Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

giovedì 20 giugno 2013

Articoleggiando (sempre come se piovesse) (Mario Ceroli, la Swinging London di Antonioni, i collage di Balla, Frida Kahlo, Giuseppe Veneziano, la Lumpenfotografie)

Ecco postati i miei articoli-recensioni-pensieri-scarabocchi di parole che ho scritto per il 
Wall Street International Magazine. (http://www.wsimagazine.com/#)




Troverete come protagonisti di questi sogni: Mario Ceroli, la Swinging London di Antonioni, i collage di Balla, Frida Kahlo, Giuseppe Veneziano, la Lumpenfotografie.

Enjoy

:)


Faccia a faccia

L'artista Mario Ceroli al Mambo di Bologna.

Faccia a faccia
Faccia a Faccia è il nome della mostra personale, visitabile fino al 1 aprile, che il museo Mambo e la città di Bologna dedicano all’artista, scultore, scenografo made in Italy, Mario Ceroli.
Senza porci da subito la domanda "A quale corrente apparterrà?", entrando nella mostra veniamo a contatto con la monumentalità delle opere, la grandezza, l’uso dei materiali poveri e il concetto che sta dietro all’operazione formale. Legno di pino di Russia è l’elemento preponderante con il quale l’artista si confronta, e poi le polveri colorate, il legno bruciato, la terra, la cenere, il vetro, ma anche marmi e pietre pregiate, scelta di materiali che sicuramente a un primo impatto fanno pensare all’Arte Povera, ad artisti come Pistoletto, Anselmo, Fabro o Zorio. Ma le etichette a volte sono penalizzanti e riduttive perché nel lavoro di Ceroli c’è anche uno straordinario aspetto pop, sia per l’ingigantimento che per la riproduzione seriale, come nell’opera La Cina del 1965, dove tante silhouette femminili e maschili marciano anonime in serie. E di teatri di silhouette evanescenti e riproducibili all’infinito si parla in alcuni lavori come Ombre e alcuni senza titolo, dove ombre di persone sagomate appaiono dietro a schermi di reti di ferro; appaiono anche sagome di mani, un canto libero di forme.

Del 1967 è l’installazione Cento Uccelli, un cubo nel cubo, una matrioska di cubi, di gabbie dalle reti metalliche: e nel cuore ecco una sagoma d’uomo seduta di fronte a una sedia vuota: qualcuno aspetta noi, curiosi voyeur? Oppure ci troviamo davanti alla trasparenza della solitudine racchiusa in una rosa cubica e metallica? I cento uccelli voleranno liberi? Interrogativi che popolano la nostra mente, e avanti. Eccoci dinanzi a Progetto per la pace e non la guerra, 365 giorni di pace, 365 bandiere bianche nella sabbia, una per ogni giorno, una promessa di felicità day by day, un impegno globale, un’utopia plastica, un auspicio dagli echi di John Lennon e Yoko Ono, no war riecheggia in the air.

E poi preziosi globi, dorati o di legno, parole incise nel legno; il pino di Russia è stato lavorato per dare forma alle parole, che rimarranno lì, per sempre, soggetti a chissà quale numero di occhi indiscreti.Battaglia del 1978, cavalli e soldati e bandiere, eccoci catapultati in un teatrino di guerra, di lotta per qualcosa, tra silhouette e sagome di legno, marionette esanimi, bidimensionali che intagliano lo spazio in angoli e piani di racconti.

E poi l’incontro con la madre terra, la sagoma dell’artista, l’impronta del suo corpo, lasciata lì volubile su un cumulo di terra, un ritaglio d’uomo, il suo confine, che si amalgama in un rito d’amore silenzioso con la genitrice terrestre. Verrebbe voglia di tornare bambini, di rotolarsi freneticamente su un campo e lasciare le tracce di noi stessi sul tappeto di terra sottostante, al quale non dedichiamo abbastanza affetto, o eros, e pur calpestandolo tutti i giorni, non ci rendiamo conto della reciproca appartenenza filologica.

Una palla nera molto grande, legno bruciato e sagome scure, una prospettiva circolare, sferica per ricordare nello spazio di una parete, l’orrore della bomba atomica in Giappone. Un urlo silenzioso, ma devastante, il profilo del volto nero, la disperazione, più sottile e letale di Munch. E poi il cielo in una stanza? No, meglio in un museo. Un’opera davanti alla quale si rimarrebbe ore seduti per terra ad ammirarne il colore azzurro del vetro, per non arrivare mai a capirne l’anima e l’astrazione, la purezza, come se l’artista fosse riuscito a strappare veramente, a catturare una porzione di cielo, chissà cosa ne direbbe Gino Paoli.

Più bravo di Geppetto, debitore forse di Collodi, da bravo sculture, Ceroli dà al legno un’anima, un concetto, una presenza, ci restituisce il legame poetico con la natura, usa materiali che sanno di essere preziosi come il marmo del Belgio o del Portogallo, usa i vetri come sfoglie trasparenti e ghiacciate, e le polveri colorate richiamano il profumo delle terre selvagge, pure, libere non condizionate da dogmi o schemi.
La Natura - a volte dissecca un Arbusto -
A volte - scotenna un Albero -
Il suo Popolo Verde se ne rammenta
Quando non muore -
Più languide Foglie - di Altre Stagioni -
Silenziosamente testimoniano -
Noi - che abbiamo l'Anima -
Moriamo più spesso - Non così vitalmente -

(Emily Dickinson)
Moriamo più spesso e non ce ne accorgiamo, ma è la natura che ci insegna il rinnovo, così silenzioso, che batte lì, nel centro esatto della terra che gira e mai stanca danza un nuovo giorno di speranza.


