Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 27 settembre 2016

Helene Appel. Washing Up @P420





La vita silenziosa degli oggetti cede il passo alla descrizione minuziosa piuttosto che alla narrazione, per concedersi il lusso dello sforzo, della pazienza e del silenzio, propri di una rigorosa contemplazione dell’inafferrabilità del reale.


La pittura della giovane artista tedesca Helene Appel si appresta come una preghiera laica all’occhio di colui che osserva. Ci si trova come d’inganno, sedotti dalle tele granulose volte a celebrare singolarmente oggetti apparentemente banali, d’indubbio fascino, oggetti quasi borderline, non meritevoli di una superficie-palcoscenico che diviene teatro di un’epifania mondana.

Le nature morte della Appel sono ogni volta studiate, vivisezionate, descritte con una lucidità formale tipica di un freddo iperrealismo; quando il reale diviene più reale dello stesso, accade che il velo di Maya, di memoria Schopenauriana ritorna alla menti, offrendosi e disvelandosi all’occorrenza per interrogarsi e scivolare criticamente tra quei piani che da sempre la pittura dicotomicamente relaziona, ovvero l’essere realtà e l’illusione. Queste, nei lavori dell’artista, compenetrano alternando stati di trasparenza a quelli di fitta densità. Gli oggetti eletti, solo per citarne alcuni: reti da pesca, stracci, farine, acqua di mare, lavelli di cucina, pasta, fette di carne o di pane. Dal generale al particolare, dai luoghi ai dettagli compositivi. Il processo pittorico è metafora di uno sguardo al microscopio della quotidianità più derisa dall’attenzione. Elementi poveri che pongono questioni di una sostanza diametralmente opposta, questioni riccamente complesse si ergono nei confronti del medium pittorico e della superficie stessa. Nel caso di Plastic Lid, noi possiamo vedere oltre, attraverso la trasparenza del soggetto, un coperchio di plastica, ma in realtà il corpo a corpo con l’altro elemento, la tela, si presenta enigmatico e perturbante. La sensazione di vedere e scoprire la superficie è meramente illusoria. Il s’(oggetto) non esiste e tutto è superficie.

In corpi trasparenti come i coperchi, la schiuma delle onde, la rete da pesca, o l’acqua, l’artista gioca con l’elemento dell’ambiguità, disvelando e creando continuamente allusioni e illusioni sul teatro del s-oggetto eletto. 
I protagonisti delle pitture sono a tutti gli effetti corpi, visti da una prospettiva aerea, dall’alto, offertici allo sguardo con pulviscolare autenticità. Le reti da pesca, sinuose ingannano lo spazio, come fili pervasi da un elettrica sensualità amorfa, possiedono la superficie pittorica scivolando sulla tela e lavandola da orpelli inutili. La pittura della Appel non è una pittura dello spreco, il suo è un gesto di conservazione, un gesto fedele a un unico elemento per volta, per non perdere il dettaglio, la sfumatura, l’anatomia di ogni singolo interstizio formale. Una pittura che fa del gesto una tessitura di un tempo dilatato, in un contemporaneo che sempre di più si libera della lentezza vista quasi come una sconfitta dal capitalismo. 
La pittura dell’artista tedesca è anticapitalista perché si sofferma in uno spazio di riflessione autentico e originario, lì dove l’occhio passa disinteressato. Nell’usato, nel consunto, o nel naturale, quel qualcosa abbandonato dall’attenzione ci risparmia da tutto l’eccesso, da tutto l’inquinamento visivo a cui siamo quotidianamente sottoposti. La quotidianità della Appel è una quotidianità depurata, lavata via, sciacquata, ripulita, dal gesto pittorico (talvolta)visto dallo sfrenato contemporaneo obsoleto-obso-lento.

Se attraverso i momenti di trasparenza la superficie ci sembra disvelata, e sembra concedersi, in lavori come Bread o Meat, la pittura ci nega lo spazio della tela. Le fette di pane o carne occupano tutta la superficie a disposizione vietandoci così l’accesso alla granulosità della materia sottostante. Le venature e le fioriture rossastre dei pezzi di carne in un ambiguo trompe-l’oeil ci introducono in una dimensione corporea, facendo sviluppare in noi l’esigenza tattile. Le pitture della Appel sono tempi aptici, scultorei, ma nello stesso momento densi di vibrazioni umane. Gli oggetti dalla vita silenziosa, ci ricordano seppur in diversa maniera, uno dei grandi maestri bolognesi, come Giorgio Morandi, che delle cose e dei tempi lunghi di posa ha saputo regalare alla storia dell’arte contemporanea, un attimo di respiro profondo, di quiete immensa e di uno sguardo umano capace di soffermarsi lì dove solo la pittura restituisce un’essenza mai assente. Le superfici e i s(oggetti) della Appel sono presenti non solo nel momento stesso del loro accadimento ma nella prosecuzione dell’attimo, che come in un fotogramma viene impresso per sempre. 

L’artista svolge attraverso i suoi lavori, una splendida riflessione di matrice semiotica sul senso stesso del dipingere. Nella splendida raccolta di saggi firmati da Louis Marin “Della rappresentazione”, il capitolo dedicato all’ “Elogio dell’apparenza” riprende le tesi della studiosa Svetlana Alpers e del suo libro sull’arte olandese del XVII secolo del 1984 intitolato “Arte del descrivere”. In questo testo, la Alpers mette a confronto due modelli di pittura, quello albertiano, basato su un determinato tipo di prospettiva, con una volontà di narrazione e quello della pittura olandese, volto a descrivere minuziosamente un’arte composta da superfici. Scrive Marin: “È come se il mondo nelle sue apparenze, con la propria superficie, si mostrasse da sé sulla superficie della tela, si auto duplicasse per produrre la propria esatta replica sotto l’occhio affascinato e attento dello spettatore testimone: l’artista, che non ha avuto altra funzione, altro compito, che quello di essere – come avrebbe voluto Stendhal, due secoli dopo, nei suoi romanzi – “uno specchio che si porta lungo la strada”. Scrive ancora: “Ritorno alla superficie, dunque: questa sarebbe la parola d’ordine della “nuova storia dell’arte”, che troverebbe con il libro della Alpers e nella pittura olandese del XVII secolo da lei studiata, l’oggetto storicamente, culturalmente, esteticamente e teoricamente privilegiato per costruire i propri modelli operativi: la superficie come luogo ambivalente, al tempo stesso opera di pittura e manifestazione del mondo, immagine e cosa, in breve, lo spazio degli indici, delle tracce, delle marche.”

Aggiungo quindi che la pittura della giovane artista tedesca sia una pittura estremamente in linea con gli stilemi contemporanei per l’intrinseca peculiarità fotografica, caratteristica che pervade gran parte dell’arte prodotta ai giorni nostri. Le pitture della Appel sono depositi di materia viva che lavano, puliscono e tutelano l’occhio dall’inganno del caos dell’oggi. 
La superficie delle cose diviene ricerca ostinata di un presente in perenne fuga.

