Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

lunedì 14 luglio 2014

Milan Grygar. Sound on paper


link: http://wsimag.com/it/arte/9941-milan-grygar-sound-on-paper



17 mag19 lug 2014 presso Galleria P420, Bologna

Alla nota del fiume si accordò un altro suono. L’uomo con un bastoncino, batteva sul fango secco. Quel rumore ritmico, il pulsare di un cuore, richiamò qualcuno. (Stefano Benni)
Proprio un bastoncino sta all’origine della ricerca artistica tra immagine e suono dell’artista slovacco Milan Grygar. Un bastoncino limen che si fa confine leggero e opaco tra il vedere e l’ascoltare, miccia di un'unione esplosiva tra anime separate ingiustamente.
Era il 1964 e l’artista racconta che mentre stava disegnando, usando uno strumento insolito come un bastoncino intinto nell’inchiostro, si accorse che nel silenzio dello studio il picchiettio e lo sfregamento del legno sulla carta creavano un ritmo elaborato. I passi di danza di quel bastoncini accesero la miccia. L’artista poi registrò intenzionalmente su nastro quei suoni e gli sembrarono interessanti tanto quanto il disegno che avevano generato.
L’arte occidentale ha sempre tenuto separati la vista e l’udito, la poetica di Grygar invece vede l’indissolubile legame sensuale tra essi. La galleria bolognese P420 presenta la mostra personale dell’artista slovacco, e all’interno di essa si possono ammirare gli Acustic Drawings, i Sound Plastic DrawingsLinear Score, gli acquarelli e un paio di video che mostrano l’artista al lavoro.
Proprio da uno di questi video sono rimasta colpita: l’artista stava inserendo bastoncini accesi e bruciati nel becco di uccellini-giocattolo che meccanicamente si alzavano e si abbassavano come quando becchettano. Gli uccellini-giocattolo si spargevano dunque a caso sul foglio lasciando tracce nere di quei bastoncini. Un fare-gioco dunque quello di Grygar che richiama la distinzione kantiana tra Poiesis e Prattein, entrambi termini del greco antico indicante un fare.
La Poiesis però si distingue per il suo alludere a un fare fine a se stesso, un fare non finalizzato, perché il fare e il divenire sono dimensioni e condizioni dell’esistere nel mondo e del mondo. Poiesis che è il fare-poetare del gioco. Un’arte che accade dunque e che contiene la propria linfa vitale nel movimento e nell’azione. Gli Acustic Drawings sono quindi un letto disfatto dopo aver fatto l’amore, sono segni di gesti concreti, di un agire sul foglio, la componente performativa è densa e fortemente percepibile e non bandita allo spazio privato dello studio, perché questi disegni sono atti performativi eseguiti in tempo reale davanti al pubblico.
Grygar, illusionista, mago, musicista e coreografo dei suoi giocattolini a molla inchiostrati, strumenti da disegno insoliti che estraeva da un cappello a cilindro, spettacolarità ludica e caso controllato sono le vallette più sexy di quello spettacolo di magia. Suono e visione, intenzione e caso, azione e traccia, anime complementari pronte e mischiarsi nella poetica dell’artista slovacco. Ma se gli Acoustic Drawings manifestavano visivamente un suono già trascorso e vissuto, a partire dagli anni 1987-68 l’artista esplora una via opposta, inizia così a comporre immagini come partiture dalle quali si potranno produrre composizioni sonore. Ed ecco che in mostra si possono ammirare iSound-Plastic Drawings e Linear Score, lavori a china su carta, composizioni di linee parallele diritte e curve, disegnate così meccanicamente da sembrare stampe digitali o lavori grafici fatti al computer. A prima vista nessuno sospetterebbe di una manualità così precisa e zen, ma ecco che avvicinandosi si notano discrepanze, le linee cambiano colore, dal rosso al nero, di orientamento e posizione rispetto alla griglia prefissata. Leggere e sordide variazioni, virate impercettibili.
Grygar affida ai musicisti la traduzione delle linee nello spazio cartaceo in suoni nel tempo. La linea come durata corona l’artista eleggendolo a sismografo sensibile di tempo, un tempo che si può vedere e ascoltare, un tempo che diventa suono su carta. Come sottolinea il curatore Simone Menegoi, “La linea – ha affermato l’artista a proposito di una serie successiva e affine a quella deiLinear scores – è un’impronta di energia, un orientamento nello spazio, sulla superficie e anche nel tempo. E’ una durata.”
Le austere criptiche e astratte composizioni geometriche che l’artista partorisce come partiture sono quindi testamenti di un rigore formale assoluto, una linea che è sforzo di precisione che richiede tempo, spazio e metodo. Una linea che si fa cerchio interrotto, o linea diagonale ma scaglionata e quadrettata, che si tinge di rosso o decide di perdersi nel nero. Solo concependo i Sound Plastic Drawings come lavori compiuti dall’artista a mano con la china, si può comprendere l’importanza e il valore simbolico che Grygar dà alla durata, e così al concetto di tempo che è proprio della dimensione sonora. Mi sembra di immaginarlo lì su quella distesa pallida della superficie cartacea, concentrato in ascolto, sempre, di quel silenzio che accade, dando forma al tempo. Linea dopo linea, traccia dopo traccia, per un’archeologia visiva quasi folle e autonoma.
Occorre quindi a nostra volta sostare più di qualche minuto davanti alle composizioni plastiche e sonore dell’artista, per far naufragare la visione in quel campo di battaglia di linee dove tutto è sospeso nella forma dell’eternità. Sono infine esposti in mostra una serie di acquarelli senza titolo piuttosto colorati, dalla pennellata circolare o tozza, breve, intensa larga e ripetuta, ma sempre diversa come un suono. Acquarelli su carta che ribadiscono come il disegno attraverso il gesto e il movimento si unisca e ricolleghi alla dimensione temporale e quindi a quella sonora.
La Langer sosteneva che il suono fosse un simbolo insaturo e che per essere significante e non mero significante vuoto necessiti di un ascolto sensibile; è quindi l’ascoltatore a conferirgli esistenza, quella stessa esistenza minacciata dall’altra caratteristica, quella della fugacità che evoca un vissuto depressivo di caducità. La fragilità del suono quindi può trovare la propria esistenza nel tempo grazie alle tracce che l’hanno generato o alle partiture che lo genereranno: è forse mediante la visione che il suono può diventare vivo nel silenzio di una carta? Guardate per ascoltare, ascoltate per vedere.
Sono arrivato alla conclusione che ciò che prevale nel mondo è la correlazione: il suono è connesso alla visione, e la visione non può esistere senza suono. Tutto ciò che un essere umano fa è connesso: i fenomeni visivi e acustici sono complementari.
(Milan Grygar)
Galleria P420
Piazza dei Martiri 5/2
Bologna 40121 Italia
Tel: 051 4847957
info@.p420.it
www.p420.it
Orari di apertura
Da Mercoledi a Venerdì ore 15.00 - 19.30
Sabato ore 9.30 - 13.30 e 15.00 - 19.30
Altri giorni solo su appuntamento










