kubrick, Arancia Meccanica, tratto dall’omonimo romanzo di Burgess, una pellicola che viene preceduta dalla sua fama, che viene tutt’oggi erroneamente ricordata per l’eccesso di violenza mostrata anziché sulla riflessione che innesca inerente alla libertà che ogni uomo ha di scegliere tra bene o male.
In occasione del quarantacinquesimo anniversario dalla sua uscita il film viene riportato allo spettatore tramite gli scatti i Dmitri Kasterine, il quale cominciò la propria carriera fotografica in piena Swinging London. Fu Kubrick alla fine di una giornata sul set de Il Dottor Stranamore del 1964 a chiedere a Kasterine di lavorare per lui, aggiungendo “You stand in the right place”. Così iniziò il loro sodalizio, che portò Kasterine a lavorare anche sui set di 2001: A Space Odyssey e A Clockwork Orange. Nelle foto del set di Arancia Meccanica, il Kubrick amante del dettaglio si rileva dalla cura e l’attenzione che il regista dedicava ad ogni scena, pazzeschi gli scatti di Kubrick con la macchina da presa disteso a terra sotto la celebre scultura fallica The Rocking machine di Herman Makkink, ispirata probabilmente all’opera Princess di Brancusi. Nulla nelle pellicole di Kubrick veniva lasciato al caso: dall’architettura, all’arredamento, il vestiario e la musica, tutto veniva magistralmente combinato dall’occhio sinestetico del regista. Una volta visti, come dimenticare gli abiti pensati dal talento italiano Milena Canonero? O i tavolini, sedie e dispenser realizzati dalla scultrice Liz Moore, come le opere di Allen Jones? Come scordare Rossini e Beethoven alternarsi tra il Korova Milk Bar e un sottopassaggio di città?
Se tutto questo si cela tra il surreale e il fantastico, ancora più intrigante è osservare le preparazioni sul set, scoprendo anche in questo caso un’intimità del tutto unica tra il regista e la propria opera. Sia Putland che Kasterine hanno avuto il pregio di trovarsi esattamente al posto giusto al momento giusto coniugandolo alla capacità di rubare al mito preziosi attimi di singolare bellezza. Negli spazi della ONO si incontrano così, inediti, Bowie e Kubrick, fautori celebri entrambi di un’idea di arte wagneriana, totale, dove arte ed estetica si compenetrano a trecentosessanta gradi dimostrandoci una realtà altra, dove l’immortalità di un’opera resta dicotomicamente eterna e contemporanea. Due artisti immensi con i quali oggi come domani è e sarà necessario confrontarsi.
« Let the children lose it, let the children use it, let all the children boogie. »
Federica Fiumelli










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