In mostra alla galleria P420 di Bologna dal 24 Settembre al 5 Novembre

Federica Fiumelli







 

Phantom models. Intervista a Christian Fogarolli





12 SET 2016
 
Classe 1983, Christian Fogarolli vanta già un curriculum di tutto rispetto sia a livello nazionale che internazionale. L’interesse che dedica alla costituzione dell’identità e dell’essere lo porta inevitabilmente a dedicarsi a molteplici ricerche tra le più disparate discipline, come la medicina, la scienza, l’antropologia, la psicologia, o l’archeologia. L’artista si misura sempre con materiali diversi tra loro e ciò è tangibile nelle opere, che assumono spesso e volentieri la forma di installazioni: il topos della sua poetica viene raggiunto nella forma dell’archivio della multidisciplinarietà.
Fogarolli, anatomista e custode di memorie individuali e collettive, è elegante e minuzioso, scientifico e poetico, nei suoi interventi nulla è fuori posto, nulla è mai in eccesso, tutto convive in un’armonia di riflessioni e forme. L’artista incontra e si scontra con la vita, cattura dettagli e si mette alla ricerca dell’origine. L’artista archeologo allora scava tra i residui di una vita talvolta troppo misteriosa e complessa per farne parte. Questa intervista nasce con la volontà di raccontare l’ultimo progetto in corso d’opera di Fogarolli, Phantom models, nato da incontri fortuiti durante la residenza al De Appel arts centre di Amsterdam, ma non solo, tra le pieghe delle parole dell’artista, tra le ombre di una risposta e l’altra si può carpire l’essenza di uno dei giovani artisti italiani e la sua attitudine verso un contemporaneo sempre piè disattento all’essere delle cose, alla loro costituzione e genesi.
Phantom models è un progetto culturale minuzioso e ambizioso volto a promuovere il patrimonio artistico-scientifico attraverso l’arte contemporanea. Che importanza ha realmente l’arte secondo te oggi? E la componente educativa?
Cosa può esserci di più affascinante di una cosa indispensabile e totalmente inutile? Personalmente non ho mai creduto nella componente educativa dell’arte come suo obiettivo primario e impostato da colui che l’arte la crea. Non ho mai creduto nell’arte per gli altri, nell’arte formativa; l’arte non nasce per formare o educare nessuno, nasce e basta. Credo che l’opera possa diventare socialmente utile nel momento in cui l’artista lavora senza porsi il problema di creare opere utili a qualcosa. Ho sempre diffidato molto dagli artisti che educano o pensano di farlo. Credo che l’artista, non pensando in nessun modo di essere utile all’umanità, diventi utile proprio per questo.
Ci racconti come è maturata la voglia di esporre il primo modello cerebrale rappresentante le fibre nervose e le aree emozionali del cervello umano? Come sei arrivato al testo del 1884 del professor Aeby?
Nel giugno dello scorso anno mi trovavo ad Amsterdam per sviluppare un progetto di ricerca su invito del de Appel arts centre. Iniziai così un lavoro con i curatori Inga Lãce e Chiara Ianeselli basandomi sulla ricerca archivistica presso alcune istituzioni pubbliche olandesi. Presero avvio una serie di collaborazioni con Il Tropenmuseum, il VolkenkundeMuseum di Leiden e il Museo VrolikAcademicMedical Center. È nei depositi di quest’ultimo che tra migliaia di oggetti e materiali di ogni sorta dell’ambito medico scientifico trovai isolato un intricato modello cerebrale, quanto mai contemporaneo nelle sue fattezze estetiche e formali. Da quel momento prese forma una ricerca approfondita su questa creazione, anche grazie alla collaborazione del curatore del museo Laurens de Rooy. Non era un modello qualsiasi, ma il primo modello cerebrale mai costruito che rappresentava le fibre nervose e le aree emozionali dell’encefalo umano divise per colore. Continuando le indagini negli archivi è emersa una pubblicazione del 1884 dell’anatomista che studiò e realizzò tutto questo, da lì prese piede un processo arduo, ma quanto mai straordinario.
Il progetto Phantom models mira ad essere lungimirante attraverso una lista di istituzioni internazionali fino al 2020. Come pensi si evolverà nel corso degli anni? E soprattutto che riscontro hai ottenuto fin ad ora da parte delle persone?
Con “arduo processo” intendevo proprio questo. Leggendo il manuale di Aeby sono riuscito a stilare una lista di 23 città in tutto il mondo che acquistarono questo modello per 500 franchi svizzeri. Si stavano formando i ricercatori del futuro e la creazione di Aeby/Büchi era la migliore e la più avanguardistica. È incredibile come questo modello così importante tra la fine del XIX secolo e del XX sia stato quasi dimenticato nel tempo e che non abbia ricevuto il giusto merito. Io vorrei restituire all’incredibile lavoro di Aeby/Büchi un valore assoluto: è un patrimonio del mondo intero e accomuna ogni individuo, differenziandolo. Stilando così la lista delle città mi sono imposto di ritrovare i modelli originali che furono acquistati, di valorizzarli, mostrarli; e nel caso essi fossero andati perduti o distrutti, di ricostruirne di nuovi con le mie stesse mani, così da permettere ad ogni luogo di rimpossessarsi di questa creazione. Sono partito lo scorso anno concludendo due fasi, due città, Amsterdam dove tutto è partito, e Mosca. Ho fissato come termine temporale la data ipotetica del 2020, ogni cosa ha una fine. Le persone che hanno conosciuto questa storia incredibile attraverso la ricerca e le opere ne sono rimaste sorprese e affascinate: è come se il cervello stesso della gente automaticamente si rispecchiasse in questa creazione artistica.
Hai recentemente chiuso una personale a Parigi dal titolo Le monde du ticqueur, c'è un filo conduttore poetico con Phantom models oppure stiamo parlando di due progetti distinti e separati?
I progetti pur essendo differenti sono legati da una forte base concettuale univoca, in sostanza la stessa che unisce tutto il mio lavoro e dalla quale non mi discosto: la rappresentazione reale, tattile e interpretativa di alcune dinamiche artistiche in ambito medico, antropologico, psicologico, archeologico. Far emergere passaggi specifici di come e dove queste scienze abbiano usato l’arte in maniera involontaria a scopo progressistico. Il progetto Phantom models ne è una testimonianza tangibile e immediata; personalità che hanno dato vita a delle creazioni a metà tra arte e ricerca medica. In base al punto di vista che si sceglie il campo di indagine varia, artefatti senza tempo e spazio che possono adattarsi perfettamente a un museo sulla storia della ricerca scientifica e a un museo di arte contemporanea. Alcuni lavori della mostra Le monde du ticqueur sono invece delle vere e proprie esperienze partecipative riguardanti stati dissociativi e di interferenza nei sensi umani, a livello visivo, uditivo, tattile. Lo spettatore può confrontarsi in prima persona con alcune situazioni che ricordano gli studi e gli esperimenti di Oliver Sacks, gli scritti di Aleksandr Lurjia o Ian Hacking.
Sappiamo bene che da sempre geni artistici e scientifici convogliano in un perpetuo incontro di scambio. Qual è il tuo pensiero a riguardo? Come definiresti il rapporto tra creazione e teorizzazione? Tra ipotesi e dimostrazione?
Il settore artistico credo che esuli dal rapporto ipotesi/dimostrazione, l’arte non deve dimostrare nulla alla sua radice e non credo debba nascere con questo scopo. In un successivo momento può farsi carico di aspetti dimostrativi e teorici, magari nel momento in cui successivamente se ne parla. Chiaramente sembra che sempre più ci sia un continuo scambio tra diverse discipline a livello artistico, credo che questo possa essere una lama a doppio taglio. Da un lato il beneficio di una continua contaminazione che porta a letture sempre più ampie; dall’altro la difficoltà della lettura stessa in cui sembrano nascere nuovi cliché standardizzati in cui spesso gli artisti si buttano. A volte sembra che oggi nei grandissimi musei espongano solamente esecutori di passi di danza e di pseudo scene teatrali, meglio se abbigliati con un vestito ridicolo.
È una domanda che sovente faccio agli artisti che incontro, Christian Fogarolli ha qualche artista di riferimento a sua volta? C’è qualcuno in particolare a cui ti senti, o ti sei sentito vicino? Magari anche quando eri uno studente.
Mi sento ancora uno studente e per il momento non sento di avere artisti di riferimento. Non perché non esista alcun artista verso il quale sento affinità, rispetto o ammirazione, ma solamente per il semplice fatto che i miei riferimenti non sono artistici. Preferisco dare maggiore attenzione e peso a uomini che hanno fatto dei loro studi una disciplina, o presunta tale, e che hanno cercato di seguirla in vita. Trovo interesse in quegli uomini che hanno creato inconsapevolmente aspetti artistici in discipline diverse, come l’antropologia, la medicina, l’estetica, la psicologia. Se devo citare qualche nome direi Charles Darwin, Jean-Martin Charcot, Benjamin Rush, Giovan Battista della Porta, Cesare Lombroso.
Nei tuoi lavori è sempre presente una forte idea di tempo. Oggi il tempo è mutato sembra quasi sfuggire da se stesso. Nella tua mente il tempo ha una forma? Un’immagine? Un’identità?
Credo che il tempo sia il ritratto e l’immagine dello spreco. Il tempo oggi ha erroneamente la forma del denaro e non del ricordo.
C’è un’opera, che sia essa di letteratura, cinema, teatro o musica, che ha cambiato o influenzato il tuo modo di operare e vedere?
Una no. Nel cinema, per le ambientazioni, i personaggi e la linea di pensiero David Linch sicuramente, in un paio di occasioni avevamo dei lavori esposti insieme, lo vidi da lontano ma non ho ancora avuto la fortuna di conoscerlo. Nel teatro credo la figura del Rigoletto verdiano, forse perché l’ho sempre accostato proprio a uno dei personaggi del cinema di Linch. Nella letteratura sarebbero molti, a volte anche solo per piccole fasi dei loro lavori, cito solo Michel Foucault, Dostoevskij, Georges-Didi Huberman, Freud e Barthes.
Progetti futuri? Puoi svelarci qualcosa?
Il minimo indispensabile, sto lavorando su Torino con alcune istituzioni come il Museo Luigi Rolando, che conserva l’unico esemplare italiano del modello di Aeby. Fu Torino infatti l’unica città italiana ad acquisirne uno nel 1885, è custodito all’interno del museo in ottime condizioni. Oltre a questo e qualche fiera sto portando avanti alcune ricerche in istituzioni mediche di Parigi, Dresda e Praga; quest’ultima fu la città natale del prof. Chr. Aeby, e dove probabilmente è conservato uno dei primi prototipi del modello.
Ultimissima domanda. Cosa non è mai stato chiesto a Christian Fogarolli?
Credo molte cose, tra cui certamente questa domanda. 