giovedì 5 giugno 2014

Elogio della primavera


Link:

http://wsimag.com/it/arte/9387-elogio-della-primavera

Enjoy!

:)





Da ormai cinquecentotrentadue anni è primavera. E ancora da prima, e così sarà all’infinito di questi battiti. La prima vera primavera, quella che Botticelli creò dal suo estro, un quadro che profuma nella memoria di tanti.
Ricordo ancora di come la prima volta trovatami agli Uffizi me lo ritrovai davanti, un inno alla grande bellezza, la bellezza sinuosa delle forme delle velature, quei frutti e quelle foglie potevi sentirli profumare, anche a distanza di secoli, ritornavano in auge attraverso tutti gli sguardi che vi si erano posati. La venere casta, al centro della figurazione, con un panneggio vellutato come la pelle odorosa di un'albicocca accesa, inclina il suo volto con grazia estrema, quella stessa grazia che trova le onde trasparenti che lente scivolano sulle carni avorio delle tre grazie, che burrosamente formano un cerchio, una ciclicità che inneggia alla vita, alla resurrezione, al dolce svegliarsi che è materia prima della primavera.
E le dita delle mani sollevate e intrecciate tra loro, un intreccio di seduzione che evoca una caduta di champagne in una coppa di cristallo, la trasparenza e la preziosità sono colori e valori che fanno eco. Ma i personaggi che da sempre hanno esercitato un potente fascino su di me sono sicuramente l’intrepido e volante Zefiro, Clori e Flora. L’azzurro bronzeo di Zefiro alimenta le ombre e l’espressione soffiata e decisa che trova compimento nelle braccia cinte sui fianchi di Clori, Zefiro evade leggero sospinto senza luogo, come una tempesta in agitazione, i panneggi che lo avvolgono coraggiosi curvano tormentosi, creando onde di sublime passione zelante. Flora, la vera protagonista del quadro, è cosparsa di fiori dalla punta dei capelli biondi fino alla punta dei piedi scalzi che tentano timidi e quasi incerti di sollevarsi. In tutto il quadro si tratta di una continua elevazione, chi alza la spada al cielo, chi vola al di sopra delle teste promettendo amore, o chi unisce sobriamente le mani al cielo, chi alza una mano in segno di un’approvazione sacra, che sta per essere catturata dal vento.
Non siamo che elastici di congiunzione tra blu e marrone, cielo e terra, profilo e altro profilo. Come non si può rimanere che smarriti in questo non luogo danzante e bloccato in un bocciolo, come non si può ritrovare il coraggio della rinascita e del rinnovo che ogni piccolo fiore fa in primavera? L’armonia di un fiore, il suo lento sbocciare, è un aprirsi al mondo, un accogliere in sé l’aria dell’universo, il tempo e gli umori di un epoca. Come si può non pensare a Flora come a ognuno di noi? Un tutt’uno con la madre terra, un respiro intenso e vitale, uno sbocciare perpetuo che porta con sé la gestazione della creazione.
Una natura che porta con sé il cambiamento, la vita, la deriva, la caducità, la rarità, la forma e il colore. Botticelli tramite quei panneggi e quelle trasparenze ci riporta a una sofficità di visione eterea, inebriante di semplice leggerezza, ma una semplicità complessa che non si risolve, che non dischiude il suo ultimo petalo, che non si fa subito raccogliere, ma che si fa enigma vibrante.

