Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

sabato 15 giugno 2013

A Lot of Art! (testi critici come se piovesse)

Come scritto nell'altro post, l'assenza di un anno dal blog è dipesa da tante nuove stimolanti collaborazioni. 


                   (tantatantagioiaperlenovitàetroppopocotempopertutto)



Come promesso, ecco un pò di testi critici delle mostre alla Galleria d'Arte Contemporanea Spazio San Giorgio di Bologna (www.spaziosangiorgio.it) per scoprire tanta nuova arte. 


#comeimpiegaretempoinmodoterapeutico





NEW YORK LIGHTS

Immaginate le note sobrie e jazz di “Rhapsody in blue”, di colpo vi troverete sull’isola che galleggia sulle acque come un iceberg di diamante per dirla alla Truman Capote. 
“New York, New York, I wanna wake up in the city that doesn’t sleep” qualcuno canterebbe. 
Qualcun altro invece decide di guardare la Grande Mela dal tramonto all’alba, un artista, un uomo, un nome, Buli. Fissando le atmosfere in delicati acrilici su tela, le pluralità di luci si fanno protagoniste e diventando preziosi gioielli custoditi gelosamente da palazzi e grattacieli newyorkesi che si imbellettano per notti a ritmo di buon jazz. 
E poi ancora, gli occhi dell’artista ci introducono in punta di piedi in angoli di appartamenti dal design lineare e variegato. Si possono scorgere anche importanti echi iconici come il peluche disneyano Mickey Mouse e la serigrafia celebre, Flowers, appesa, di Warhol. In qualche appartamento di Manhattan vi abita un amante del pop. Chi sia non si sa. Buli ci offre visioni strappate ad attimi fotografici. 
Il Festival Notturno di New York offre una mineralogia titanica, infinita stratificazione prismatica di fiumi di luci come scrisse Le Corbusier. 
Buli ci regala quindi dei notturni freschi, di un chiasso sordido che richiama i colorati e piumati uccellini contrastanti i signoroni di cemento. 
E poi la bellissima dicotomia tra le forme scure e sinuose di Central Park che incorniciano e abbracciano gli skyline-diamonds newyorkesi. 
E ancora, le grandi finestre in stile Hitchcock ci offrono una porzione visiva da invisible voyeur, scorgiamo le altre vite e forse anche le altre vite si accorgono di noi, di un qualcuno che ha lasciato distrattamente o ricercatamente una sigaretta accesa su un sensuale portacenere rosso, il fumo si mescola alle luci bianche, tutto è completamente evanescente così che la bidimensionalità acquista valenza estetica. Perfino le pubblicità sembrano fluttuare nel dark body newyorkese. 
E se la luna fosse uno spicchio di limone? I grattacieli illuminati allora potrebbero essere giganti drink futuristici, sorseggiati da qualsiasi persona, perché tutto può succedere a New York. 
E dopo i fasti notturni, timida, spunta l’alba e l’atmosfera cambia registro, gli ambienti si colorano di grigi e bianchi, luci e ombre tracciano profili sulle nevi bianche di Central Park. 
Poi l’alba sul Manhattan Bridge sembra catturata da un fotogramma di Allen profumando quindi di nostalgiche pellicole cinematografiche. 
I cigni a Central Park si specchiano in riflessi gelidi, spicchi frastagliati e speculari bloccati nelle onde, se ne stanno adagiati in un altro tempo, che si discosta dalla notte sfavillante e si sfuma come leggere piume in un’alba della città che non dorme mai, aggrappata ai sogni. 


Life is Honey
 Alessandra Maio Artist 


I lavori della giovane artista, che utilizza semplici supporti come piccoli quaderni di scuola, blocchi da disegno e fogli di carta, ci introducono al mondo di insetti, farfalle e pesciolini. 
Soggetti apparentemente semplici ma che, se osservati con cautela, ci appaiono come una fitta rete di frasi ossessive e ripetitive, gli esoscheletri. Le forme portanti di questi disegni sono grovigli infiniti di concetti e di frasi che vogliono essere urlate ad alta voce, da outsiders del mondo natural-vegetale. Quanto orrore per insetti e vermi! 