sabato 13 agosto 2016

Alberto Biasi – Gli ambienti. Tessiture preziose e talvolta antitetiche

link: http://wsimag.com/it/arte/20772-alberto-biasi-gli-ambienti




Il percorso artistico dell'artista padovano Alberto Biasi non può essere letto come settoriale, volto in un'unica direzione, ma anzi proprio l'attività svolta a cavallo fra il sesto e il settimo decennio del secolo scorso, dove ha preso vita un contesto culturale talmente denso di eventi da impedire qualsiasi ortodossia, ha dimostrato l'essere di Biasi, una perla rara, dalle tessiture preziose e talvolta antitetiche.
L'importanza della mostra a lui dedicata a Palazzo Pretorio di Cittadella, che in maniera graduale sta diventando sempre più un centro prezioso di studi per l'arte contemporanea per l'accuratezza e la professionalità scientifiche, dimostra e ripercorre storicamente l'eredità e il dna di un'arte "bistrattata" dalle colleghe, prima la pop art e poi con il nascere dell'arte povera alimentata da Celant, come l'arte programmata-optical-cinetica. I 7 ambienti riproposti, realizzati e allestiti ad hoc, ci fanno risalire alle origini di un'Italia in fermento, agli anni '60 e '70 senza però guardare allora con nostalgia, ma con un ampio sforzo critico capace di creare un elastico attrito riflessivo con il contemporaneo.
Si ripercorrono così le fasi germinali del Gruppo N, di una concezione artistica contro il personalismo dell'artista e che ha sviluppato invece un "fare" incentrato sulla funzione, sulla relazione e sulla collettività. Nei ricordi di Biasi, cruciale l'incontro con Bruno Munari, e la progettazione della Mostra del pane. Contro il culto della personalità e contro il mito della creazione artistica del 1961.
Nel catalogo ragionato della mostra che vanta i contributi scientifici del curatore Guido Bartorelli, e di Elisa Baldini, Federica Stevanin, Giuseppe Virelli, vengono riportate le parole dello stesso Biasi: "Annoto che quella mostra esplicitava soprattutto una concezione dell'arte e dell'artista, che in quel momento avevamo maturato. In sintesi: si pensava sia che il pane fosse arte e l'arte fosse pane nel momento in cui venivano concepiti come tali dal fruitore e sia che l'attività dell'artista e del fornaio fossero assimilabili. E infatti dopo quella mostra tutte le opere ideate dal Gruppo non vennero firmate, ma solo siglate Gruppo N".
Il resto verrebbe quasi da dire è storia, ma l'importanza di un concetto che qui mi preme sottolineare è sicuramente il senso di collettività che soprattutto oggi, a mio parere, se non è perso in maniera totale, leso e opacizzato, è appannato sicuramente dalle velleità individualistiche imposte da un mercato sempre più basato, soprattutto dagli anni '90 in poi, su l'arti-star.
Il concetto di spazio e di ambienti è poi il focus centrale dell'esposizione, già da Mostra chiusa. Nessuno è invitato a intervenire del 1960, lo spazio concettuale che fu negato nella storica anti-esposizione, già si prestava alla volontà di render gli ambienti praticabili. Gli Achromes di Manzoni, Le Linee, gli esperimenti dell'assoluto anticipatore Lucio Fontana, Azimuth, tutto ciò vibrava "nell'aria" e la figura dell'artista ha sicuramente la peculiarità e il merito di captare che qualcosa è sempre in via di mutazione e scoperta. Come sottolineato da Guido Bartorelli, l'arte programmata come quella minimalista americana nacquero entrambe dal rilancio congiunto di costruttivismo e ready-made: "una congiunzione che spinse le forme a uscire dall'idealismo astratto per incarnarsi nella dimensione gestaltica-fenomenologica".
Ed è infatti nel gene nomino, nell'interazione da parte dei visitatori, ciò che gli ambienti richiedono, ogni riverenza contemplativa viene surclassata per fare spazio all'esperienza diretta, e al convolgimento sinestetico. È così che fino al 6 novembre, i sette ambienti, Spazio Elastico, Proiezione di luce e ombra, light prisms - grande tuffo nell'arcobaleno, spazio oggetto ellebi, Io sono, tu sei egli è..., Eco, risiederanno negli spazi di Palazzo Pretorio di Cittadella, dove proprio nel 1959 cominciò la carriera artistica dell'artista con la vincita del primo premio alla IV Biennale Giovanile d'Arte di Cittadella.
Spazio Elastico occupa una porzione di spazio con file di cubi sospesi attraverso i quali il visitatore è invitato a passare, può essere definito un "ambiente totale"', un lavoro partecipativo, ed è necessario qui riprendere le parole di Bruno Munari, sul concetto di opera sinestetica, nel suo famoso Manifesto dell'Arte Totale, riprendendo "differentemente" le teorie espresse nel Manifesto della ricostruzione futurista dell'universo di Balla e Depero del 1915, e che Giuseppe Virelli riporta nel suo saggio del catalogo: "L'arte totale vuole interessare direttamente tutti i sensi per comunicare con maggior possibilità il dato reale. [...] da ciò gli oggetti totali saranno da guardare, toccare, fiutare, ascoltare. Da oggi finalmente, oltre allo spirito, il corpo e i sensi dell'uomo non-artista possono partecipare direttamente all'emozione artistica".
Nelle parole dello stesso Biasi: "Tutto il movimento moderno di rinnovamento in campo artistico è nato proprio dal bisogno di dialogo sempre più serrato fra l'artista e lo spettatore, per ritrovare quella partecipazione reciproca necessaria alla formazione della 'nuova arte' e per permettere il godimento immediato degli oggetti creati a tutta la società del nostro tempo: bene che era stato perduto da vari secoli per la separazione fra la maggior parte del pubblico e l'artista".
Proiezione di luce e ombra, un cubo di lamiera forata contenente una seconda lamina fessurata rotante per mezzo di un piccolo elettromotore illuminata internamente da una lampadina, inserisce la quarta dimensione, ovvero il tempo, o meglio lo spazio-tempo nel quale veniamo risucchiati fascinosamente in un movimento perpetuo ed evanescente di luminosi fasci puntiformi. Scrive Virelli: "In questo environment la radiazione luminosa, essendo proiettata dinamicamente all'interno dell'ambiente architettonico circostante, agisce contemporaneamente su due fronti apparentemente opposti: da un lato funge da 'fattore costruttivo di forme e spazi' e, dall'altro, sottende un'inevitabile dissoluzione dello spazio medesimo". La dicotomia non fa che rafforzare una diversa percezione delle coordinate spazio-temporali.