Blow Up: Antonioni e la fine della Swinging London

Gli anni seducenti del vinile e della fotografia.

Blow Up: Antonioni e la fine della Swinging London
Avete presente il negozio nostalgia di cui parla il protagonista di Midnight in Paris di Woody Allen? Se siete nostalgici sognatori di epoche non vissute, di epoche in cui tutto era lecito e i sogni non erano utopia, se almeno una volta avete pensato che avreste voluto godervi i crazy Sixties, la mostra Blow Up e la fine della Swinging London alla Ono Arte Contemporanea fa per voi.
Appena entrati in galleria si è accolti da un’atmosfera underground con sottofondi musicali e una prima parte dedicata alle cover dei vinili che hanno fatto la storia della musica, dai T-rex ai The Yardbirds, ai Beatles e Rolling Stones, fanno da cornice a una grande fotografia centrale, un bianco e nero che immortala David Hemmings interprete del fotografo inglese protagonista della pellicola Blow Up. La mostra è infatti suddivisa in due parti, una riguardante il backstage delle riprese di Antonioni per il film Blow Up, la seconda concentrata sulla Londra della moda, sull’editoria sulla musica e le gallerie, sul fermento creativo che imperversava nella City.

Perché scegliere proprio Blow Up? Vincitore del premio per Miglior Film e Miglior Regista nel 1966, il film narra la storia dell’apatia di una generazione attraverso il personaggio bizzarro del fotografo scontroso e affascinante Thomas, il quale annoiato dalla vita modaiola e mondana è alla ricerca perenne di ispirazione che verrà risvegliata grazie appunto al blow-up di un cadavere nelle sue fotografie scattate a due amanti in un parco.

Blow-Up film simbolo del Pop, blow-up fotografico in linea con la filosofia della pop art per ingrandimento e straniamento oggettuale. Un dettaglio sfuggito, impressionato dall’obiettivo fotografico in maniera casuale, Thomas era convinto di aver ripreso una coppia di amanti ed ecco invece aprirsi un nuovo mistero, un nuovo mondo, la curiosità si accende. Non è un mistero invece quanto Antonioni fosse affascinato circa i vari funzionamenti del fotografico; dunque macchina fotografica come protesi-estensione sensoriale attraverso la quale vengono catturate tracce e indizi? L’enigma del visibile e dell’invisibile si intrecciano in un unicum vorticoso e morboso.

Indimenticabile la scena di David Hemmings e Veruschka durante un servizio fotografico, fotografo e modella si ritrovano in una metafora di rapporto sessuale osmotico, attraverso il quale l’apparecchio fotografico diventa quasi un fallo, uno strumento invasivo che penetra la bellezza della mannequin in preda quasi a un orgasmo narcisistico. Altra scena chiave, la distruzione della chitarra durante il concerto degli Yardbirds (si ricorda che Antonioni aveva precedentemente scelto gli Who che rifiutarono), Thomas dopo aver faticato e lottato con la folla bramosa era riuscito a fuggire dal locale con il manico tra le mani, quando giunto fuori ecco che la lascia cadere a terra andandosene. Scena simbolo di quel disinteresse che si stava diffondendo a macchia d’olio dalla metà degli anni Sessanta contro il consumismo frenetico creatosi con la cultura pop di massa. Non a caso i giovani nel periodo successivo si rivolgeranno a religioni orientali, droghe e musiche psichedeliche; Voodo Child e il gipsy di Hendrix sono in the air. Il giovane Hendrix infatti stava proprio giungendo a Londra from USA.

In mostra alla ONO si potranno qiuindi assaporare molteplici scatti di David Hemmings sul set con il regista, dei Yardbirds, di Veruschka, in splendidi bianchi e neri senza tempo. E poi gli scatti di Brian Duffy, Terry O’Neill e Justin De Villeneuve a modelle che fecero la storia di un immaginario come Twiggy, dai lineamenti fanciulleschi, androgini e marcati da trucco e ciglia finte nere e giganti; poi l’esplosione della minigonna e la rivoluzione di Mary Quant, tutto questo era la Swinging Fashion London. La mostra non a caso è stata realizzata con la collaborazione di Ben Sherman, il camiciaio di Carnaby Street, in occasione dei 50 anni del brand.

E poi ancora vinili, vinili e foto dei Beatles, sembra di sentirli cantare Penny Lane o Twist and Shout, note incorniciate da grida e urla e pianti isterici di fan adolescenti che si strappavano i capelli tra fiumi di lacrime. Era certo meglio vedere scene di quel tipo per una musica che segnò pagine di storia in tutto il mondo, piuttosto che le gridolina e i fanatismi vacui e sterili per le pseudo star che il panorama musicale di oggi propina, mal educando le orecchie dei teenager.

Ma si sa, i tempi cambiano e l’estetica di pari passo cambia pelle e abito, si deve avere fiducia nel futuro e nel cambiamento, ma certe volte si ha il bisogno di affondare le mani nel passato che scaltro sfugge perché è già stato, ma generoso ci sta dietro indicandoci l’avanti.
Si ha il bisogno però di annusare gli scatti di Robert Whitaker ai Beatles, ma anche ai Rolling Stones, ai Cream o Yardbirds, per rendersi conto di un’epoca in cui si credeva davvero di poter vivere di musica, di vera musica, di passione, di arte, di vita sregolata e pazza, dove potevano nascere persino radio pirata su una nave come Radio Caroline, che ricorda tanto il film I love Radio Rock in celebri momenti: “On air. Off shore. Out of control” o ancora: “Gli anni passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.”