Camminavo a piedi nuda, scalza, nell’archeologia della memoria, mi immaginavo tra resti di templi antichi, in un passato che è storia collettiva, che rimane ancorato come una traccia di rossetto su una sigaretta o su un bicchiere di vino bianco, l’odore è leggero, ma umido e vicino. Tra le sedimentazioni dell’esistere si cela un calco in gesso, è un volto appartenente alla statuaria classica, reciso da un corpo di muscoli fantasma, che giace supino e bendato. Si lascia accarezzare da un panneggio di stoffa reduce da un’esplosione vorace di vari colori. Che un qualche tessuto tardo quattrocentesco sia volato attraverso i giorni e sia giunto per fare da supporto non invadente al misterioso calco?
Il volto è interamente coperto di pigmento giallo di cadmio, puro, talmente puro, proprio come le forme sinuose delle tre grazie botticelliane. E accanto al volto bendato e al panneggio ecco spuntare una farfalla. Le nervature delle ali fanno vibrare e risuonare all’infinito un sussulto cosmico, un battito del cuore, il nascere di una lacrima, la contrazione di un sorriso, la finitezza della bellezza umana. Struggente lirismo, e poesia che si fa scavo, reperto, stratificazione sensoriale. Scorza di limone e latte.
E’ un'eco sordida di arpa. Le corde tese producono note, che non si possono vedere ma solo sentire, perché anche noi siamo bendati, e siamo liberi dal tempo del qui e ora. Il tempo diventa un flusso continuo, un pigmento informe, troppo accecante e azzerante per essere colto. Un tempo che abbaglia perché lega passato e futuro. L’opera Senza Titolo del 1970 di Claudio Parmiggiani, è un monumento alla memoria scalza e folle, libera di rotolarsi in un campo di grano dorato, talmente bella da non poter essere. Parmiggiani abbina in un trittico visivo una composizione dalla grazia ridondante, dall’eleganza, dalla sottigliezza e dalla fragilità uniche. La farfalla si posa sull’instabilità della vita stessa e viaggia attraverso la polvere dei secoli per riportarci a una classicità perduta ma che vede nella polvere un risveglio cromatico denso e intenso, suggestivo, e delicato. Un giallo che si fa deittico ed eclissi di tempo.
E’ il risveglio della prima vera primavera, i ricordi riempono i polmoni di polline e tutto rinasce, sboccia e cresce con la consapevolezza che tutto è in divenire per poi finire, per essere poi rispolverato dell’esistenza stessa. L’opera di Parmiggiani è ritrovo e riscoperta continua del tempo che è. E la farfalla elude all’ascesa, al movimento, allo slancio in punta di piedi come nella foto di Robert Mapplethorpe. Una composizione silenziosa, in bianco e nero, anche qui, si grida sottovoce per non crepare il vetro sottile dello sguardo.
Uniche protagoniste due gambe maschili, erette, tese, concentrate, collinari e muscolose, diventano paesaggi in verticale, distese di vegetazioni di un uomo che danza tra ombre e luce che vibrano e si stagliano tre la curve, di un sedere scultoreo, c’è il senso della proporzione classica, c’è la seduzione della trasparenza, data dalla scelta di fotografare solo una parte di corpo. Vediamo e non vediamo, siamo bendati, lo sguardo è velato, non c’è totalità, ma solo una parte per il tutto. E una parte forse può bastare per riempire il cuore di elan vital. Le punte dalla natura muliebre calzano i piedi dell’uomo con devozione e passione stringendo a sé la pelle, un’umiltà che si fa sforzo, esercizio e sospensione, e bellezza, grande bellezza... una bellezza che sorregge, che innalza, che slancia e che unisce.
Sulla sinistra, timido compare un panneggio latteo, quei panneggi che hanno accompagnato questo breve percorso tra il vento, da Botticelli fino a Mapplethorpe per passare da Parmiggiani, punti di luce, filtri di reminiscenza. Tre opere che ci raccontano accogliendoci sulle loro ginocchia, l’elogio della rinascita, della sensualità, del ritmo, della fragilità, della bellezza, per perdersi scalzi in punta di piedi tra i pigmenti della memoria, nudi e liberi, bendati e folli. In ascesa. Leggermente.
Federica Fiumelli