Light prism oltre ad essere uno dei lavori più belli e coinvolgenti in mostra, è a tutti gli effetti il lavoro di ricerca più anomalo e complesso e longevo della produzione artistica di Biasi come afferma Elisa Baldini. L'opera è una sorta di riproposizione dell'esperimento sulla frangibilità di Isaac Newton. Italo Mussa, come riporta la Baldini, scrisse: "un contenitore/teca nel cui interno raggi luminosi generati artificialmente vengono scomposti e rifratti da pareti specchianti creando in questo modo un gioco di rimandi infinitamente articolato. La luce genera colori puro dal notevole spessore cromatico. La spazialità è creata dalla danza dei fasci luminosi in un perpetuo gioco percettivo virtuale la cui durata spazio temporale è calcolabile solo nella distribuzione infinita dei raggi luminosi. Non ci sono illusioni spaziali, perché la spazialità è data dai raggi luminosi medesimi; la virtualità del movimento è indeterminata, qualificata solo dalla durata appercettiva. Pur essendo programmata (mediante motori elettrici), la durata spazio temporale di ciascuno spostamento visuale è calcolabile soltanto nelle distribuzione infinita dei raggi luminosi".
Come nella danza di Loie Fuller (artista che ho ricordato/associato trovandomi lì all'interno dell'opera), lo spazio viene suggerito/sussurrato nell'illusione del cromatismo e del movimento, e non si può che esser rapiti da quelle forme senza peso che invadono lo spazio e ci rendono partecipi di un mistero semi concesso e semi svelato. È così che lo spazio insieme al nostro sguardo, accadono, in una "progettazione di apparenze". Nella diversità della rifrazione, i sensi si abbandonano. Giulio Carlo Argan affermò: "Abolendo l'oggetto d'arte e provocando il fatto estetico tramite sollecitazioni dirette della facoltà percettiva-immaginativa del fruitore, le ricerche visive portano a termine il processo di desacralizzazione dell'arte: la quale dunque non avrà più bisogno di inquadrarsi in una filosofia, l'estetica, ma sarà spiegata, come ogni altro fenomeno, dalla scienza".
Con Spazio-oggetto ellebi la mostra prosegue all'insegna di "un'avventura per la vista, per l'occhio di tutti". Una definizione data da Caroline Tisdall e riportata da Federica Stevanin. L'opera è concepita come "un dispositivo rivolto all'attivazione psico-percettiva e motoria dello spettatore, fruitore e insieme collaboratore". La realizzazione pensata ad hoc per gli spazi di Palazzo Pretorio ci inganna, creando l'illusione di un ambiente reale, che scuote e si fa beffa al contempo dei nostri sensi. Come continua la Stevanin rifacendosi allo straordinario testo di Umberto Eco, è da considerarsi come "un'opera aperta, in grado di attivare un rapporto di scambio con il singolo fruitore e capace di restituire la medesima ambigua 'sensazione del movimento instabile, del farsi e disfarsi delle forme'".
Orizzontale Ellebi del 1967 ci fa precipitare in un clima assolutamente psichedelico, sui ritmi fluidi e lunghi dei Jefferson Airplane, l'opera: un tappeto calpestabile composto da sacche contenenti oli e liquidi fluorescenti sovrapposte a strati che, sotto la pressione di man e piedi, generano sempre nuove configurazioni di forme e colori all'interno del contenitore di polietilene. Federica Stevanin ci conduce poi in una riflessione molto interessante dal mio punto di vista e che mette in relazione quest'opera con il mezzo fotografico: "È possibile rilevare in questo lavoro la presenza di un'estetica tipica della 'logica dell'indice'". Alla luce dell'analisi semiotica di Charles S. Pierce e dalla sua ricezione nel dibattito critico internazionale sulla fotografia attraverso il pensiero di Rosalind Krauss e di Claudio Marra, 'L'indice è quel tipo di segno che lo stesso Pierce ha chiamato anche - impronta, oppure - traccia, un segno che pare autoprodursi per generazione diretta del referente, in maniera - automatica', un processo quindi del tutto omologo a quello dell'impressione fotografica".
E ancora: "Come è stato evidenziato da Marra sulla scorta critica di Krauss, esiste una sorta di 'fotograficità implicita' che caratterizza tanta parte dell'arte contemporanea e che emerge anche nei casi in cui gli artisti, pur non servendosi direttamente del mezzo fotografico ne adottano le componenti concettuali più specifiche, tra queste la 'logica dell'indice' che, dal ready made di Marcel Duchamp, arriva ad abbracciare le performance, il video, l'installazione e l'ambiente".
La riuscita di questa esposizione è inutile dirlo, oltre al talento dell'artista Alberto Biasi, ancora attivo e dall'intelligenza e dalla creatività strabordanti, sta nella professionalità del comitato scientifico che sta (lo ripeto) portando a Palazzo Pretorio mostre dal calibro importante e cucite intorno a un accurato senso critico. L'esposizione Gli ambienti, resa possibile anche grazie alla collaborazione con maab gallery, è un'occasione veramente preziosa per interrogarsi su questioni basilari dell'arte contemporanea, sul ruolo dell'artista, sui diversi dispositivi artistici, sull'eredità del passato e sulle scommesse del futuro, sul mercato e sul senso non secondario della collettività e dell'esperire.
Biasi mixa la riflessione alla parte ludica, creando una forma di visione possibile, un'alternativa, una possibilità di fruizione differente, attraverso la quale la nostra percezione si abbandona alla vertigine. Vertigine e orientamento, una dicotomia possibile nella poetica dell'artista. La forma conquista l'occhio, ma la grandezza sta nel non limitarsi a quest'ultimo, bensì a tutto l'apparato percettivo. Una mostra da penetrare con i sensi, nella più precisa volontà che la parola: estetica comporta, un'orizzontalità che permette lo spazio del movimento e del sentire.
Concludo con un'affermazione di Udo Kultermann riportata dalla Stevanin: "L'artista è divenuto mediatore dell'esperienza e dell'azione, azionatore di quel ponte divenuto tanto necessario fra l'uomo e l'opera d'arte. Come tale egli va al di là del suo tempo e dello spazio [...] e plasma lo spirito con quale l'uomo guarda alla realtà. Ciò rende possibile l'esistere in un senso più vasto. L'artista è colui che ci rende capaci di orientarci nel nostro mondo". 