E invece ecco che, con una speciale lente di ingrandimento, scorgiamo la parola che da noumeno si fa fenomeno, la grafia trova spazio fisico e da concetto si impone con valenza plastico-visiva nell’ambiente bidimensionale della carta. Leggendo le frasi che compongono questi animaletti, ci accorgiamo che provano le nostre stesse sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti. Come il bruco, che oggi si sente proprio un verme, ha fatto un errore, lo sa e ci sta male, il grillo che ci rassicura di non aver grilli per la testa, o la sardina che si sente un pesce fuor d’acqua. 

Alessandra Maio diventa coreografa e dirige la scrittura come un corpo danzante, matissiano, in cerchio, compatto, lineare, che si abbraccia, si infittisce, si lega, tessendo il flusso torrenziale e rinnovabile dei concetti. 

Le immagini firmate Alessandra Maio indossano parole, frasi, divenute unità, pixel all’Apollinaire. 


WELCOME MR. SFIGGY!
Alessio Bolognesi Artist

Voilà, Madame et Monsieur ecco a voi, misteeeeer Sfiggy! 
Eccolo lì, un esserino totalmente bianco, quasi un eraser cromofobo, il total white è la sua miglior veste, occhietto vispo a puntino, sorriso sghembo e sadico. 
Protagonista di innumerevoli vicende, who is Mr Sfiggy? 
A volte capita che sia tagliato, sgozzato e ferito, alcune cicatrici ornano l’ometto, e ricucito e riassemblato a dovere è pronto a cancellare chi non gli gusta affatto. 
In quanti guai si caccia Mr Sfiggy! Antieroe neopop, gioca a fare il Corona tra le sbarre di un Mondrian, teppista fino al midollo (ammesso che ne sia dotato) utilizza i tanto amati Campbell’s Soup Warholiani per i propri bisogni, una vera operazione da pop Piero Manzoni, non a caso sembra proprio aver preso vita dagli achromes dell’omonimo artista. 
Ma non finisce qui, il birbante Sfiggy spezza i cuori delle donzelle cartoon di Lichtenstein, minaccia con una pistola i figurini colorati di Haring e urla disperato sotti i cieli espressionisti di Munch, si incorona e fa arrabbiare un Basquiat. Bullo da periferia, Sfiggy è un qualunque, è tutti e ognuno, anonimo ma presente, un po’ bad boy, si diverte a intrufolarsi nella storia dell’arte e stravolgere i piani. 
Ed eccolo entrare con poca discrezione nelle celebri locandine del maestro italiano Antonioni, Blow up? Meglio Splaat Up! 
Infatti non finisce qui, eccolo in preda a una furia omicida assalire la gattina patinata amica di tutte le bambine, con pugnale affilato colpisce Hello Kitty, e non poteva appunto mancare il dettaglio splatter di una bella fuoriuscita di sangue rosso vivo. O ancora, decide di arrostirla su un falò, in una notte stellata, ma qui Van Gogh e le sue onde centrifughe non c’entrano, a Sfiggy piace tormentare non essere tormentato. Sfiggy è anche un cinefilo vanitoso e narciso, tanto che si impossessa di alcune scene cult per diventare nuovamente l’antieroe, come quando minaccia sempre Hello Kitty sul vascello dei Pirati dei Caraibi, o nelle nuove tele come Luke Sfiggywalker oVengono fuori dalle fottute pareti, uno Sfiggy eccentrico e pericoloso, amante della reinterpretazione in chiave diversa delle proprie pellicole preferite. Ma la lista dei crimini e lunga i cartoon hanno poca salvezza, da Hello Spank a Pikachu a Bugs Bunny e compagnia bella, a Pimpa a pallini, per finire a festini di coca nell’Olimpo con Pollon, e sembra proprio di sentirla cantare: “sembra talco ma non è, serve a darti l’allegria.” 
Mr Sfiggy, è il prototipo del vizio giovanile, del guaio, dell’illegale, del chissenefrega e basta, che tanto in questa società anche se se ne parla male, l’importante è che se ne parli. Senza regole ma con simpatia, è il vero must. 
E se tutti in futuro saranno famosi per quindici minuti come aveva previsto il padre della pop art, Sfiggy fa di tutto per accaparrarsi un posto tra le prime pagine, un Roberto Succo della cronaca italiana degli anni Ottanta, latitante e serial killer spietato. 
La serie S-Files propone una gamma di seducenti, sensuali, corpi femminili, sinuosi, dagli sfondi colorati, le ragazze sono sagome, protagoniste incontrastate di chissà quale amore; Lara, Sara, Vane, Vale, Giuly, l’appello della seduzione continua, e le donne mostrano tra seminudità e ammiccamenti, vari Sfiggy tattoos, ormai custodi di una parte della loro pelle, appaiono lì, come simboli di antimoda, perché Sfiggy è sempre anti, e un tatuaggio anche da trend, rimane per sempre, nonostante i cambiamenti del fashion system. 
L’estro creativo di Alessio Bolognesi da forma a una figura interessante, incarnante il lato oscuro che appartiene un po’ a tutti, Sfiggy con tratti lineari tra il bidimensionale e il tridimensionale si diverte a dare sfogo all’istinto primordiale represso, al thanatos Freudiano. 
Con acrilici colorati da pop killer professionista, Bolognesi ha sublimato la propria passione per la creazione in un famelico alter-ego simpatico e maldestro, libero da costrizioni e per questo sincero. 
Con un drink che sa di mortifero e ironico, brindiamo a Mr Sfiggy! 
PS: Se siete dei cartoon state molto attenti, perché se hanno ucciso l’uomo ragno e chi sia stato non si sa, per gli altri il crimine ha un volto, quello di Sfiggy. 