KayOne - Feel Alive -


dal 17 Maggio al 21 Giugno 2014

http://www.spaziosangiorgio.it/mostre/item/feelalive-kayone.html

“L’uomo ama talmente l’uomo che, quando fugge la città, è ancora per cercare la folla, cioè per rifare la città in campagna.”
(Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, 1859-66)
Urbanesimo, associazionismo, cultura, comunità, megalopoli, caos, ma anche interstizi, margini, confini, periferia.
La materia viva della vita, quella calpestabile e democraticamente fruibile, è quella della quale da sempre si è occupata la Street Art.
Una bomboletta in mano e una valigetta stracolma di una potenza di visione esplosiva nell’altra, KayOne, uno degli Street Artist italiani più famosi riesce anche su supporti come la tela a trasporre tutta la forza del caos stradale.
Con un quarto di secolo di esperienza nel writing, osservando i numerosi sketch di preparazione che hanno trovato poi realizzazione su vari muri, si capisce subito la grande passione, la costanza, la ricerca sulla lettera e sulle illustrazioni classiche di ispirazione alla cultura Hip Hop.

Schizzi, abbozzi, “con la testa rivolta al futuro e gli occhi rivolti al passato” come de Chirico metafisicamente sosteneva, KayOne si confronta con il linguaggio delle avanguardie, cattura elementi innovativi, li prende, li sequestra e li riversa silenziosamente, ma con il botto, in strada, in quel teatro urbano e a cielo aperto che tutti ma proprio tutti hanno la possibilità di guardarlo e di farlo, noi spett-attori della strada, di questo funambolico spazio che è allo stesso tempo dentro e fuori.
“Era un po' curioso pensare che il cielo era lo stesso per tutti, in Eurasia, in Estasia, e anche lì. E la gente sotto il cielo, anche, era sempre la stessa gente... dovunque, in tutto il mondo, centinaia o migliaia di milioni di individui, tutti uguali, ignari dell'esistenza di altri individui, tenuti separati da mura di odio e di bugie, eppure quasi gli stessi...”
(dal libro "1984" di George Orwell)

Mura che forse solo la devastante portata energetica del colore, di un’idea o di una parola potrebbero abbattere.
La Street ha sempre portato con sé una riflessione, una differente visione oltre la differenza stessa, oltre il confine, oltre le mura..
“Transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti istantanei, per attimi di incontro, di cambio, di contaminazione..” le parole importanti che una studiosa, amante della street come Francesca Alinovi, una donna che ha saputo cogliere l’importanza di questa modalità espressiva proprio sullo scoppio, sul nascere del movimento underground newyorkese che avrebbe lasciato nella scia nomi stellari del calibro di Haring Basquiat, Scharf e tanti altri..
Parole che sottolineano l’importanza dell’ibridazioni tra generi, ponendo l’accento sull’incontro-scontro di idee, di scelte espressive differenti, con la voglia e la coscienza di sperimentare, provare ed esperire la vita stessa, perché l’utopia novecentista non era solo un sogno, e l’arte si amalgama alla vita, e la vita all’arte stessa..e quale luogo meglio della strada, tra sudori, odori, rumori…in quel gran tutto simultaneo che veniva decantato nel teatro nunique di Birot, non casualmente amico di Apollinaire. Surrealismi che donano alla parola stessa una valenza grafica e plastica, e questo i graffitisti lo sanno bene.

“La vita più intensa della forma, la strada più forte dell’accademia”.
L’arte di KayOne è un odore forte che si insinua nel laconico precipizio di uno sguardo, un grande occhio, o piccolo, non importa, nelle tele l’artista lo inserisce, lo nasconde tra le composizioni astratte, tra le botte di colore e gli schizzi total white quasi purificanti da eraser cromofobo anche solo per un istante, un istante di vita intensa, il limite di uno sforzo, la virata di un gesto, una potenza espressiva declinata e che ricorda gli echi dell’espressionismo astratto americano di Pollock o del new dada colante e aggettante di Rauschemberg.
KayOne guarda ai padri e li rimixa, per una gran tutto caotico, assordante, ma a intermittenze rigorose e geometriche, pensate, lunghe, perché l’arte delwriting richiede tempo e precisione e l’artista ne ha la coscienza.