Una mostra dunque che ci rituffa in un periodo maledettamente sexy, che sa di vinile e fotografia. Ai nostalgici e non che sono finiti qui per caso o per qualsiasi altro motivo, si ricorda che la mostra Blow Up sarà presente a Ono Arte Contemporanea di Bologna fino al 2 maggio.

Come together.


Balla, coloratissimo e luminosissimo

Quando il medium diventa messaggio.

Balla, coloratissimo e luminosissimo
Una valchiria di colori e forme, lo sguardo viene vorticosamente risucchiato, coloratissimo, luminosissimo, e preziosissimo aggiungo. E’ questione di superlativi. Se il futuro è domani, e oggi è già domani, siamo in un life continuum inarrestabile, e la spinta verso il futuro e il progresso, il movimento dello slancio in avanti qualcuno nei primi anni del Novecento l’aveva capito, soprattutto in ambito artistico.

L’Europa nei primi decenni del XX secolo fu investita da bollenti idee, le Avanguardie infiammarono letteralmente il panorama artistico, in Italia prese vita il movimento futurista che in pittura vedrà il proprio manifesto nel 1910, redatto da nomi come Boccioni, Balla, e Carrà. Di quest’ultimo uomo e dei suoi interessanti operati si parla appunto in occasione della mostra che ha sede nella dotta città felsinea. Una trentina di collage in anteprima mondiale, mai esposti a livello museale; i collage di Balla approdano in via del tutto eccezionale a Bologna, un’occasione del tutto unica per respirare artwork made in Italy, e per scoprire un autentico genio italiano. Mondialmente riconosciuti come un centinaio, la galleria espone metà dei collage dell’artista futurista italiano.

La mostra si estende in tre sale, i collage vanno dal 1914 al 1925 circa, ed è completata dalla sezione “Giacomo Balla” dedicata all’uomo e all’artista con circa 25 opere dal 1904 agli anni ’30. Balla, torinese di nascita, inizialmente si formò nell’ambito della pittura paesistica dell’Ottocento piemontese, in seguito, arrivato a Roma, si interessò all’opera divisionista di artisti come Previati e Pellizza da Volpedo; sarà appunto lo studio del colore e della luce a portare avanti la ricerca artistica dell’artista piemontese che si intreccerà alle conquiste dinamiche del nascente Futurismo. Nel periodo bellico, Balla sperimentò la tecnica del collage, come noto tecnica nata nel 1912 dai papiers-colléscon di Picasso e Braque, come il celebre Natura morta con sedia impagliata; con l’esigenza di rivoluzionare lo spazio nella tela, l’esigenza di soluzioni extrapittoriche erano ormai fondamentali. Come anche notò Meyer Schapiro, già l’Impressionismo trasformò il principio di verosimiglianza mimetica dell’immagine in una scelta espressiva arbitraria, avvicinando il sistema di rappresentazione figurativa a quello artificiale della lingua, in cui un oggetto viene associato a un nome convenzionale. La sostanza espressiva arbitraria costituisce la poesia dell’immagine, il suo aspetto musicale più che mimetico.
Le composizioni di Balla tendono al colore, al suono, a linee, vortici, all’astrazione formale pura, mediante l’utilizzo di carte colorate: il medium diventa messaggio, come McLuhan sosterrebbe. La presenza diretta del reale con la tecnica del collage evidenza il bisogno di extrapittoricità pur rimanendo legata alla bidimensionalità della pittura, le carte colorate di Balla sono sì, elementi antipittorici, ma allo stesso tempo allargamenti del discorso pittorico stesso.

La mostra si apre con la prima sala, con i collage dal 1914 al 1917, e ci si trova innanzi a titoli significativi, linee di velocità più forme e rumore, figure più paesaggi, linee di spazio, linee andamentali, linee spaziali, bagliori che richiamano l’interesse dell’artista ai meccanismi naturali organici, paesaggi geometrici, linee forza più esplosione, energia.

Titoli che diventano descrizione riassuntive ed esaustive delle forme plastiche, delle idee rivoluzionarie intorno al dinamismo, all’energia, sulle quali Balla costruiva la propria poetica, “Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari”, espressione che trova riferimento nei più celebri dipinti dell’artista come Lampada ad arco, 1909Bambina moltiplicato balcone del 1912 eGuinzaglio in moto sempre del 1912.

I collage con tempera su cartone esibiscono colori terrosi, ma anche accesi, veri, rossi, blu, ocra, marroni, arancioni e gialli. E poi lo sguardo si incanta su Piedigrotta prima e poi La guerrePiedrigrotta, del 1915 circa, è un collage di carta bianca, foglio argentato e olio su cartoncino, e la storia che rappresenta è sicuramente affascinante. Nel 1914 Cangiullo organizzò la performance collettiva futurista Piedigrotta volendo reinterpretare lo spirito carnevalesco della tradizione popolare napoletana in chiave avanguardista. Piedigrotta venne messa in scena presso la sede napoletana della Galleria Permanente Futurista Sprovieri in Via dei Mille con “declamazioni a più voci, corteo di scugnizzi, pianoforte, strumenti piedi grotteschi, fuochi d’artificio...”: un tripudio folkloristico. Balla realizzò la scenografia, e nel 1915 un bozzetto di costume, probabilmente pensando al ballerino Léonide Massine. Il personaggio è un uomo-orchestra partenopeo, un performer tipico del teatro di strada napoletano, riproposto poi anche da Totò in chiave cinematografica; viene celebrata quindi una sinestesia totale, dove suono e movimento si amalgamano in un tutt’uno.