IL VOLO
Raffaella Rosa Lorenzo Artist 

(Questo testo critico è presente anche sul sito dell'artista www.raffaellarosalorenzo.com)

Le bellissime installazioni di farfalle in PET, che hanno trovato un ottimo riscontro anche all’ultima Biennale di Venezia, conquistano da subito lo sguardo dello spettatore per la trasparenza, la leggiadria, il riciclo ingegnoso di un materiale come la plastica delle bottiglie. 
Le farfalle di Raffaella sono sinfonie sordide e libere, leggere e delicate. Come Michelangelo che dava vita alla scultura dal marmo liberando la statua dal blocco materico, Raffaella Rosa Lorenzo libera tante farfalle dalla plastica che altrimenti andrebbe dimenticata in qualche rifiuto. 
La farfalla da sempre metafora di libertà e trasformazione, rappresentazione dell’anima e della condizione spirituale più alta, si fa concretezza plastica assumendo una valenza estetica affascinante e importante grazie al suo riutilizzo. 
L’artista fa nascere ogni farfalla, ognuna uguale a sé stessa, ognuna diversa per venature e modellature, donando vita alla materia di cui si compongono le bottiglie. 
È il trionfo della primavera, è il trionfo sensuale delle Veneri, farfalle, anime libere che viaggiano come fantasie, che siano i cuori volati via di tutte le donne del mondo? 
Ricami di pet eleganti e originali, la Rosa Lorenzo, sa coniugare dimensioni antitetiche, unendo lo spirituale all’icona pop, il naturale al plastico, il trascendente con l’oggetto. 
Il bruco bottiglia attraversa la propria metamorfosi kafkiana per elevarsi, per divenire altro, per sublimarsi con grazia. Il salto alla bellezza che cattura l’equilibrio del tempo e del coraggio di chi osa cambiare. Il divenire materico, di colore e di forma è quindi punto cardine nelle sculture plastiche di Rosa Lorenzo. 
L'artista presenta inoltre i suoi lavori su tela, convogliandoci nell’astrazione e stilizzazione delle forme della natura con fiori filamentati, pastosi, tra un Pollock per l’impatto materico, con un tocco art nouveau per la scelta tematica e naif. 
Ed ecco che i gambi dei fiori si infittiscono diventando tessiture di un bizzarro couturier , quasi ossessivi e moltiplicati, i gambi si ergono, si slanciano verso l’alto ponendo il bocciolo rotondo e colorato come uno sguardo sul mondo, come i colli lunghi di Modigliani sono ponti sull’altrove. 