Federica Fiumelli






















 

venerdì 22 luglio 2016

The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it) @ONO Arte Contemporanea

link: http://julietartmagazine.com/it/events/the-rolling-stones-rock-roll-but-it/





C’è una frase, molto semplice e banale se vogliamo, tratta da una pellicola cinematografica che ben rende l’idea di una generazione devota alla necessità dell’arte. “Gli anni passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.”

Dal film “I love radio rock” di Richard Curtis

“Would it be enough for your cheating heart
If I broke down and cried? If I cried?
I said I know it’s only rock ‘n roll but I like it
I know it’s only rock ‘n roll but I like it, like it, yes, I do
Oh, well, I like it, I like it, I like it”

È in un caldo giorno estivo che fatica a spegnersi, come la rock band più famosa del pianeta, è con con quel ritmo e quell’intensità che la galleria bolognese Ono Arte Contemporanea decide di omaggiare i Rolling Stones attraverso i cinquanta scatti di due pilastri britannici della fotografia, Micheal Putland e Terry O’Neill con la mostra “The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it).
È tra disordine erotico, intimità e aggressività trasbordante che la fusione tra l’eredità del rock anni cinquanta e il blues si sono incontrati nell’arte dei Rolling Stones. Un gruppo talmente mitico che si fatica a esprimere a parole la grandezza di un fare artistico così virale e capace di travolgere e seminare proseliti a distanza di decenni, quasi ci si sente obbligati a inchinarsi a cotanta storia preziosa e globale. Un rock che ha scosso ormoni e coscienze, un rock che ha donato la propria anima al diavolo perché con i perbenismi ci si è pulito la suola consumate delle scarpe. Sono scarpe importanti quelle dei Rolling Stones, scarpe che hanno lasciato passi indelebili nel cuore e negli orecchi di milioni di fans, scarpe che hanno saltato a ritmo di un giro di basso sui palchi più leggendari. Scarpe immortali e impavide.
Terry O’Neill li ha immortalati per le strade di Londra, della “Swinging London” regalandoci alcune delle immagini più famose del gruppo in quella che possiamo definire come la formazione originale e più amata, con Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’oramai leggendario Brian Jones. «Everywhere you looked in London, something was happening». Così ha definito lo stesso O’Neill quel periodo caldo e magmatico, denso, e febbricitante che dalle generazioni a venire, è stato ed è visto come uno dei periodi artistici più prolifici della storia. Un gruppo, quello capiteneggiato dalle labbra carnose e androgine di Mick Jagger, che negli anni’60 ancora vagava nelle strade della capitale britannica alla ricerca di una propria identità estetica specifica, ed elemento certo non di second’ordine, che si trovava a “rivaleggiare” con i rassicuranti e pacifici Beatles. I Rolling Stones tra voglie demoniache e una sessualità espansa, oltraggiosa, coraggiosa, si sono scelti (o sono stati scelti) un’arte sismica, tellurica, capace di scuotere anche lo scettico più ostico e statico. I loro dischi, uno dopo l’altro sono stati mezzi di autentica e originaria conversione al piacere sfrenato e selvaggio. Una libido implacabile ma terribilmente sincera, portatrice sana di una generazione desiderosa e spumeggiante.
È quindi il fotografo O’Neill, batterista jazz, innamorato della musica, arrivato alla fotografia un po’ per caso e necessità dapprima all’interno della British Airways e dopo come fotoreporter, a donarci l’immagine quasi ingenua, intima, di quella che potremmo definire “l’adolescenza artistica” dei Rolling Stones. Il mito prima del mito, i Rolling Stones prima dei Rolling Stones. È stato nel decennio successivo, in tutti gli anni settanta che invece un altro maestro come Micheal Putland è riuscito ad immortalare tra backstage, party e performance l’identità ormai formata è affermata, decisa e grintosa del gruppo. Se i Beatles smisero di fare live nel 1966, la peculiarità targata Rolling Stones è stata sicuramente quella di aver dato smalto e forza al loro essere tramite le performance live. Ed è così ancora oggi. Il decennio dei Settanta ha palesato e dimostrato la potenza di un gruppo musicale devoto a un’unica fede: quella del rock, e gli scatti di Putland, testimoniano la grandezza di un’era, un’atmosfera, un clima dove il mito poteva resistere e ridere in faccia al precariato del successo. Tra una pausa delineata dal fumo di una sigaretta, tra corde di chitarra e microfoni, tra outfit succinti e platee invase da corpi sudati e fanatici, tra sorrisi e passioni stravaganti, l’erotismo sfrenato del rock si fa mito, negli scatti in bianco e nero fissati nella storia dall’occhio di Putland, un artista che di leggende musicali se ne intende bene, solo per ricordare, dal suo obiettivo sono passati personaggi del calibro di Stevie Wonder, David Bowie, Ladies Tea Party, Annie Eve, The Clash, Tom Waits, Bruce Springsteen, Bob Marley, Frank Zappa, Van Morrison, Bee Gees, Nina Simone e tanti altri.
Anche in questa mostra la Ono Arte Contemporanea mette in scena il lato B del vinile, quello più intimo, segreto, quello più privato e inedito, quello meno conosciuto e più godibile, è così che ci viene offerta la possibilità di spiare la storia da un interstizio atemporale, così definirei il mezzo fotografico, uno strumento che grazie alla capacità di maestri appassionati come O’Neill e Putland ci offrono il disvelamento del mito, dei segreti preziosi, delle note sussurrate, oltre la capacità umana di comprendere, lì, l’arte per l’arte aiuta la leggenda a rimanere tale.