Gli occhi che KayOne ci nasconde tra le gettate cromatiche, ricordano i grandi sguardi che anche un altro street artist famoso come JR ha utilizzato per i suoi lavori in strada, occhi di matrice orwelliana, precursore del Grande Fratello, sguardi che ci controllano, guardiamo ma veniamo guardati, sempre, continuamente, costantemente.
Occhio come elemento rappresentativo di una visione espansa, occhio saccheggiato fin dai collage dada-surrealisti.
“L’arte di avanguardia non solo non è morta, ma vive spiando con grandi occhi spalancati sul centro della periferia..” affermava brillantemente l’Alinovi.
Occhi spalancanti, famelici, sul centro della periferia, ai margini, tra dentro e fuori.

KayOne nomina e battezza le proprie visioni trasbordanti, Modulazione rossa, Acquario, Sirio, Reattore Quattro, Natura Minacciata, L’origine della Rete, Ciclone Mediatico, Dominazione, Metallo Pesante, CMB, Frontiere Violate.
Titoli che già di per sé sono esplicativi di una volontà di rappresentare la realtà tangibile di noi tutti, quella dei nuovi media, della rete, di un gigante ipertesto nel quale navighiamo anche inconsciamente, perché ormai siamo investiti da un inquinamento semiotico anestetizzante.

E allora diventa impossibile rimanere impassibili davanti a quel tutto assordante di KayOne, lo sguardo viene disturbato ma nell’accezione piacevole, viene sollecitato, in quella centrifuga accesa, dove la bomboletta spray bianca si mischia all’acrilico contro ogni divisione di genere, generando punti di luce focus, vividi e accecanti, vitali come il latte più celebrato nelle pellicole di Kubrickiana memoria, dove anche lì un singolo occhio truccato diventava frontiera violata..
Ma la confusione ritrova anche momenti di logica apparentemente perduta, KayOne usa il lettering alla maniera cubista di Braque, tenendo legati due lembi di un lenzuolo eunuco, figurativo e non figurativo, un astratto distratto?
Forse. Ma noi siamo dentro ad una guerra di cromie pop, quello stesso pop di cui la street spesso si nutre.

Il calibro e lo sparo visivo di KayOne non va mai ingoiato tutto insieme, va sorseggiato a dosi, e solamente così ci si può rendere conto di un attento bilanciamento, di un soppesarsi equilibrato di differenti cariche espressive, tra l’esplosione e l’implosione.
E la città chiama, il legame al sesso, non maschile, non femminile, ma urbano è sempre presente, si fa materia, l’artista infatti ottiene il nero dal bitume e il bianco dalla vernice per le strisce pedonali, ne sentiamo quasi l’odore dell’asfalto, ne percepiamo l’essenza, lo sentiamo sotto le palpebre e sulle ciglia come un mascara, come una stratificazione di memoria visiva che diventa quasi sensuale, e scivoliamo così…across the universe.
Federica Fiumelli  | Spazio San Giorgio







One of my last articles on Wall Street International Magazine

Enjoy!
:)

Link:  http://wsimag.com/it/arte/9068-mp5

MP5

So deep, so dark...


MP5 Street Art
All around me are familiar faces
Worn out places, worn out faces
Bright and early for their daily races
Going nowhere, going nowhere
Their tears are filling up their glasses
No expression, no expression
Hide my head I want to drown my sorrow
No tomorrow, no tomorrow
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I’m dying
Are the best I’ve ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It’s a very, very mad world mad world