Del 1916 invece è La guerre, olio e collage di carte colorate su cartone, uno dei quadri più importanti che è esposto in galleria: realizzato a collage anche per le difficoltà economiche del periodo bellico, fu acquistato da Serge Diaghilev, il patron dei ballets russes, per il suo ballerino Leonide Massine durate una tournée romana. Esempio di astrattismo storic,o come afferma il critico Maurizio Fagiolo dell’Arco, dove tutti gli stati d’animo, insidie, dimostrazioni e allegrie di guerra prendono forma plastica, il tutto con una straordinaria libertà spaziale. I gialli, i rossi, gli arancioni e i neri, attraverso linee spezzate e vorticose ci trasportano nel clima interventista di quegli anni.

Poi si arriva alla seconda sala con i collage del 1914-1920 e alla terza con i collage del 1920-1925, ed è tutto un susseguirsi di forme, colori, bagliori e paesaggi, di esplosioni di primavera con tanti formati cerchio. Perché il cerchio? Il cerchio come l’obiettivo fotografico, il cannocchiale, la ruota, il rosone di una cattedrale gotica, come astro, come infinito (il mandala orientale, l’universo che Balla sognava di ricostruire), il cerchio come gioco, come percezione assoluta dell’arte della semplicità: O di Giotto. E poi l’opera Colpo di Fucile del 1918, olio su tela,che evoca la sensazione provocata dall’irruzione improvvisa di un'energia sonora e cruenta in un paesaggio naturale, mediante la quale si rivela da un lato la rottura dell’equilibrio di forze in cui si regge la realtà dinamica di contrasti, dall’altro si manifesta in modo lampante l’assenza stessa del mondo naturale come energia silente, come spiega la curatrice Elena Gigli.

Quest’opera è anche un importante snodo, funge da collegamento tra le sezioni e introduce all’ultima, con lavori come Veduta di Villa Borghese dal balcone della casa di via Paisiello, splendido olio su tavola, o l’imponente e seducente, etereo e fluttuante precursore di certe energie e neon Ritratto di Signora, del 1907, un olio su tela superbo, elegante, raffinato, dove la luce si mescola alla fragranza di donna, luci filamentose che tessono l’anima femminile.

E ancora d’impatto visivo interessante Vortice e Motogirante, pastelli colorati su carta, sfumati e preziosi, che rappresentano i misteri del cielo e la scomposizione del movimento. E poi l’enumerazione continua imperterrita, eccoci davanti a Compenetrazioni spaziali, uno smalto su cartone, basico e lineare, per passare poi agli acquerelli e tempere più sinuosi, come i Fiori Futuristi o FuturFarfalle dai colori accesi e sgargianti. Di notevole interesse, troviamo esposta anche la scultura in bronzo di Mussolini, alta circa 29 cm e datata 1926, che riporta sul basamento: "Sono venuto a dare un governo all’Italia". Come ben scrisse Chiti ne L’impero del 3 Aprile 1926: "In questa statuetta vi sono modellate con grande abilità le linee di forza e nell’insieme l’equilibrio astratto di un concetto assoluto e imperioso."

Una mostra quindi preziosissima che dà la possibilità di conoscere altre opere d’arte esposte nella galleria, un menù ricercato ricco di nomi luminosi, di nomi faro della storia dell’arte; scendendo al piano inferiore si può saziare lo sguardo di noi famelici voyeur, con opere di Sironi, Hayez con la Barca dei greci fuggitivi, Bertelli, Protti, Corsi, con acqueforti di Morandi, sculture di Manzù, gli Innamorati sotto il lampione di Medardo Rosso, Messina, De Pisis, Ottone Rosai con Figure in città. Una coppia, mentre visitavo la mostra, dinanzi al quadro appena citato ha esordito con questo commento: "Guarda! Rosai, così poetico e sfumato!". Ed esce il sorriso, si gioisce nel vedere chi apprezza la bellezza e l’arte, e poi, continuando il giro, la galleria offre ancora Carrà, Dottori, Arturo Martini con una bellissima Pietà, uno splendido ed elegante Paggetto del ’38 di Severini, e poi diverse sculture di Mirella Guasti, dall’EmersioneEva, all’omaggio a Pina Bausch in bronzo patinato. E poi ancora le Maschere di Chiancone, Ladies and Gentleman del ’75 di Andy Warhol, Crippa, Mandelli, Turcato, Pozzati, Falconi, Saetti, Sughi e Guttuso con le opere Nudi e Per il Caffè Greco.

Un giro che vale la pena, per scoprire piccoli grandi tesoretti, una pausa che ci si può, anzi ci si deve concedere durante la giornata, per distendere i sensi, regalando allo sguardo forme, stili e pensieri diversi: tra una pausa caffè e un’altra, proprio come nel collage di Balla esposto in vetrina, Autocaffè del 1929.
La mostra, in corso fino al 1 giugno presso la Galleria d’arte Cinquantasei a Bologna, è curata da Elena Gigli con il comitato scientifico composto da Claudio Spadoni ed Estemio Serri.


Frida Kahlo, colore e lacrime

La pittura come dolore e cura.

Frida Kahlo, colore e lacrime
“Messico e nuvole, la faccia triste dell’America, e il vento suona la sua armonica, che voglia di piangere ho…” così cantavano grandi voci come Jannacci o Conte.

Passione e dolore, strazio e coraggio, si incontrarono nelle calde terre messicane in un giorno del lontano 1907, Coyoacàn, per dare alla luce una creatura speciale, una donna talentuosa che ha fatto del suo dolore arte, uno sguardo profondo e penetrante, un nome, Frida Kahlo.

Aspra, sensuale e ambigua come una pellicola di Almodovar, il suo modo di dipingere mescola aromi diversi, per un cocktail fatto di naif, realismo e surrealismo. Ma, come confermato dall’artista, amica dei surrealisti, in particolar modo di André Breton, ella non dipingeva sogni, no, le tele di Frida sono intrise di dolore, di un forte dolore, di un dolore straziante, di grida sordide, una pittura impastata di lacrime e colori, caldi, terrosi, importanti.