IT'S A VERY QUACK WORLD

LUIGI LEONIDI Artist

Chissà se Walt Disney quando negli anni trenta creò il famigerato papero più sfortunato al mondo, immaginava lontanamente che qualche decennio più tardi, negli anni duemila, un artista bolognese, dal nome Luigi Leonidi avrebbe dato nuove forme e storie a Donald Duck. 
Ed ecco che nelle tele firmate Leonidi, sbocciano ritratti di paperi retrò dal sapore malinconico dove il papero mostra una pettinatura e un abbigliamento d’epoca, protagonisti di ritratti d’antan, ingialliti, dal profumo storico, protagonisti di un film muto. 
Fantastici oli su tela, che rendono un aspetto laccato e smaltato. Gli occhioni dei paperi sono grandi, giganti, sgranati, sempre aperti sul mondo circostante, sono veri e propri universi paralleli e mondi incontaminati, spauriti, di chi ha mille interrogativi per la testa, ma di chi è troppo pigro per risolverli. 
“To be or not to be”...echi amletici affliggono il povero papero ad olio con in mano la bottiglietta di diluente. Sparire o continuare a occupare tele e ancora tele? 
Nonostante l’aspetto disorientato e malinconico del protagonista piumato, le opere di Leonidi ci lanciano sarcasmi simpatici, accanto allo sguardo strabico del papero compare la scritta: con riguardo. Sarà poi possibile guardare in due direzioni contemporaneamente? Le domande aumentano. 
Ma chi siamo noi veramente? Chi si cela davvero dietro l’icona? E d’icona si continua a parlare... 
Paperino si interroga sulle sue vere origini, e con sguardo sbarrato e laterale guarda ritratti di altri paperi dietro di sé, una filologia ritrovata tra i possessori del becco. 
Oppure, con l’immagine del papero penitente e carcerato, si guarda allo specchio e prova a ritrarsi con una matita sul muro, ricordando l’antichità di quando l’uomo attraverso l’ombra tracciava il suo profilo, o attraverso l’acqua scopriva se stesso. Ma qui nessuno vuole Narciso. Gli specchi dovrebbero soltanto mentire di più in alcuni casi. 
“I am, I’m not” ...il papero è atterrito, quasi sgomento, afflitto da questa cosa chiamata esistenza. 
Ed eccolo chinato, ritirato nel dolore, su un necrologio che si scopre essere una gigante gomma (quasi alla Oldenburg), che tutto stia per essere cancellato? O come declamava l’immenso Carmelo Bene, noi, alla fine dei conti non esistiamo affatto? Che tutto sia alla fine cancellazione dell’io? 
Poi il diluente si ribalta, scivola addosso al nostro protagonista, sciogliendolo piano piano, che sia la fine? O soltanto cancellazione per un nuova creazione? 
Che lasci veramente trionfare la specie qualunque, quella che non si interroga e resta anonima, sadica e festosa? 
Tra tortuosi dilemmi e ironie sprizzanti Donald Duck ci appare sotto una forma diversa dal solito sfigatello, con una coscienza troppo cosciente, un esistenzialismo stravagante che ci fa riflettere. 
Una cosa certa è che la tecnica ad olio usata da Leonidi è molto ben fatta, l’artista ci regala dei Paperi che sembrano uscire dalla tela, con i volumi e le ombre, con i grandi bulbi oculari, e ambienti e oggetti, da iperrealismo magico, o meglio pop. 
I paperi di Leonidi sono più veri del vero Donald Duck e fanno sorridere lo spettatore con amletiche sfortunate situazioni. 
Essere o non essere. Questo è il problema.. qua(ck)!. 

EatArt

dal 01/06/2013 al 22/06/2013


Ancora in corso!!!!!! @Spazio San Giorgio_Bologna

Stay Tuned :)


 



