Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

giovedì 5 giugno 2014

One of my last articles on Wall Street International Magazine

Enjoy!
:)

Link:  http://wsimag.com/it/arte/9068-mp5

MP5

So deep, so dark...


MP5 Street Art
All around me are familiar faces
Worn out places, worn out faces
Bright and early for their daily races
Going nowhere, going nowhere
Their tears are filling up their glasses
No expression, no expression
Hide my head I want to drown my sorrow
No tomorrow, no tomorrow
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I’m dying
Are the best I’ve ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It’s a very, very mad world mad world

(Gary Jules, Mad World)
La sagoma di una donna bianca, con un buco al posto del cuore. E da questo foro sgorga in un flusso inarrestabile, dell’acqua, la stessa acqua nella quale la donna è immersa. No expression, no expression... gli occhi anch’essi fessure so dark, so deep, non sono che ombre, come il naso, i capelli e la camicia dalla quale la protagonista sembra spogliarsi per farci vedere.
Ma per farci osservare cosa? Questo sparo, ferita che è diventato vuoto e accesso di un flusso quasi inquinante. Come non pensare allora alla spersonalizzazione e all’inquinamento semiotico che oggi ci troviamo a subire? Come non ricordare i discorsi di Paolo Rosa nell’"Arte fuori di sé?". Quando l’artista fondatore di Studio Azzurro voleva farci intuire che il pericolo dell’anestesia dilagante è tra noi, e la paura di non riuscire più a sentire niente non è pura retorica.
MP5 street artist italiana, ma non solo, anche illustratrice e scenografa, animatrice e fumettista, ci ha regalato in occasione dell’edizione del Cheap Festival 2013 una sopraffina riflessione sulla società della quale portiamo le mutande, attraverso una serie di poster che avevano come soggetti uomini e donne alienate nel flusso di segni, segnali, informazioni, oggetti, stimoli, idee dei quali quotidianamente siamo sommersi.
Un’eccedere che porta a uno svuotamento. Un sentire che è congelato e sfondato. Con studi di scenografia per il Teatro all’Accademia di Bologna e animazione stop-motion alla Wimbledon School of Art di Londra, MP5 nel 2003 inizia a sperimentare la propria creatività attraverso la Public art, si concentrerà sulla street che la vedrà e la vede tutt’ora protagonista sul territorio europeo. Francia, Svizzera, Italia, Spagna, Germania, Crozia, MP5 lascia sui muri di questi luoghi tracce del suo immaginario calibrato da una cromia à plat, che si staglia tra il bianco e il nero in maniera prevalente. Il suo immaginario bidimensionale attinge dal mondo dell’illustrazione e del fumetto e i suoi personaggi sembrano tanti Donnie Darko alienati.
MP5 narra su grandi dimensioni, e fa del nero un prezioso amante che raramente può bandire all’angolo. Il nero è l’unico despota di questo multi verso. Un elogio al nero. Un nero liquerizia, notte, inchiostro, pece, grafite, petrolio. Un nero senza peso, ombra che delimita e contorna precisamente confini e corpi, volti o animali. Un nero che dà forma al suo opposto, a un bianco, stirato, teso, lavato, accecante, da cancellazione imminente. *The dark side of the moon... *attraverso un'inquietudine costante MP5 ci racconta storie, racconta a noi di noi.
Every year is getting shorter,
never seem to find the time
Plans that either come to naught
Or half a page of scribbled lines
Hanging on in quiet desperation is the English way
The time is gone the song is over,
Thought I'd something more to say…
Scene perturbanti, quasi angoscianti, apocalittiche, paurosamente noir. Scene epiche e ancestrali per il muro in Svizzera, "Minotaur or the red string of fate". Una chiaroveggenza bestiale vede il fato di un rosso vivido, che spacca, o macchia l’equilibrio di bianco e nero, diventando neo carico di sguardo. Un rosso fuoco che si traduce in “Full of fire” a Siviglia, dove un “Donnie” anonimo e spersonalizzato, sagomato, incendia tutto, e allora sì che le fiamme bianche assumono concretamente l’azione cancellante. Il nulla si manifesta anarchico e prende forma tramite l’apatia di un qualsiasi ragazzo con istinti piromani.
I fantocci si assoldano a bulloni, la meccanica sovrasta l’umano come in echi chapliniani l’uomo dei tempi moderni perdeva il ritmo biologico per assumere quasi come un contagio le leggi della produzione meccanica. Così dipinge MP5 in Croazia, sempre attenta all’uomo, all’ambiente e ai reciproci influssi che uno ha sull’altro. Nei buchi dell’esistenza ci sono anche quelli provocati da una pioggia nera e malsana, troppo minacciosa e incisiva per non potere farci i conti. Un’alluvione di colpe, una pioggia acida che si abbatte sui suoi fautori, disperati. Cosa ne è delle risorse in questo…mad mad world?
MP5 dipinge tubi, condotti, ma anche prese elettriche che si snodano come nervi scoperti su sfondi ecologici e troppo green come a l’Aquila. Contrasto e racconto, critica. Personaggi che si snodano nella solitudine del loro grottesco disagio, elevati a grandi icone postmoderne, ormai consce di una perdita di centro, di una confusione palpitante e di una difficoltà dell’esistenza e della definizione di genere che si annienta in fantocci esanimi e stereotipati. Vengono le vertigini a fissare lo sguardo interstiziale di questi popoli erranti (o errati?), precipizi bui, so deep, so dark. Pupi di un teatro di strada a cielo aperto che trovano l’elan vital in quel nero tra il fantastico e l’austero, going nowhere, going nowhere…
Federica Fiumelli