Federica Fiumelli








 

giovedì 14 luglio 2016

This must be the place #01 - asse Bologna - Londra




"Never for money, always for love" è così che mi infrango portico dopo portico tra le forme di un tortellino, magari progettato da Depero, e un bicchiere di vino.
Secco va giù meglio, ma non come l'angoscia di chi manca sempre il consiglio giusto.
Giusto? Ma poi cosa? Non lo puoi sapere quando decidi di restare. Non ora, ma qui.
Il mio viaggio non è lontano, è più fedele come un pendolo che frenetico come un minipimer, e radicato come un frutto, ordinario, binario su binario con la maleducazione di chi non sa tacere e il sopismo degli annoiati.
Tutto scorre al bit di un semaforo. E staccho i giorni dal calendario come i post it promessi e dimenticati nella polvere.
Ma a questa città piena di contraddizioni voglio bene, sì perché qui talvolta accadono gesti autentici d'amore. Il romanticismo è sempre disobbediente, l'ho letto di sfuggita da qualche parte e l'ho fatta subito mio, un pensiero maledettamente e squisitamente erotico. Ma digressioni a parte, stavo appunto dicendo che questa città è capace di risolutori atti artistici, veri e propri atti politici.
E ultimamente è stata teatro di un autentico gesto tragico, catartico in grado di far riflettere e far scatenare discussioni, gesti che non si vedevano da tempo.
Quel che piace a me...e quello che porto con me è l'immagine iconoclasta di un artista che in seguito ad una dubbia operazione di marketting (enfasi sulla doppia t) anziché culturale (come quest'ultima invece dichiarava negli intenti) ha cancellato per sempre le proprie opere dal volto di questa città.
Ai più suonerà non certa nuova questa storia, che non deve cessare di essere raccontata come succede troppo spesso nella memoria effimera e di facile dimenticanza, propria delle luci della ribalta tipiche dei social network. E che dire della collaborazione di ragazzi dei centri sociali (e non solo), fianco a fianco a cancellare e rimuovere nel Blu dipinto di grigio? Uniti per un ideale. Questa sì che è una bella immagine del termine "insieme".
"E qualcosa rimane tra le pagine chiare" e tra le strade, un grido molto più forte di tutti gli stilemi convenzionali dell'avido capitalismo. Quanti commenti piovuti in questo grigio, molteplici scagliati senza cognizione di causa, tipica della 'legione di imbecilli' professata da Umberto Eco in merito alla democratica presa di parola concessa dai social; poche le riflessioni precise, puntuali, colme di coscienza critica. Ho la fortuna di essermi formata con persone oneste e competenti e a loro come a questi gesti di romanticismo disobbediente va il mio plauso e la mia stima. La bellezza di un gesto responsabile che porta a farti sentire parte di una comunità, di una collettività.
Ritorna intrepido "Never for money, always for love" esattamente da dove eravamo partiti, siamo tornati per perderci tra i contrasti, come succede alla crème de cassis con il vino bianco. Sai certe notti capita di infrangersi nei suoni che Jeff Mills porta direttamente da Detroit e tu in quel momento sei talmente incosciente, scalza tra i vetri di un amore negato, che ti scoppia il cuore a vedere l'alba sulle tag del Link, la meraviglia amica mia, a qualche meridiano di distanza è anche questa: colmare l'assenza con atti di allucinata consapevolezza come se la mancanza fosse un bicchiere troppo piccolo e lussuoso per contenere la tua sete.
Ho deciso di restare perché anteposte all'orizzonte, le cose sono sfuocate come nelle foto di Brigitte March Niedermair, nate dalla riflessione sulla poetica Morandiana, cerco di mettermi a fuoco, oltre un limite, perché questo forse 'this must be the place'. E so che tu nel silenzio, di fronte a quelle immagini mi avresti capita. Ci si capisce sempre tra le fila immaginarie di un museo.
Le città sono come le scrivanie e come le scelte, sono universi di tediosa ma necessaria ambiguità...che poi io non fumo nemmeno, ma accanto a vecchie polaroid vergini tengo come un reliquiario un pacchetto consunto di marlboro rosse, per fissare il vizio, per sempre. A proposito delle scrivanie, vedi? Siamo pieni di contraddizioni o controindicazioni. Ma è meraviglioso sentirsi irrisolti. E mentre corro frettolosamente a prendere l'ultimo treno, senza disattenzione come senza mascara, arrivo sotto le due signore della città, così alte e imperfette che bucano il cielo, qualcuno passa con il finestrino della macchina abbassato e Patti Smith canta "My generation".

Federica Fiumelli - Bologna


Scegliere di partire non è mai semplice, è difficile scendere al compromesso di lasciare le proprie geografie emotive antropomorfe fatte di luoghi e di persone, per andare a ricrearsi un'esistenza ex novo a migliaia di chilometri più in là.
Scegliere di inseguire un sogno definito sebbene al contempo nebuloso è un atto di coraggio quasi quanto quello di restare. Quando il tempo scorreva veloce e l'ansia del futuro si stringeva a me ho dovuto scegliere se attuare la mia rivoluzione in un'Italia bella ma pietrificata o se scappare via, e andare nella fluida capitale anglosassone. Difficile scegliere, ma non poi così tanto. Era un pomeriggio caldo di inizio autunno ed io ultimavo le conclusioni della mia indagine sulla meraviglia, per mesi mi ero accademicamente interrogata sull'importanza di questa nella filosofia e nelle arti. Quante estenuanti giornate avevo passato ad inseguire per tradizione indiretta il significato ultimo dello stupore. Con l'ultimo sole del pomeriggio la mia meraviglia è arrivata come un'epifania attraverso un passo di Tondelli, quello famoso dell'odore. In un attimo ho capito il da farsi e così, come quando nel 2010 l'odore mi portò in via Paolo Fabbri tra le foglie cadute e destinate a perire ed il profumo dei tortellini di Vito, stavolta questo mi portava inequivocabilmente a Londra. Sono quindi partita, pronta a fare la mia rivoluzione qua.