Amore e Psiche, il sole e la luna, Fred Astaire e Ginger Rogers, e poi arte e cibo. 
Grandi coppie d’amour fou, legami sottili che intrecciano anime complementari. 
"Solo gli imbecilli non sono ghiotti... 
si e' ghiotti come poeti, si e' ghiotti come artisti ... " Guy de Maupassant 
Siate ghiotti dunque, affamati e folli come affermava anche Steve Jobs che non a caso scelse una mela morsa per rappresentare quella che oggi è diventata una delle industrie tecnologiche più grandi al mondo. 
La storia tra arte cibo si perde dalla notte dei tempi, già nei reperti dell’antichità, scene di banchetti erano raffigurate; il momento di mangiare è il momento della condivisone, un vero e proprio rito sociale. 
Appagare i sensi, il gusto e lo sguardo con la bellezza. Questo il dogma. 
Ed ecco nella mente un negozio di spezie, l’odore del caffè, o una cioccolateria, sapori, aromi, gusti che possono essere paragonati alla bellezza di un Tiziano, di un Preraffaellita o di un Picasso, dove colori e forme si perdono con il tempo. 
Atelier di pittura o di cucina che importa? Ci troviamo pur sempre davanti a piccoli universi provocanti, mondi capaci di risvegliarci dal torpore dei sensi. Cibo e arte come rituali e teatri dell’uomo. Quanti quadri pervenuti a noi dalla storia ci offrono scene di cene, pic nic, caffetterie, boulevard o scene di gola, dove il peccato capitale incarna il vizio nelle rappresentazioni pittoriche del Giudizio Universale. Il cetriolo di Crivelli, famoso tromp l’oeil che sembra uscire dalla tela per invitarci a toccarlo e gustarcelo, Leonardo con l’ultima cena, Monet con Le Dejeuner sur l’Herbe, le nature morte seicentesche di pesci e carni esposte e aperte alla luce del sole, come dimenticare la macelleria e il mangiatore di fagioli di Carracci? O i mangiatori di patate di Van Gogh? O ancora il mangiatore di ricotta di Vincenzo Campi? 
Buon gustai, goderecci, amanti del cibo di un tempo che fu, ma anche cene come rituali, momenti di condivisione importanti nell’immaginario di popoli e religioni. 

Le fantastiche composizioni di Arcimboldo non sono che l’incarnazione dell’idea del cibo come soggetto ad arte, l’arte culinaria che dal passato ad oggi guadagnerà sempre maggiore importanza anche nel mondo del lavoro e dell’industria, con grandi catene di ristoranti, e grandi chef. Dai banchetti medioevali negli anni cinquanta si passò ad incollare i resti del pranzo o della cena sul tavolo per poi diventare vere e proprie opere d’arte, Spoerri ne fu l’esempio lampante con i suddetti tableaux piege. Ecco che il cibo sfonda la pittura e diventa ready made duchampiano diventando primo attore a tempo pieno, la mela di Magritte squarcia la tela come il caro Fontana e diventa realtà, entra in scena. 
E oggi? Dico, proprio oggi oggi, negli ultimissimi anni, gli artisti contemporanei come guardano il cibo, come lo pensano come ce lo propongono? 
La mostra EatArt propone un menù particolare, una collettiva di sedici artisti che si dilettano nelle varie espressioni artistiche, con un unico interrogativo e scopo, dare forma a un concetto, un pensiero sul ruolo del cibo nel contemporaneo. 
Una rosa di nomi interessanti che ci propone uno sguardo delicato sull’oggi. 
Se il sushi, oggi vero food trend, diventasse un simpatico protagonista nelle stampe pulite e minimali, semplici e simpatiche di Stefano Perrone – Mi Suishido? 
Se una cornice dorata dal profumo seicentesco diventasse un piatto su cui gustare creme e dessert che diventano colori come sulla tela, come nel lavoro di Alessandro Castiglioni? 
O ancora le installazioni di Melania de Leyva con una simpatica riflessione manzoniana su una delle catene più famigerate del globo, from Mc Donalds to McSheet. 
Ma anche una melanzana può diventare di un viola sensuale e ammiccare ad essere una musa, come negli acquarelli di Rakele Tondini, che sia geneticamente modificata come le show girl che oggi ci propina la tv? Ai posteri l’ardua sentenza. 