martedì 15 aprile 2014

Chiharu Shiota Silenzio e impossibilità


My Last article on Wall Street International Magazine

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/chiharu-shiota_20140412102706.html#.U02JwVV_s_c

Enjoy!


REPORT - Japan, Arte

Chiharu Shiota

Silenzio e impossibilità



Gli anni della storia sembrano lunghi e lontani, ma in realtà non sono che un soffio, e gli avvenimenti apparentemente dispersi in quella dimensione della storia che è il tempo sono in realtà vicini e collegati da quel misterioso robustissimo filo che è la memoria degli uomini.
Andrea Rossi, In nome del petrolio, 1986.

La prima volta che incontrai l’opera di Shiota fu alla Strozzina di Firenze in occasione della mostraFrancis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea. L’installazione pensata dall’artista giapponese classe ’72 si chiama In Between ed è secondo me, un titolo esplicativo, un titolo che contiene appieno l’essenza della poetica di Shiota. Nei lavori dell’artista è proprio “fra”, “nel mezzo” delle cose, degli oggetti ripetuti e riproposti più volte, che ci sentiamo spaesati e attirati nei mondi di memoria collettiva.

Percorsi perturbanti e quasi claustrofobici, fitti reticolati di fili neri avvolgono e si dipanano nell’ambiente, tessendo ampi circuiti, e dentro queste reti ecco che possiamo trovare porte, fogli, lettere o valigie. Trace of memoryLetters of the thanksOther side, tutto titoli che riportano in un altrove passato, quasi dimenticato, polveroso. Con le opere di Shiota ci si trova a diretto contatto con archeologie di memoria, archivi di oggetti appartenuti a chi sa quale ambiente, a chissà quale storia o persona.

Il nero travolgente, notturno, silenzioso, teso, dei fili che legano ricordi, è rigido ma leggero, riporta esattamente a un grafismo ipnotico e sofisticato di origine orientale. Quei fili neri sono tutte le parole disciolte nell’inchiostro che si fanno confini e tratti, lunghezze e ponti, una rete web che diventa fisica, interconnettendo accessi e oggetti-luogo che diventano mondi abitabili e inquietanti. Gli oggetti luogo, non sono che link abitabili dallo sguardo.

In Other side diverse porte, o di un bianco azzerante, o consumate e logore si presentano in successione, quasi interrogandoci, mettendoci di fronte ad una scelta; se tu voyeur disperso ti troverai davanti a uno di questi varchi avrai il coraggio di tirare la maniglia e spingerti al di là? Avrai il coraggio di tuffarti in un ginepraio infinito di trame, di legami di relazioni, di incontri? Avrai il coraggio di mischiarti nell’impatto con il disordine? Di entrare nel sottobosco dell’anima delle cose? Cosa non sono queste fitte trame nere di fili se non la vita stessa, se non la difficoltà e l’intreccio che ci mantiene collegati tra il mondo e la memoria?