(Gary Jules, Mad World)
La sagoma di una donna bianca, con un buco al posto del cuore. E da questo foro sgorga in un flusso inarrestabile, dell’acqua, la stessa acqua nella quale la donna è immersa. No expression, no expression... gli occhi anch’essi fessure so dark, so deep, non sono che ombre, come il naso, i capelli e la camicia dalla quale la protagonista sembra spogliarsi per farci vedere.
Ma per farci osservare cosa? Questo sparo, ferita che è diventato vuoto e accesso di un flusso quasi inquinante. Come non pensare allora alla spersonalizzazione e all’inquinamento semiotico che oggi ci troviamo a subire? Come non ricordare i discorsi di Paolo Rosa nell’"Arte fuori di sé?". Quando l’artista fondatore di Studio Azzurro voleva farci intuire che il pericolo dell’anestesia dilagante è tra noi, e la paura di non riuscire più a sentire niente non è pura retorica.
MP5 street artist italiana, ma non solo, anche illustratrice e scenografa, animatrice e fumettista, ci ha regalato in occasione dell’edizione del Cheap Festival 2013 una sopraffina riflessione sulla società della quale portiamo le mutande, attraverso una serie di poster che avevano come soggetti uomini e donne alienate nel flusso di segni, segnali, informazioni, oggetti, stimoli, idee dei quali quotidianamente siamo sommersi.
Un’eccedere che porta a uno svuotamento. Un sentire che è congelato e sfondato. Con studi di scenografia per il Teatro all’Accademia di Bologna e animazione stop-motion alla Wimbledon School of Art di Londra, MP5 nel 2003 inizia a sperimentare la propria creatività attraverso la Public art, si concentrerà sulla street che la vedrà e la vede tutt’ora protagonista sul territorio europeo. Francia, Svizzera, Italia, Spagna, Germania, Crozia, MP5 lascia sui muri di questi luoghi tracce del suo immaginario calibrato da una cromia à plat, che si staglia tra il bianco e il nero in maniera prevalente. Il suo immaginario bidimensionale attinge dal mondo dell’illustrazione e del fumetto e i suoi personaggi sembrano tanti Donnie Darko alienati.
MP5 narra su grandi dimensioni, e fa del nero un prezioso amante che raramente può bandire all’angolo. Il nero è l’unico despota di questo multi verso. Un elogio al nero. Un nero liquerizia, notte, inchiostro, pece, grafite, petrolio. Un nero senza peso, ombra che delimita e contorna precisamente confini e corpi, volti o animali. Un nero che dà forma al suo opposto, a un bianco, stirato, teso, lavato, accecante, da cancellazione imminente. *The dark side of the moon... *attraverso un'inquietudine costante MP5 ci racconta storie, racconta a noi di noi.
Every year is getting shorter,
never seem to find the time
Plans that either come to naught
Or half a page of scribbled lines
Hanging on in quiet desperation is the English way
The time is gone the song is over,
Thought I'd something more to say…
Scene perturbanti, quasi angoscianti, apocalittiche, paurosamente noir. Scene epiche e ancestrali per il muro in Svizzera, "Minotaur or the red string of fate". Una chiaroveggenza bestiale vede il fato di un rosso vivido, che spacca, o macchia l’equilibrio di bianco e nero, diventando neo carico di sguardo. Un rosso fuoco che si traduce in “Full of fire” a Siviglia, dove un “Donnie” anonimo e spersonalizzato, sagomato, incendia tutto, e allora sì che le fiamme bianche assumono concretamente l’azione cancellante. Il nulla si manifesta anarchico e prende forma tramite l’apatia di un qualsiasi ragazzo con istinti piromani.
I fantocci si assoldano a bulloni, la meccanica sovrasta l’umano come in echi chapliniani l’uomo dei tempi moderni perdeva il ritmo biologico per assumere quasi come un contagio le leggi della produzione meccanica. Così dipinge MP5 in Croazia, sempre attenta all’uomo, all’ambiente e ai reciproci influssi che uno ha sull’altro. Nei buchi dell’esistenza ci sono anche quelli provocati da una pioggia nera e malsana, troppo minacciosa e incisiva per non potere farci i conti. Un’alluvione di colpe, una pioggia acida che si abbatte sui suoi fautori, disperati. Cosa ne è delle risorse in questo…mad mad world?
MP5 dipinge tubi, condotti, ma anche prese elettriche che si snodano come nervi scoperti su sfondi ecologici e troppo green come a l’Aquila. Contrasto e racconto, critica. Personaggi che si snodano nella solitudine del loro grottesco disagio, elevati a grandi icone postmoderne, ormai consce di una perdita di centro, di una confusione palpitante e di una difficoltà dell’esistenza e della definizione di genere che si annienta in fantocci esanimi e stereotipati. Vengono le vertigini a fissare lo sguardo interstiziale di questi popoli erranti (o errati?), precipizi bui, so deep, so dark. Pupi di un teatro di strada a cielo aperto che trovano l’elan vital in quel nero tra il fantastico e l’austero, going nowhere, going nowhere…
Federica Fiumelli














martedì 15 aprile 2014

Chiharu Shiota Silenzio e impossibilità


My Last article on Wall Street International Magazine

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/chiharu-shiota_20140412102706.html#.U02JwVV_s_c

Enjoy!


REPORT - Japan, Arte

Chiharu Shiota

Silenzio e impossibilità



Gli anni della storia sembrano lunghi e lontani, ma in realtà non sono che un soffio, e gli avvenimenti apparentemente dispersi in quella dimensione della storia che è il tempo sono in realtà vicini e collegati da quel misterioso robustissimo filo che è la memoria degli uomini.
Andrea Rossi, In nome del petrolio, 1986.

La prima volta che incontrai l’opera di Shiota fu alla Strozzina di Firenze in occasione della mostraFrancis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea. L’installazione pensata dall’artista giapponese classe ’72 si chiama In Between ed è secondo me, un titolo esplicativo, un titolo che contiene appieno l’essenza della poetica di Shiota. Nei lavori dell’artista è proprio “fra”, “nel mezzo” delle cose, degli oggetti ripetuti e riproposti più volte, che ci sentiamo spaesati e attirati nei mondi di memoria collettiva.