Artista messicana di fama internazionale, la sua produzione ricopre all’incirca duecento dipinti, nature morte, ritratti di animali, e in numero preponderante, autoritratti, non a caso lei stessa diceva che era il suo soggetto preferito perché era con se stessa che passava la maggior parte del tempo.

Mille papaveri rossi i giorni di sofferenza dell’artista, un campo sconfinato di tragedia fiorente e personale; già da piccola fu costretta a restare a letto per nove lunghi mesi a causa della poliomelite, provocandole una grave malformazione al piede, a 18 anni invece, un terribile incidente stradale la vide ancora protagonista, l’autobus sul quale viaggiava si scontrò con un tram e Frida venne travolta da un palo di metallo fratturandosi gravemente la colonna vertebrale, il bacino e le gambe.

Abbracci spezzati, (ancora Almodovar) Frida si spoglia così della pelle che abita e la ripone, la nasconde nella sua pittura calda e commovente. Nel periodo trascorso ricoverata all’ospedale l’artista iniziò a dipingere, a dare voce, al dolore e alla sfortuna che aveva deciso di travolgerla. La sua esistenza fu costellata di operazioni e ricoveri, nel 1950 le furono amputate le dita dei piedi, affrontò numerosi trapianti ossei e operazioni alla colonna vertebrale, nel 1953 le venne amputata una gamba, costretta così alla sedia a rotelle, a causa dell’incidente non poté avere figli e l’aborto da lei subito fu ispiratore di un’opera importante come El Aborto del 1932 o come La cama volando, oli che non sono semplici rappresentazioni, ma veri e propri mondi personali, specchi nei quali noi possiamo entrare seppur in punta di piedi nelle ferite di Frida, profonde e intense. Ma non bisogna disperarsi nella disperazione, non bisogna affogare nell’oceano delle lacrime, lei stessa infatti affermava: “Che me ne faccio di voi piedi, se ho due ali per volare?” Mai arrendersi dunque.

La columna rota, del 1944, olio su tela, rappresenta la donna artista, con il busto diviso in due, la colonna vertebrale che si fa architettura morale spezzata, il volto e il resto del corpo puntellati da chiodi e le lacrime bianche che sgorgano dai profondi occhi neri, insenature di una geografia umana spoglia e sofferente, una trasposizione perfetta di un Cristo femminile, un martirio, una flagellazione. Il cielo viola avvolge la testa di Frida come un manto cupo senza promesse di alcuna felicità. Ma la pittura di Frida è un dono, è un antidoto, è una ricerca introspettiva aperta, che tende all’universo e ingloba i dolori di tutti; è insieme dolore e cura. È un rimedio. Sembra di sentire la voce di Gabriella Ferri:

Remedios, niña pequeña, chiquita, hermosa, preciosa
Linda niñita quedada así, sentada en la orilla del mar
y las manos llenas de perlas
el sol en tu frente y en la sonrisa
blanca orquidea, alma y paloma
y la alegría, tú cantas consuelo,
tú cantas esperanza, tú cantas remedios.
Calda, profonda, emotiva. Perché il tormento tempestoso di Frida non era solo fisico ma anche emotivo.Nel 1929 si sposò con il famoso artista, conosciuto soprattutto per i suoi grandi murales, Diego Rivera. Entrambi membri del partito comunista, legati da passione e feeling artistico, si separarono nel 1939 per poi risposarsi l’anno seguente, un rapporto burrascoso, che vide tradimenti da parte di Diego anche con la sorella di Frida, Cristina, e poi i flirt di lei con altre donne.

Qualche piccolo colpo di pugnale e Le due Frida, sono lavori che rappresentano al meglio la separazione dall’amore magnetico tra Frida e Diego. Come due calamite, si attraevano e si respingevano. La Frida con il cuore spezzato dà la mano alla Frida con il cuore intero, legate da un profondo legame, sono ritratti speculari di una vita assassina, che spezza, piega, squarcia. Nonostante tutto però i due avevano bisogno l’uno dell’altro e per Frida Diego rappresentava l’universo, il cosmo, la globalità, il tutto, come nel dipinto El abrazo de amor de El Universo, la tierra (Mexico), Yo, Diego y el senor Xòloti, olio su tela dl 1949, mistico, intenso, divino.

Un paradiso amaro quello di Frida, seducente e dai tratti forti ha affascinato chiunque la incontrasse, non a caso fotografata da grandi artisti come Immogen Cunningam, Edward Weston, Dora Maar, Lucienne Bloch, ritratta quasi sempre con i capelli raccolti, neri, a volte con qualche fiore come ornamento e quasi sempre con il costume delle donne di Tehuantepec simbolo di bellezza fascino, ma anche di coraggio, forza e intelligenza.

Morta troppo presto, a soli 47 anni, Frida ci ha lasciato un’importante testamento visivo, ricco di vissuto, di intensità sia cromatica che emotiva.

Le lacrime di Frida sono il colore di quelle tele, che giacciono lì, urlanti, mai silenziose, raccontano la loro storia, ma anche la nostra, e quando incontrerete Frida nei musei, per la strada tra la sue gente negli sguardi delle terre messicane, nei colori caldi, nei libri o in un film, sappiate che il suo dolore un giorno vi sarà utile, ci sarà utile.


Giuseppe Veneziano, tra il bene e il male

Provocazioni intellettuali e paradossi coloristici.