Nell’arte di Shiota viene resa plastica una concezione fenomenologica di matrice, husserliana, la relazione e l’esperienza con e del mondo è messa al centro della riflessione artistica. Over the continent, presentata al National Art Center di Tokyo nel 2013, vede partire da un piccolo e microscopico punto una quantità fluttuante e pulviscolare di fili rossi che si dipanano nello spazio, ciascuno legato, o meglio ancorato a una moltitudine di scarpe di donne, uomini e bambini. Oltre i percorsi, i continenti, i confini geografici, questi astronauti, o esploratori distratti, sono i nostri antenati, sono tutti o nessuno, siamo noi, o saranno altri, cono essenze assenti ma presenti nello spazio della memoria, sono percorsi stati o da compiere. Sono passi in più, nell’avanti della speranza, una tensione, una spinta verso l’oltre, ma legati a un rosso del tempo battuto e trascorso, di un tempo accaduto e tinto con il tono del sorgere più acceso.

Over the continents però appare anche come un monumento funebre, una catalogazione di vittime, un’enumerazione macabra; vittime di violenza, solitudine, abbandono, guerra? La morte giace nel ricordo teso del filo rosso. After the dream mantiene un tono inquietante e onirico, surreale e fantasmagorico, lunghe vesti pallide diafane ed evanescenti fluttuano nello spazio di labirintiche diramazioni filose. Smaterializzate e terribilmente vuote, tunnel di lattea memoria. Appartenute e abitate da chissà quale corpo, anziano o giovane, chissà quale pelle ci scivolò all’interno e perché, e dove…

Silenzio e impossibilità, in un concerto solistico, immobile e danzante nel tempo, In silence, il pianoforte e la sedia sono prigionieri, sono ostaggi di un suono in decadenza; atonale e disperato, il flusso materico dei fili è un pentagramma infranto, (note spezzate e disperate, deserte, filacciose) nel quale la luce non può che filtrare ostacolata. Gli oggetti di Shiota ci lanciano un appello nello spazio dello sguardo, chiedono quasi di essere raggiunti per essere salvati, per non essere dimenticati si circondano di neri nostalgici e puri, asettici, simmetrici e stratificati. Sono oggetti stratificati dal passaggio di sguardi e ricordi, caricati all’ennesima potenza di un isolamento forzato, sono rinchiusi nella loro presentazione come scrigni trasparenti. Questi fili infiniti danno quasi fastidio, bloccano il respiro, ostacolano lo sguardo, intrappolano e sembrano risucchiarti, sembrano espandersi come virus contagiosi.

Shiota accumula e ripete, a volte distrugge bruciando come in Waiting del 2002, un agglomerato di sedie a cui dà fuoco, ma dà fuoco anche a pianoforti, ed ecco che tra le accumulazioni e le distruzioni si annida intrepido il ricordo di Arman, e ci viene riproposto un nouveau réalisme tessuto ossessivamente. Un'eco. Il tratto dei fili infinitamente neri di Shiota si scagliano nello spazio in maniera divisionista rendendo vibrante e infinitesimale l’atmosfera, sporcandola quasi. Cosa starà guardando quella donna dalla schiena neve e nuda, spoglia e isolata dalla finestra? La chioma scura muliebre prende vita in un fitto reticolato che si espande e srotola nell’ambiente. Una femminilità ragno che dà le spalle e proietta la visione nell’asettico altrove riscritto da quei tratti di inchiostro filamentoso.

Gli ambienti di Shiota possono diventare anche scenografie abitabili, dove i corpi rimangono appesi e sospesi atarassicamente, come Matsukaze il lavoro per il Théâtre Royal de la Monnaie, a Berlino. Epifanie mistiche e corporee. Cercando una destinazione, collettivamente, con le più disparate valigie con dentro ogni sorta di ricordo, di souvenir (come nell’opera Accumulation-Searching for the destination), l’esperienza della memoria si fa concreta, e siamo pronti per partire nella moltitudine di visioni, che si fanno salto nel vuoto, da cornici-finestre (come nell’opera A room of memory) in cui quello che è stato e quello che sarà si confondono.