Overwhelmed dalla possibilità multistimolante che offre la città a volte mi dimentico di stare col naso all'insù, dimentico di essere ricettiva al senso olfattivo e mi perdo nella miriade di altri stimoli sensitivi. In un certo senso mi immergo nella città carica di quel senso di opera d'arte totale professato da Wagner.
Nella metropoli che corre senza sosta mi trovo a sperimentare un rinnovato senso di lentezza dettato dalla consapevolezza di essere finalmente, almeno per un po', al posto giusto nel momento giusto. C'è freddezza nelle persone che ogni mattina, assorte nella loro vita frenetica, attraversano con me la città sotto terra. Sguardi timidi difficilmente seguono un approccio conoscitivo, ognuno teme semplicemente non avere il tempo per conoscere l'alter. Va bene così, questo mi dà il modo di esplorare la piccola fauna sotterranea con cui convivo a stretto contatto per almeno un'ora e mezza tutti i giorni.
"Do you have love for human kind?" cantano le CocoRosie in questa mattinata grigia, le loro voci mi ricordano una serata risalente a due vite fa quando, nel pieno di una frizzante adolescenza, finii ad un loro concerto, non le apprezzai, non quanto ho imparato a fare poi, all'alba dei 25 anni. Ecco, il mio amore per il genere umano l'ho riscoperto qua, nella varietà di una metropoli multiculturale. Il confronto con nuove culture è brevemente diventato il centro della mia ricerca personale.
Parimenti, il panorama artistico che la città ha da offrire è talmente vasto che è difficile non essere travolti dalla ampia scelta. Mi rinnovo ogni giorno, perdendomi in disparate produzioni artistiche, lasciando a casa i pregiudizi e immergendomi con una gioia al sapore di epochè all'interno di tele, installazioni, sculture e performances.
Dopo anni di rifiuto quasi iconoclasta nei confronti di ciò che non era assolutamente contemporaneo ritrovo ad apprezzare ed a ricercare con un fare quasi lussurioso ed avido ciò che mai pensavo avrei apprezzato e mi colgo stupefatta nel ricercare nelle forme antiche i tratti di un concettuale ante litteram che mi travolga e che mi coinvolga in un sentimento di appagamento sinestetico.
Sempre più mi trovo attratta dalla dimensione cromatica dell'arte. A volte, perdondomi davanti ai Rotkho esposti in una sala buia della Tate, provo il desiderio di accendere la luce per potermi acciecare con il colore pigmentato.
A sedere su una delle panche in penombra, chiudo gli occhi e sento, sotto ai piedi, il pavimento in cemento dell'ex seccatoio dimora dei monocromi di Burri. Con il senso tattile della mente, seduta davanti alle opere di Mark, percorro le superfici nere di Alberto, sfiorando con un polpastrello impalpabile ora l'opaco, ora il lucido colore denso e piatto. Il mio viaggio continua e vago con la mente, sono dentro alle dimensioni spaziali e cromatiche di Spalletti e mi interrogo sulla valenza sociale e artistica del medium pittorico.
Il mio odore mi ha condotta a Londra perché è da qua, dal suo sentimento metropolitano permeante, che posso intraprendere una ricerca conoscitiva che mi coinvolga a pieni sensi.
Così, immergendomi nei luoghi che hanno visto nascere la YBA e che, più o meno metaforicamente, sono tappa obbligata per tutta l'arte, sento il bisogno di dover tornare ad interrogarmi sulle roots dell'arte e, nella fattispecie, sulla valenza della pittura stessa. Davanti al letto di Tracy Emin, finalmente in esposizione alla Tate Britain, mi chiedo se la mia rivoluzione non debba ripartire proprio dall'atto pittorico.
Rewind. Riparto da qua, dal colore puro.

Claudia Zanardi - Londra


mercoledì 13 luglio 2016

You and Myself. Intervista ad Andrea Bianconi






Fino al 24 luglio gli spazi di Casa Testori a Novate Milanese si fanno temporalmente trasversali e geograficamente globali, è infatti possibile immergersi nei dieci anni di performance dell’artista vicentino, classe’74, Andrea Bianconi.
La mostra, a cura del critico Luigi Meneghelli, approfondisce con grande precisione la poetica di Bianconi, il quale, da sempre nei sui gesti performativi ha esplorato come un vero funambolo il complesso e prismatico rapporto con l’altro. You and Myself è una mostra dunque che indaga l’io nostro e degli altri in una perpetua oscillazione di senso. Gli interrogativi di Bianconi hanno tappezzato tanti luoghi, e l’artista infatti vanta fra le sue recenti esposizioni, una public performance tra la Piazza Rossa, il Cremlino e il Manege Valencia, Madrid, New York, United Arab Emirates, Basilea, Palazzo Reale, Milano, Shanghai. Nel 2011 Charta ha pubblicato la sua prima monografia, nel 2012 Cura.Books il suo primo libro d’artista Romance e nel 2013 il secondo dal titolo Fable. Entrambi fanno parte della collezione del MoMA, NYC. 