Percorsi perturbanti e quasi claustrofobici, fitti reticolati di fili neri avvolgono e si dipanano nell’ambiente, tessendo ampi circuiti, e dentro queste reti ecco che possiamo trovare porte, fogli, lettere o valigie. Trace of memoryLetters of the thanksOther side, tutto titoli che riportano in un altrove passato, quasi dimenticato, polveroso. Con le opere di Shiota ci si trova a diretto contatto con archeologie di memoria, archivi di oggetti appartenuti a chi sa quale ambiente, a chissà quale storia o persona.

Il nero travolgente, notturno, silenzioso, teso, dei fili che legano ricordi, è rigido ma leggero, riporta esattamente a un grafismo ipnotico e sofisticato di origine orientale. Quei fili neri sono tutte le parole disciolte nell’inchiostro che si fanno confini e tratti, lunghezze e ponti, una rete web che diventa fisica, interconnettendo accessi e oggetti-luogo che diventano mondi abitabili e inquietanti. Gli oggetti luogo, non sono che link abitabili dallo sguardo.

In Other side diverse porte, o di un bianco azzerante, o consumate e logore si presentano in successione, quasi interrogandoci, mettendoci di fronte ad una scelta; se tu voyeur disperso ti troverai davanti a uno di questi varchi avrai il coraggio di tirare la maniglia e spingerti al di là? Avrai il coraggio di tuffarti in un ginepraio infinito di trame, di legami di relazioni, di incontri? Avrai il coraggio di mischiarti nell’impatto con il disordine? Di entrare nel sottobosco dell’anima delle cose? Cosa non sono queste fitte trame nere di fili se non la vita stessa, se non la difficoltà e l’intreccio che ci mantiene collegati tra il mondo e la memoria?

Nell’arte di Shiota viene resa plastica una concezione fenomenologica di matrice, husserliana, la relazione e l’esperienza con e del mondo è messa al centro della riflessione artistica. Over the continent, presentata al National Art Center di Tokyo nel 2013, vede partire da un piccolo e microscopico punto una quantità fluttuante e pulviscolare di fili rossi che si dipanano nello spazio, ciascuno legato, o meglio ancorato a una moltitudine di scarpe di donne, uomini e bambini. Oltre i percorsi, i continenti, i confini geografici, questi astronauti, o esploratori distratti, sono i nostri antenati, sono tutti o nessuno, siamo noi, o saranno altri, cono essenze assenti ma presenti nello spazio della memoria, sono percorsi stati o da compiere. Sono passi in più, nell’avanti della speranza, una tensione, una spinta verso l’oltre, ma legati a un rosso del tempo battuto e trascorso, di un tempo accaduto e tinto con il tono del sorgere più acceso.

Over the continents però appare anche come un monumento funebre, una catalogazione di vittime, un’enumerazione macabra; vittime di violenza, solitudine, abbandono, guerra? La morte giace nel ricordo teso del filo rosso. After the dream mantiene un tono inquietante e onirico, surreale e fantasmagorico, lunghe vesti pallide diafane ed evanescenti fluttuano nello spazio di labirintiche diramazioni filose. Smaterializzate e terribilmente vuote, tunnel di lattea memoria. Appartenute e abitate da chissà quale corpo, anziano o giovane, chissà quale pelle ci scivolò all’interno e perché, e dove…

Silenzio e impossibilità, in un concerto solistico, immobile e danzante nel tempo, In silence, il pianoforte e la sedia sono prigionieri, sono ostaggi di un suono in decadenza; atonale e disperato, il flusso materico dei fili è un pentagramma infranto, (note spezzate e disperate, deserte, filacciose) nel quale la luce non può che filtrare ostacolata. Gli oggetti di Shiota ci lanciano un appello nello spazio dello sguardo, chiedono quasi di essere raggiunti per essere salvati, per non essere dimenticati si circondano di neri nostalgici e puri, asettici, simmetrici e stratificati. Sono oggetti stratificati dal passaggio di sguardi e ricordi, caricati all’ennesima potenza di un isolamento forzato, sono rinchiusi nella loro presentazione come scrigni trasparenti. Questi fili infiniti danno quasi fastidio, bloccano il respiro, ostacolano lo sguardo, intrappolano e sembrano risucchiarti, sembrano espandersi come virus contagiosi.

Shiota accumula e ripete, a volte distrugge bruciando come in Waiting del 2002, un agglomerato di sedie a cui dà fuoco, ma dà fuoco anche a pianoforti, ed ecco che tra le accumulazioni e le distruzioni si annida intrepido il ricordo di Arman, e ci viene riproposto un nouveau réalisme tessuto ossessivamente. Un'eco. Il tratto dei fili infinitamente neri di Shiota si scagliano nello spazio in maniera divisionista rendendo vibrante e infinitesimale l’atmosfera, sporcandola quasi. Cosa starà guardando quella donna dalla schiena neve e nuda, spoglia e isolata dalla finestra? La chioma scura muliebre prende vita in un fitto reticolato che si espande e srotola nell’ambiente. Una femminilità ragno che dà le spalle e proietta la visione nell’asettico altrove riscritto da quei tratti di inchiostro filamentoso.