Giuseppe Veneziano, tra il bene e il male
Giuseppe Veneziano, La pietà di Superman, 2010, Acrilico su tela, Courtesy Contini Galleria d'Arte.
“E ad un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione.” La pittura di Giuseppe Veneziano arriva dritta, senza passare troppo da vacui intellettualismi, colpisce, arresta, fa inciampare, ed è stato proprio un interessante inciampo visivo quello che ho avuto vedendo i lavori di Veneziano per la prima volta, quell’inciampo di cui parlava anche un critico come Achille Bonito Oliva in un’intervista. Quell’inciampo che cerco sempre e che auguro alle persone, quell’inciampo che spezza l’ordinario e cattura l’attenzione come si catturano farfalle.
Delicatamente la bellezza viene convogliata. Un inciampo più che positivo, le opere di Veneziano non passano inosservate, fermano lo sguardo, veicolano l’attenzione, sono accattivanti e fanno sorridere. Da abile pescatore, pesca pesca pesca, dall’alto al basso, nell’immaginazione, gli archetipi pop, i personaggi che costellano l’immaginario di tutti, dall’illustre poeta, alla famigerata pornodiva, ai politici, ai cartoon, ai supereroi.
Stay bad whit a smile. That’s the mood. Ed ecco una lunga lista di personaggi indisciplinati e super colorati: un Dante bassista o alle prese con la Virgilio mail, Shrek, Peter Pan, Pinocchio e Pluto i nuovi drughi dell’amato Kubrick, o ancora una sensuale Biancaneve con un lato B da fare invidia a qualsiasi neo starlet televisiva, sostituire la mitica Venere allo specchio di Velazquez, una Pollon senza veli, un Gesù alle prese con il suo McMenù, ed ecco il David di Michelangelo perdere le sue velleità classiciste per accettare la veste di Ronald McDonald; uno Spider Man cocainomane, Cicciolina e Berlusconi nel celebre acrilico su tela, Novecento, un distillato ironico e spumeggiante, un riassunto cabaret, un bagaglino, uno spicchio, una fetta di quer pasticciaccio (brutto) d’Italia, per usare un’espressione gaddiana.
Ma non è finita qua, la pittura di Veneziano rifiuta una tautologia fine a se stessa e sceglie una pittura di narrazione, di rappresentazione. Provocatoria, non provocatoria, blasfema? Non c’è sempre bisogno di etichettare, anche se guardarsi un’opera di Veneziano è come gustarsi un buon vino d’annata, le etichette lasciamole a quest’ultimo. Veneziano colpisce, che si voglia oppure no, diverte l’occhio, e le storie che ci racconta arrivano rapide come dardi di un bravo Cupido.
Inutile dire che il mio è un articolo di piena promozione e stima, perché si, amo decisamente il lavoro di Veneziano, e penso che se mi chiedessero: se fossi un’artista, oggi, cosa faresti? Come lo faresti? Io risponderei: quello che fa Veneziano. E soprattutto come lo fa. Ma non sono un’artista, sono solo un ragazza con un foglio, una penna, un paio d’occhi e una profonda passione per l’arte e la scrittura. Penso inoltre che quando un critico, un esperto, uno scrittore decida di esprimere una valutazione positiva sul lavoro di un’artista, si avvicini in maniera trascendentale all’atto di origine, all’atto di creazione dell’artista stesso.
Due facce di una stessa medaglia, in tempi e modi diversi. Le anime affini si riconoscono, anche da lontano. Come un abile burattinaio, Veneziano inscena mascherate, situazioni calde, piene di rimandi, di giochi tra rappresentazione, oggetto, concetto. Ed ecco che l’iniziatore di quella che oggi è definita arte contemporanea, il papà del ready made, viene decapitato a mò di Giovanni Battista, dallo stesso Veneziano, che posa la testa dello scacchista Marcel sul suo stesso famigerato urinatoio.

Un pittura di colori pastellosi, caramellati, pieni, priva di contorni, le figure si stagliano da sfondi anonimi colorati, da paesaggi senza profondità o dettagli; ricreando paradossi, Veneziano riveste la realtà con un nuovo look, da bravo stilista, si serve di surrealtà per dare nuovi toni, nuove visioni; ed ecco Steve Jobs con la mela conquistatrice del globo alle prese con surrealismi magrittiani, o ancora un Veneziano Gioconda, poi una Cappuccetto rosso insaziabile godere finalmente del perfido lupo, una pietà che vede accasciare Superman, un boxeur d’eccezione, Van Gogh alla prese con chi un orecchio l’ha staccato veramente a morsi, Mike Tyson, ed ecco il rimando, il richiamo, il cocktail di icone tipico di Veneziano, il sorriso spunta.
Il lavoro di Giuseppe Veneziano è un patchwork abile e curioso, un’onda travolgente, una delle più travolgenti, che vede appartenenza nella New Pop italiana e nel gruppo Newbrow, termine coniato dal critico e curatore Ivan Quaroni. La Madonna del Terzo Reich, il ritratto di Cattelan impiccato, rimangono lavori importanti, lavori faro, lavori che fanno parlare di sé, che fanno discutere, che suscitano l’interesse del pubblico, che stuzzicano, che inebriano senza esagerare come due o tre giri piacevoli di spritz. Fa girare la testa Veneziano, e forse ad altri pure qualcos’altro, ma a noi piace ancora di più proprio per questo.
Nativo di Mazzarino, vive e lavora a Milano, dove si dedica alle sue attività di artista e docente, vanta numerosi articoli e testi di critica, e a questo proposito, brillanti le parole di Vittorio Sgarbi: “Le trovate di Veneziano sono provocazioni intellettuali che non ribaltano il rapporto inevitabile e necessario tra bene e male. Non sono minacce all’ordine del mondo e ai valori tradizionali. Neppure dissacrazione, non esaltazione del male, nulla che non sia un gioco. E ancora: “Il mostro di Veneziano è un cartone animato. Ostenta la sua esistenza impossibile, anche rispetto alla storia in cui si è manifestato. Veneziano si diverte a vedere la nostra reazione. Occorrerà interpretarlo in questa luce e chiedere per lui indulgenza. L’inferno può attendere.”
E poi le parole di Luca Beatrice: "La pittura di Veneziano è inconfondibile, la sua cifra cromatica 'flat' e zuccherosa. Lui ha definitivamente digerito il postmoderno e la citazione quando si tratta di fare i conti con l’arte del passato rifuggendo la comoda giustificazione del concettuale perché il suo universo è tutto interno alla pittura come ipotesi di reinvenzione del mondo."
E ancora l’irriverente critica di Andrea G. Pinketts: “In quanto Veneziano ricostruisce personalità disturbate e disturbanti. Per incastrarle, catturarle in un’opera d’arte. Le sue opere devono molto al fumetto ma non ci sono nuvole parlanti. Non gli servono. Preferisce un fotogramma di cinema muto. Veneziano è un cacciatore di taglie. Un baunty Painter che immobilizza persino se stesso con l’autoritratto. Immobilizza ma non neutralizza perché il neutro è il peggior nemico dell’uomo, non gli appartiene. Ogni sua opera è carica. Forse caricata a molla. Perché da un momento all’altro ti aspetti che il protagonista schizzi fuori, balli fuori, salti fuori, come un canguro impazzito o cocainomane.”
Ancora tante altre penne, tante penne importanti, versatrici di inchiostro hanno scritto su questo nostro bravo (bravissimo! Concediamoci pure il superlativo) artista italiano, per chi conosce già, non conosce ancora o conoscerà Giuseppe Veneziano. 