Consigli per la fruizione: dimenticate chi siete e fate di ogni dettaglio la vostra gabbia temporanea.
Ami raccogliere, accumulare, mescolare oggetti, come ricorda Luigi Meneghelli nel testo di presentazione alla mostra citando Italo Calvino che definisce “redenzione degli oggetti” il riscatto del banale. Che rapporto hai con gli oggetti dunque? Ce lo racconti solitamente tramite le performance, a parole?
Cerco continuamente oggetti, li accumulo nei miei studi, li colleziono, cerco tra di loro una possibile relazione, un rapporto, un legame. L’oggetto è da una parte strumento, dall’altra soggetto, cerco di dargli una nuova vita, una seconda possibilità. Come li scelgo? Non li scelgo, loro mi si presentano di fronte… inaspettatamente. Mi rivelano l’altro. Pensa che in ogni studio ho una gabbia appesa, vuota, e sopra la mia sedia, serve a contenere i pensieri o le idee, quando sono troppe.
Ogni tua performance è corredata, composta da disegni, fotografie e scrittura. Ti chiedo, che rapporto hai con ognuno di questi medium? C’è qualcosa che in fondo prediligi?
Il disegno mi segue ovunque, è parte di tutto, del progetto e della realizzazione, per me non c’è un confine tra disegno è performance, il segno è sempre gesto e il gesto segno. Quando per esempio ho disegnato Romance, un libro fatto di 5000 disegni-scritti, dove ripercorrevo la storia della mia vita, l’ossessione era dominante, era dominante il fatto che ogni segno o ogni parola fosse legata alla precedente e al seguente, come un’infinita catena parentale. Mi interessava il segno, il gesto, la ricerca di tracce di qualcosa che potrebbe anche non esserci, come direbbe Calvino. Tutto era legato a un momento, sia l’azione che la reazione, tutto diventava corpo. Poi questo libro è diventato un video dove proiettavo sulla maschera della mia faccia tutti questi segni, come se la mia vita mi scorresse davanti agli occhi. Quindi, quando uso diversi media, che possono essere anche foto, video, parole, suoni, musiche, tutto è in relazione, tutto è una grande catena, è un grande tutto.
In questa intervista mi avvalgo spesso della parola “rapporto”, ho riscontrato negli appunti delle tue performance che sia un concetto fondamentale, un approccio irreversibile che hai con il mondo, e ne sembri romanticamente consapevole. Che rapporto ha l’artista con l’amore? Penso a You always go down alone, Forever and Ever, Love story … Secondo te il romanticismo è sempre disobbediente? È una frase che ho letto da qualche parte e mi ha personalmente colpita molto.
Cerco continuamente rapporti, tra gli oggetti, tra le culture, indago i rapporti… l’altro è fondamentale in tutta la mia ricerca, non ci può essere You senza Myself, e viceversa. Con Forever and Ever ho iniziato a chiedermi cos’è il matrimonio, il legame tra due persone... io e mia moglie ballavamo con due gabbie la canzone del nostro matrimonio, vestiti con gli abiti nuziali. In Love Story, mi immaginavo re dei fiori, l’idea mi era venuta a Toronto in una giornata freddissima, gelida, piena di ghiaccio, due persone camminavano tenendosi per mano, senza guanti… quelle mani mi hanno raccontato una Love Story. Mi chiedo cos’è l’amore, dov’è la poesia… credo nel romanticismo, in quella cosa che ti fa vedere e sentire dolcemente, in quel sentimento che mi fa vibrare e illuminare, in quel gesto che mi fa vivere.
Sono recidiva, che rapporto ha Bianconi con gli altri artisti? C’è qualcuno che ti ha ispirato fin dagli esordi? Con chi condivideresti una possibile residenza in un posto remoto e isolato?
Gli altri artisti… non mi piace la parola altri, in questo caso, gli artisti sono sentimenti di Passione, sono atti d’amore, lo scambio e il confronto sono vitali, perché tracciano un tempo. Per esempio alla Biennale di Mosca, o al MSK Museum of Fine Arts a Ghent, ho collaborato con Mark Licari e Ricardo Lanzarini a degli enormi wall drawing, lavoravamo insieme giorno e notte, i miei disegni si sovrapponevano con i loro, e viceversa, cercavamo un dialogo, un Dialogo Illuminato ( così si chiamava il lavoro di Mosca), ci rispettavamo… Abbiamo un nuovo progetto assieme in un posto isolato. Ultimamente poi, guardando il cielo, ho trovato una stella Blue. Con la mia nuova performance Draw Me sto chiedendo a tutti di disegnare sulla mia faccia in una cartolina, di spedirla a Casa Testori, sto cercando di realizzare un World Drawing Project, un progetto collettivo.
E con la critica invece? Che rapporto hai? Come vedi e vivi il rapporto tra poiesis e riflessione filosofica?
La poesia è ciò che mi lascia senza parole, la riflessione filosofica è ciò che mi fa usare le parole. Dipende dai giorni, dai momenti, dagli attimi, … alcune volte alcuni fatti ci influenzano… noi pensiamo e ripensiamo e vediamo due vie di fuga: la poesia o la riflessione… se siamo capaci a unirle diventa espressione. Ho sempre avuto come punto fermo l’essere critico verso me stesso, alcune volte non so se la critica guarda, osserva, capisce o cerca di intuire, è una domanda che continuo a farmi.
Dieci anni di performance vengono documentati e raccontati in questa mostra You and myself. Di tutte quelle presentate, se dovessi sceglierne una e una soltanto, quale ha provocato in te il sentimento nobile e precario della vertigine?
In ogni performance cerco una caduta, cerco quella perdita di equilibrio che mi fa andare altrove, che mi fa andare talmente in alto fuori da me stesso e talmente in basso dentro che stesso, in profondità, e se “la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare”, io in ogni performance cerco la caduta della performance stessa, cerco la voglia di cadere per poter volare. D’altronde quando avevo 15 anni volevo fare il pilota di caccia. La vertigine più intensa l’ho provata con Time is Timing (2015), dove 300 sveglie suonavano a distanza di un secondo l’una dall’altra… alla fine tutte suonavano contemporaneamente, e io immobile al centro, paralizzato.
Mi ha incuriosita la tua passione e ammirazione per l’illusionista Harry Houdini, e sempre Luigi Meneghelli, nel testo critico, riferendosi a Sound of a charmed life realizzata nel 2010 a Praga, New York, Houston ti ha definito appunto come “fantomatico mago”. L’artista, e a maggior ragione quando esso diviene performer, è a tutti gli effetti colui che si fa beffa dell’osservatore? L’artista è sempre implicitamente un performer, anche non utilizzando la performance?
Mi piace Houdini perché lui sapeva come incatenarsi e sapeva sempre come liberarsi, in tutta la mia ricerca voglio fuggire da me stesso, voglio imprigionarmi e trovare una via di fuga, ecco perché uso la gabbia, che è si prigione, ma anche protezione e liberazione. Mi sento mago per questo motivo, voglio sempre fuggire dalla realtà, ma so che la realtà esiste. La realtà è ogni giorno, la mia vita è ogni giorno, il mio modo di esprimermi è ogni giorno, la mia mente è ogni giorno, il mio corpo è ogni giorno, l’altro è ogni giorno. L’essere o il sentirmi mago è il confrontarmi e vivere l’ogni giorno, è il rapporto continuo con l’altro. L’artista vive ogni giorno la realtà e cerca di fuggirne attraverso gesti, sentimenti, visioni o semplici segni. Per me fare una performance è cercare tutto ciò, per esempio quando ho fatto la performance Fantastic Planet nel 2016 , ripetevo all’infinito le parole Fantastic Planet, quasi fossi alla ricerca di questo fantastico pianeta… se esiste??? È un rito sciamanico, un gesto, un segno. Esiste?
Ritorniamo ai rapporti con i medium artistici. Sei un amante di cinema e letteratura? Suggeriscici un film e un libro. E con la musica? Una soundtrack per questa intervista?
Sono amante di tutto ciò che mi fa immaginare la possibile o impossibile esistenza di altri mondi, quindi guardo documentari, pochi film, tante interviste… leggo libri, ma mai partendo dall’inizio. Un film: Rat Race del 2001… superdivertente. Un libro: Lezioni Americane di Italo Calvino, ne ho 4, 5, sparsi nei vari studi. Ma anche Finnegans Wake di James Joyce. La soundtrack sicuramente è Too Much, è una canzone che avevo fatto sovrapponendo le 7 canzoni della mia vita, quindi la colonna sonora di questa intervista è la canzone della mia vita ( Eugenio Finardi sovrapposto a Michael Jackson, a Domenico Modugno, ad Aretha Franklin, a Gloria Gaynor, a Luciano Pavarotti e a Bob Dylan).
Gli Stati Uniti sono in qualche modo una terra d’adozione per te. Che rapporto hai con questo gigante dell’economia e della politica?
Era il 2007, stavo inaugurando la prima mostra negli Stati Uniti, da Barbara Davis, a Houston in Texas, avevo un grande sogno e avevo arruolato i miei Pony Express (la mostra si chiamava così)… messaggeri portatori di un messaggio. Di lì a poco, un mese dopo, mi trasferii a New York, me ne innamorai. Dopo anni considero gli Stati Uniti una seconda casa, ho la grande sensazione di un grande abbraccio, ho ossigeno che entra, certo è un paese molto complesso e difficile, ma l’importante è conoscersi per non perdersi.
Ultima domanda. Sei seduto su una sedia al tavolo di un bar di una città sconosciuta. Cosa vedi?
Ahhhh… è una situazione che mi capita spesso… Mi immagino seduto su una sedia gialla a un tavolino color legno in un incrocio tra due strade. Davanti a me persone che camminano che forse non rivedrò più, macchine che passano che forse non rivedrò più, cani che passeggiano che forse non rivedrò più, parole e discorsi di persone che non conosco, ma che mi fanno immaginare storie, …ahhh ma ricordo che ho già vissuto questo… ero in un’isola.

Federica Fiumelli