Articolo di:  Federica Fiumelli














Il Tè dei Matti @SpazioSanGiorgio, Bologna

Lorenzo Guaia artist
dal 22 Marzo al 30 Aprile 2014



“Ogni tazza di tè rappresenta un viaggio immaginario”
Catherine Douzel
Tè nero, verde, bianco, giallo. La bevanda che porta dietro l’aroma dell’antichità si racconta già di per sé attraverso i colori.
Colori che sanno di follia, riflessione e incontro come anche Carroll descrisse nel tè dei matti tra il Cappellaio e Alice.
Legata a civiltà orientali questa pianta magica ha ispirato il lavoro dell’artista Lorenzo Guaia che ne fa ossessione materica e grafica.
L’artista unisce la fisicità consumata della bustina da tè alla sua rappresentazione simbolica.
I lavori di Guaia consistono in tavole di legno pressoché quadrate, rivestite con decine di bustine di tè, raggrinzite, stropicciate dal tempo, dall’ocra al sabbiato all’argilla, dal marrone chiaro allo scuro fino ad un rosé sfumato, i colori formano un tappeto surreale e tattile, come un sottobosco fatato.
Ogni filtro rappresenta un preciso momento di vita, di giornate timide o memorabili, attimi di vita quotidiana. Opere che diventano così ritratti e autoritratti aromatizzati del tempo, che profumano di istanti vicini o lontani.
L’artista elegge i filtri a cellule di vita bevuta, o a pixel quadrati e medievali come frati cappuccini avvolti nel loro saio, le opere diventano così mosaici di visioni al tè.
Il profumo degli infusi, imprigionato per sempre nelle bustine, apre immagini e sensazioni trasportando gli occhi, la mente e i ricordi in spazi speziati e lontani. La bustina diventa così attrice della scena pronta a spostarsi, stringersi, piegarsi appena per lasciarsi delicatamente dipingere.
Le tazze di tè, protagoniste indiscusse dei lavori di Guaia, sono bidimensionali, iconiche, stilizzate e simboliche, dal sapore pop ma senza alcuna prepotenza espressiva. Il supporto rende il soggetto soft ed elegante, non invasivo, estremamente educato.
“La filosofia del tè è igiene perché richiede la più rigorosa pulizia; è economia perché dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nel complicato e pretenzioso; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto tra i nostri sentimenti e l’universo.” 
Così scriveva Okakura Kazuko, nel “Libro del tè” nel 1906. E ancora:
“Il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè e neppure la leziosa innocenza del cacao.”
Le grandi e robuste linee di contorno rosse o nere delineano prepotentemente la tazza custode di tè bollenti o raffreddati, in attesa di essere sorseggiati da labbra sognanti, sospese in chissà quale luogo, sembrano fluttuare sulla loro stessa materia, il bianco della porcellana prende così vita tra le rughe, cime e angoli dei filtri. Probabilmente Tien Yiheng aveva ragione nell’affermare che “Il tè si beve per dimenticare il frastuono del mondo.”
Filtri vintage di una memoria collettiva e singolare.
E ancora tazze capovolte e antigravitazionali volteggiano, tazze ribaltate o quasi speculari, un teatrino di composizione silenzioso e immobile nella rigidità del tempo.
Linee di confine si adagiano sul corpo sinuoso delle bustine tracciando confini metafisici e immaginati davanti al fumo bollente e nebbioso di un tè.
Ma ecco che talvolta su quel confine alla deriva, dalla terrosità dei filtri nasce con grafismo vagamente orientale e leggero, un lucido e nero albero, foglioso ed etereo, evanescente e decorativo, sospeso come i sogni nel profumo di un tè.
Il viaggio di Guaia è delicato, in punta di piedi, tra aromi funambolici e sospesi, quasi con il timore e la paura come Sydney Smith scriveva: “Che la creazione possa finire prima dell’ora del tè.”
Federica Fiumelli  



domenica 30 marzo 2014

Incontrandosi nelle curvature. Villanueva e Mapplethorpe.

Ultimo articolo su Frattura Somposta!

(www.fratturascomposta.it)

Enjoy!

:)






Incontrandosi nelle curvature.
Villanueva e Mapplethorpe.