Lumpenfotografie

Per una fotografia senza vanagloria.

Lumpenfotografie
All the clothes of a woman, 70 fotografie in b-n, 130x90 cm
La galleria d’arte bolognese P420 ha inaugurato lo scorso 4 maggio una mostra fotografica molto interessante, curata da Simone Menegoi, una collettiva di cinque artisti, Hans-Peter Feldamann, Peter Piller, Joachim Schmid, Alessandra Spranzi, Franco Vaccari, differenti generazioni quindi, alle prese con la fotografia e la sua dimensione sociale.
Il termine Lumpenfotografie deriva dalla definizione marxiana di Lumpenproletariat indicante quel gruppo sociale formato dagli “scarti di tutte le classi”, una plebe che vive di espedienti e del tutto priva di una coscienza di classe. Nell’opera Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852) Karl Marx dà questa descrizione del termine Lumpenproletariat:

Accanto a quelli che avevano mezzi di sussistenza incerti e di dubbia provenienza c’erano borghesi decaduti, avventurieri, vagabondi, soldati in congedo, galeotti, evasi, truffatori, saltimbanchi, lazzaroni, borseggiatori, imbroglioni, giocatori d’azzardo, lenoni, tenutari di bordelli, facchini, letterati, fotografi, suonatori d’organetto, straccivendoli, arrotini, calderai, mendicanti, cioè l’indefinita massa disintegrata gettata qua e là, che i francesi chiamano bohéme, tutti questi rappresentano il Lumpenproletariat.

Un’enumerazione ricca e sostanziosa di una fetta popolare anonima, indefinita, imprecisa, che ricorda vagamente il romanzo Rimini di Pier Vittorio Tondelli, dove una polifonia di voci dà vita a una storia fatta di intrecci anche non avendo niente in comune, per esaltare la costiera romagnola che almeno una volta all’anno diventa una grande e caotica metropoli. La mostra è proprio una metropoli, una polifonia di sguardi, un’archeologia di memorie, uno scavo archeologico di reperti umani fotografici, di frammenti, di attimi rubati al tempo, di oggetti anonimi che ritrovano la propria luce, un teatro esistenziale dell’oggetto o di un qualsiasi attimo fotografico.

Il termine Lumpenfotografie che letteralmente significa “fotografia stracciona” è dell’artista Franco Vaccari che ha così trasformato la categoria socio-politica marxiana in categoria estetica. Vaccari usò il termine in riferimento al lavoro dell’artista tedesco Joachim Schmid, che da trent’anni raccoglie ed espone quella che non aspira a essere fotografia “d’arte”. Ed è proprio questo il concetto madre che ha partorito la mostra dove forme di presentazione come la serie, il catalogo, l’archivio acquistano una particolare identità oscillante tra i modi freddi e spigolosi dell’Arte Concettuale e una percepibile simpatia estetica.

Quanti di noi non danno valore estetico alle fotografie anonime che si trovano nei giornali sciatti che propongono offerte di vendita? Quanti di noi farebbero caso a ritagli o frammenti di foto trovate magari casualmente per terra? O ancora, quanti di noi hanno passato dei minuti simpatici all’interno di cabine fotomatiche con amici, ma non pensando minimamente che potessero magari essere valutate come opere d’arte? Ebbene per tutte questi quesiti è un’occasione davvero speciale visitare la mostra alla P420.

L’idea di trovare bellezza in una forma preintenzionale, in una sorta di objet trouvè tanto cara ai surrealisti ereditata successivamente dal dadaismo con Duchamp e il ready-made rimanda anche a una fotografia che pone l’accento sull’epifanizzazione del reale Joyciana. Il mondo si offre a noi come una deliziosa amante e le sue tracce possono acquisire fascinosi valori estetici cambiando il contesto, dalla strada a una galleria d’arte. André Breton, il padre del movimento surrealista, coniò l’espressione “caso oggettivo” con l’idea che alcuni incontri apparentemente casuali (in particolare con determinati oggetti) nascondano una forma di predestinazione, di segreta e fatale affinità tra chi cerca e il trovato.