Gli ambienti di Shiota possono diventare anche scenografie abitabili, dove i corpi rimangono appesi e sospesi atarassicamente, come Matsukaze il lavoro per il Théâtre Royal de la Monnaie, a Berlino. Epifanie mistiche e corporee. Cercando una destinazione, collettivamente, con le più disparate valigie con dentro ogni sorta di ricordo, di souvenir (come nell’opera Accumulation-Searching for the destination), l’esperienza della memoria si fa concreta, e siamo pronti per partire nella moltitudine di visioni, che si fanno salto nel vuoto, da cornici-finestre (come nell’opera A room of memory) in cui quello che è stato e quello che sarà si confondono.


Articolo di:  Federica Fiumelli














Il Tè dei Matti @SpazioSanGiorgio, Bologna

Lorenzo Guaia artist
dal 22 Marzo al 30 Aprile 2014



“Ogni tazza di tè rappresenta un viaggio immaginario”
Catherine Douzel
Tè nero, verde, bianco, giallo. La bevanda che porta dietro l’aroma dell’antichità si racconta già di per sé attraverso i colori.
Colori che sanno di follia, riflessione e incontro come anche Carroll descrisse nel tè dei matti tra il Cappellaio e Alice.
Legata a civiltà orientali questa pianta magica ha ispirato il lavoro dell’artista Lorenzo Guaia che ne fa ossessione materica e grafica.
L’artista unisce la fisicità consumata della bustina da tè alla sua rappresentazione simbolica.
I lavori di Guaia consistono in tavole di legno pressoché quadrate, rivestite con decine di bustine di tè, raggrinzite, stropicciate dal tempo, dall’ocra al sabbiato all’argilla, dal marrone chiaro allo scuro fino ad un rosé sfumato, i colori formano un tappeto surreale e tattile, come un sottobosco fatato.
Ogni filtro rappresenta un preciso momento di vita, di giornate timide o memorabili, attimi di vita quotidiana. Opere che diventano così ritratti e autoritratti aromatizzati del tempo, che profumano di istanti vicini o lontani.
L’artista elegge i filtri a cellule di vita bevuta, o a pixel quadrati e medievali come frati cappuccini avvolti nel loro saio, le opere diventano così mosaici di visioni al tè.
Il profumo degli infusi, imprigionato per sempre nelle bustine, apre immagini e sensazioni trasportando gli occhi, la mente e i ricordi in spazi speziati e lontani. La bustina diventa così attrice della scena pronta a spostarsi, stringersi, piegarsi appena per lasciarsi delicatamente dipingere.
Le tazze di tè, protagoniste indiscusse dei lavori di Guaia, sono bidimensionali, iconiche, stilizzate e simboliche, dal sapore pop ma senza alcuna prepotenza espressiva. Il supporto rende il soggetto soft ed elegante, non invasivo, estremamente educato.
“La filosofia del tè è igiene perché richiede la più rigorosa pulizia; è economia perché dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nel complicato e pretenzioso; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto tra i nostri sentimenti e l’universo.” 
Così scriveva Okakura Kazuko, nel “Libro del tè” nel 1906. E ancora:
“Il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè e neppure la leziosa innocenza del cacao.”
Le grandi e robuste linee di contorno rosse o nere delineano prepotentemente la tazza custode di tè bollenti o raffreddati, in attesa di essere sorseggiati da labbra sognanti, sospese in chissà quale luogo, sembrano fluttuare sulla loro stessa materia, il bianco della porcellana prende così vita tra le rughe, cime e angoli dei filtri. Probabilmente Tien Yiheng aveva ragione nell’affermare che “Il tè si beve per dimenticare il frastuono del mondo.”
Filtri vintage di una memoria collettiva e singolare.
E ancora tazze capovolte e antigravitazionali volteggiano, tazze ribaltate o quasi speculari, un teatrino di composizione silenzioso e immobile nella rigidità del tempo.
Linee di confine si adagiano sul corpo sinuoso delle bustine tracciando confini metafisici e immaginati davanti al fumo bollente e nebbioso di un tè.
Ma ecco che talvolta su quel confine alla deriva, dalla terrosità dei filtri nasce con grafismo vagamente orientale e leggero, un lucido e nero albero, foglioso ed etereo, evanescente e decorativo, sospeso come i sogni nel profumo di un tè.
Il viaggio di Guaia è delicato, in punta di piedi, tra aromi funambolici e sospesi, quasi con il timore e la paura come Sydney Smith scriveva: “Che la creazione possa finire prima dell’ora del tè.”
Federica Fiumelli