Ed ecco una mela protagonista di un teatro esistenziale, non potrà o non vuole più dare piacere, così una corda d’impiccagione cala tristemente sul frutto, Biancaneve non vuole più saperne e forse neanche casa Apple, così il soggetto fruttato di Serena Barotti ci costringe a riflettere sul senso della precarietà del gusto e dell’importanza alimentare, dei problemi che possono costellare l’atto del mangiare. 
E poi i pesciolini super colorati e cartoon di Yux, dal grafismo irrequieto, quasi fanno la linguaccia a Nemo. Ironia e pop mescolati a dovere con i maialini volanti, nel volo dell’insaccato che dorme 
Nella pittura pastosa di Ian Woodard un uomo sta per mangiare una mela rossa, i soggetti si stagliano su sfondi neutri, escono da palati anonimi e ogni piega o riflesso è resa da un cromatismo ben calibrato. L’intransitività della mela è ben raffigurata, la rossa sta per essere mangiata, e il signore sembra ben compiaciuto dell’ etre en train de le faire. 
E poi le fotografie di Ilva Beretta, Clara Bigaretti, Francesca Brambilla e Serena Serrani, Wanda D’Onofrio, Davide Dutto, preziose still lifes di variegati cibi, differenti sguardi, inclinazioni, posizioni, differenti luci, posizioni e ombre, diversi tagli e messe a fuoco, diverse ottiche a confronto rivolte alla caducità dell’alimento e del gusto. L’interessante confronto di presentare piatti che troveranno attimi di eternità nell’universo fotografico, la prigionia di gusti e profumi intrappolata nell’essenza del fotografico, per sempre. 
L’affascinante concetto di possedere visivamente ciò che non può durare, ciò che si consuma attraverso i sensi. 
E ancora il menù della mostra si srotola con le fotografie caravaggesche di ombre e luci di Sergio Maria Corazza, le nature morte paradossalmente ritrovano l’eternità. 
E poi Sofisticazioni Alimentari, i frutti, le verdure, il pesce o le uova proposte da Emiliano Zanichelli sono scomposte ma riunite da operazioni chirurgiche, sono piccoli Frankenstein dall’alimentare, sono piccoli mostri artificiali, geneticamente modificati, riassemblati da un pazzo chirurgo o chef. Sono il nostro sfortunato prodotto, ma non siamo coscienti spesso delle nostre responsabilità. Cosa mangiamo veramente? 
La realtà è che guardiamo ma non vediamo, non ci interessiamo a fondo del mondo alimentare, non ce ne prendiamo cura, non abbiamo cura di noi. 
Ed ecco che con questi scatti viene amplificato l’invisibile, viene messa sotto lente di ingrandimento la nostra mancanza di attenzione e ricerca nei confronti del benessere alimentare, e tutto ciò si manifesta in quei tagli ricuciti, in quei prodotti rifatti, in quella food surgery che fa riflettere. 
Sempre sulla riflessione verte il lavoro di Elisa Rescaldani, l’artista propone un discorso sul rapporto del cibo attraverso la rappresentazione di un corpo femminile, un corpo magro, un corpo malato, un corpo scavato, quasi un’apparizione evanescente e troppo fragile, perché non sempre quello che dovrebbe essere un normale piacere come il mangiare lo è, e allora ecco spuntare due ali nere, mortifere, macabre, che sanno di dolore. 
Una mostra dunque ricca di spunti e differenti sguardi, differenti gusti, perché di gusto è necessario parlare, dell’arte che si presta a deittico, dell’arte che mostra e rivela l’invisibile che quotidianamente ci passa sotto il naso, dell’arte che pone attenzione e accento sul contemporaneo e sull’importanza del cibo, dell’arte che ci rende occhi per vedere l’essenziale che si cela sotto ciò di cui ci nutriamo. 
Che il cibo sia un piacere più immateriale del sesso? Così recitava una domanda interessante che lessi in un articolo, l’opulenza delle forme di un grana, di un macinato, di un cesto di pere è certamente una visione tattile come un seno o le forme sinuose di un corpo nudo. Metafore, quindi? Rappresentazione e cibo nell’astrazione del piacere, del godimento peccaminoso che fa di noi piccoli esteti lussuriosi, amanti del bello e possidenti del gusto. Pensiamo poi alle live cooking dell’oggi, vere e proprie performance, con il comun denominatore dell’unicum, godere di uno spettacolo teatrale è in fondo come gustare un vino di vecchia annata. 
Se l’uomo è ciò che mangia, è anche ciò che ha bisogno di creare, e se l’arte culinaria è essa stessa creazione, il cibo diventa un veicolo comunicativo importante, diventa interessante quindi capire la metamorfosi del cibo elevato a simbolo attraverso il discorrere del tempo e l’esigenza delle varie rappresentazioni e forme artistiche. 

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