Il mio sguardo cadde in una centrifuga pallida, troppo bianca, accecante, azzerante, una cancellazione. Tutto spariva nello stesso momento in cui l’occhio vi si posava distratto.
I faretti luminosi amplificavano quel “white” inglobante e trasbordante, latteo, imparziale, neutro, stavo passeggiando ad Arte Fiera quando mi sono imbattuta nei lavori dell’artista spagnolo Santiago Villanueva.
I lavori esposti sono del 2011 “Series Touch Therapy”, dei senza titoli completamente bianchi, lucidi, smaltati, che risucchiano per l’alta tattilità che invocano sussurrando, si, perché sono incredibilmente leggeri e anacronistici alla vista, e invogliano, provocano gentilmente, hanno voglia di essere toccati.
Villanueva riesce a sfruttare il formato standard della tela, l’oggetto più usato e manipolato nella storia dell’arte, ma la riveste di fredda e lucida plastica contemporanea, mischia storia  e futuro, scolpisce la tela, facendole colare addosso materiali come polistirene, vernice e vetronite.
La produzione artistica di Villanueva dal 2008 al 2013  vede una ricerca stremante verso la purezza tridimensionale delle forme, una lucidità erotica e sublime, apostrofo di un’atmosfera metafisica. I colori usati sono appunto lucidi e monocromi, dal bianco al nero, al blu, al rosso, tonalità cromatiche specchianti, offrono una realtà speculare distorta e scivolosa.
Gocce filanti e eterne cadono dal soffitto e sotto la loro rotondità ecco contrapporsi una cumulo di polvere bianca. Compatezza e scomposizione si trovano contrapposte ma tonalmente in armonia. Tutto è cancellato tutto è ancestralmente concepito. La grande goccia ricorda il latte materno uscente dal seno, o il liquido spermatico, sostanze vitali in grado di generare vite. Vite che in Villanueva sono armonie composte ad hoc, la formalità, ma ancora di più la materia eccede in ogni curva o colore.
Forme disciolte e bloccate per sempre, dinamismo e staticità unite nel soffio vitale della scultura plastica e lucida che riflette distorta lo sguardo.
La serie esposta ad Arte Fiera, rapisce per le pieghe indiscrete che la tela concede a noi voyeur. Non si spoglia, è timida e fiera, come una donna al primo amore, è vergine, è pura, troppo eterea per essere macchiata da qualche rammarico imperfetto.
Le onde, le increspature sono ai margini, outsider informi che si riposano su loro stessi, stropicciature di un pugno su qualche letto disfatto, rievocano alcuni panneggi di una grecità remota. Ricordano anche i panneggi delicati e soavi di Canova, di Psiche qua non è rimasto che la piega distratta, al quale la bellezza è rimasta aggrappata per sempre e poi basta. Le tele-scultura di Villanueva, emanano anche un forte senso di interruzione, un’interruzione armonica, nell’oceano monocromo e piatto della tela bianca che improvvisamente verso la cima o l’angolo infondo trova irrequietezza increspandosi improvvisamente. Un cambio di rotta, una virata, verso una voglia stropicciata e scremata.
Avvicinandosi all’opera e osservando attentamente le onde, ci si perde in quel mare di lattea memoria, i ricordi scivolano nell’orgasmo freddo dell’abisso, e in una colata di neve, qualcuno sembra gridare sofficemente: “
sono qui, nascosto tre le linee curve di un passaggio. Sono qui per ricordarti di quanto sia morbida una pelle un freddo inverno, o di quanto sia caldo sciogliersi nell’estasi di un sogno vellutato.”
Tra le righe perse di un marmo si assaggia la freddezza di un liscio tormentoso.
E in questo erotismo congelato ritrovo per caso la glaciale compostezza formale delle muscolature impresse da Robert Mapplethorpe.
Chi meglio di lui nella cultura underground newyorkese anni ’80 seppe coniugare alto e basso? Pornografia e nudo, il tutto con un taglio impeccabile, una purezza formale e una prospettiva implacabile? Quanta grecità classica in alcuni scatti fotografici? Quanta proporzione e grazia in enormi falli in primo piano? Nervature che scivolano lente nello sguardo, con sobrietà. Muscolature che diventano seconde pelli, e secondi panneggi.
Schiene, cosce, glutei, piedi, ginocchia, ogni incontro nel corpo è armonia e linea, il muscolo diventa pura forma, e la linea di una gamba è un grido nell’infinito.
Mapplethorpe cancella e azzera volgarità o impurità, tutto è calibrato ed equilibrato.
I corpi sono liquidi freddati, curve su curve, paesaggi quasi metafisici.
Come non ricordare anche i bellissimi fiori? Immortalati in bianco e nero, esprimono  il loro erotismo attraverso i petali sinuosi, pieghe d’amore, una sensualità trasbordante da ogni pistillo che diventa per l’occasione un ipotetico fallo.
Le curvature dei petali divengono così panneggi di un tempo perduto, la natura è uscita da sé per svestirsi di candidi panneggi.
Villanueva e Mapplethorpe in maniere diverse incitano in noi la tattilità, propongono uno slancio a toccare quelle curve, quei corpi, quelle insenature profonde e vorticose, invogliano a perdersi tra le loro forme collinari e perfette.
Vogliono essere toccati…ce lo sussurrano.
Paesaggi corporei e paesaggi materici attraverso i quali o sguardo non può che correre perdendosi leggiadro nel soffio vitale della forma.
E’ un naufragio erotico, continuo e armonico.
Qualcuno sembra sospirare: incontriamoci là nell’infinito di quella curvatura, scivolando lentamente.

Federica Fiumelli