Con questa atmosfera si arriva in galleria e i primi lavori ad accoglierci sono la serie di dieci fotografie in bianco e nero di Peter Piller, Regionales Leuchen 1 – Local Glow 1. Piller, che lavorò come revisore di documenti presso una grossa agenzia di comunicazione ad Amburgo, era responsabile dell’analisi e archiviazione giornaliera di oltre 150 giornali regionali. Le foto esposte infatti provengono da vari quotidiani e tendono ad analizzare gli archetipi figurativi della cultura giornalistica. È inoltre presente la serieBedeutungsflaschen – Pointing at plains, serie di 10 fotografie in bianco e nero che vede protagonisti differenti persone indicanti un punto in un qualsiasi ambiente, dalla strada al campo.

La mostra prosegue con la serie Occasione Unica di Alessandra Spranzi, fotografie di case in vendita di tutta Italia, rifotografate con pellicola 35mm, dall’agenzia immobiliare alla galleria d’arte, espropriamento, traslazione, cambio di significato e acquisizione di una valore estetico, un see different interessante e divertente. Le parole dell’artista a proposito: “La casa che deve essere la tua occasione è sempre un’occasione unica, irrepetibile, perché parla solo a te, parla al tuo passato, al tuo presente, ai tuoi sogni futuri”. Altra serie presente della Spranzi è Vendesi, una serie di fotografie analogiche, un work in progress cominciato nel 2007, che come fonte ha una rivista di foto annunci disponibile in edicola, per dare attenzione a particolari, a oggetti che la nostra attenzione abbandona, oggetti che silenziosi acquistano patina metafisica e trascendentale come nei quadri di Morandi.

Di Hans-Peter Feldmann invece si potranno vedere i Bilder "Libri d’artista" e l’opera All the clothes of a woman una raccolta di 70 fotografie in bianco e nero, un vero e proprio scavo archeologico in scarpe, vestiti, intimo di donne, la curiosità spinge a pensare che quegli oggetti abbiano una storia da sussurrarci all’orecchio, chissà da chi sono stati indossati, sfilati, comprati?  Poi Love couples, un poster tagliato in scatola di legno, l’anonimia torna a essere la protagonista, che volto avranno gli amanti? Sembra ricordare vagamente Les amants di Magritte.

I lavori di Joachim Schmid comprendono Bilder von de StrabePhotogenetic Draft e Other People’s PhotographsBilder von de Strabe è il perfetto esempio di fato, di objet trouvèe, si tratta di un progetto sviluppato nell’arco di trent’anni, l’artista ha raccolto tutte le fotografie che ha trovato in luoghi pubblici tra l’agosto del 1982 e il marzo del 2012, mille fotografie, in 25 paesi diversi e 123 città, fotografie strappate, buttate vie intenzionalmente, non ci è dato sapere niente tranne la data e il luogo, il resto è pura e soffice immaginazione. Hannover, Berlino, Rio de Janeiro, Rotterdam, Parigi, Marsiglia, Gallipoli, una geografia di momenti priva di confini, una poesia casuale fatta di frammenti.

Photogenetic Draft sono fotografie provenienti dall’archivio di un fotografo commerciale che aveva tagliato i negativi per impedirne un futuro utilizzo. Ed ecco una photo surgery strepitosa, geniale, l’accostamento di entità diverse che non si appartengono, vengono messe insieme, creando dittici improbabili, ritratti di persone che non esistono. Other People’s Photographs, realizzata tra il 2008 e il 2011, prevede una raccolta di immagini che si possono trovare su siti di condivisione come Flickr, suddivisa per libri con temi variegati, come Things, Sites, On the road, Food, Flashing e Big Fish.

Ecco che accediamo a molteplicità di oggetti, luoghi persone, ecco ritornare la polifonia di storie, una visione a più sguardi di uno stesso concetto.
La mostra infine ci offre la possibilità di vedere da vicino Photomatic d’Italia, 1973-74, collage di photostrip su cartone, la celebre opera di Franco Vaccari, che vede ritratti numerosi volti, numerose persone, espressioni, smorfie, ma anche parti del corpo come il pene, in diverse posizioni.
Photomatic d’Italia rimane un progetto faro di Vaccari che trovò celebrità alla Biennale di Venezia del ’72, da quel momento l’artista ebbe a disposizione tutte le photomatic sparse per l’Italia; la photomatic diventava un luogo privato immerso nello spazio pubblico, in cui era possibile dare libero sfogo al desiderio e al sogno. Un artista di cui personalmente ho profonda stima dal momento in cui lo conobbi all’università durante il corso di Storia della Fotografia, trovai da subito illuminante Photomatic d’Italiala, mi sembrò da subito un’opera geniale, proprio per il suo connubio semplicità di esecuzione, profondità di riflessione; la galleria P420 chiude la mostra con un video di Vaccari della durata di dieci minuti circa, del 2002, intitolato L’album di Debora, e creato con il solo utilizzo di foto tratte da un album di famiglia. L’artista afferma: “Sono sempre stato affascinato dalle fotografie prodotte dagli altri, soprattutto se queste non erano fatte con intenzioni artistiche. La mia curiosità è sollecitata da questi depositi di senso ancora intatti.”

Una mostra da vedere, che propone la veste di una fotografia senza vanagloria, senza paillettes o artifizi, ma con una sconcertante e perturbante differente visione dell’ordinario, con il caso a cavallo come un cavaliere errante che lancia la nostra immaginazione lontana, oltre i confini, oltre la verità, oltre tutto.

Federica Fiumelli

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