Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

domenica 23 giugno 2013

"A" di Articoli (da come se piovesse a grandine fitta)

Ecco alcuni miei articoli pubblicati su The ArtShip.

(http://theartship.it/home/dlyaivxy/public_html/)





Enjoy!!

:)

Il corpo di Kazuo Ohno: la sfida alla mente

 di Federica Fiumelli. Incontri la sua immagine e te ne innamori. Un nome, un uomo, Kazuo Ohno.
Scomparso da ormai due anni, è stato un grandissimo artista, uno dei più grandi danzatori giapponesi del ventesimo secolo. Ma questo non basta per descrivere un’ anima così rara e speciale.
Il sole24 Ore lo commemorò con un titolo forte ed efficace: “La danza come forma dell’anima”.
Iniziò come insignante di educazione fisica poi prese a danzare esercitandosi con due pionieri della danza moderna in Giappone, Baku Ishii e Takaya Eguchi (quest’ultimo aveva studiato Neue Tanz con Mary Wigman in Germania). Nel 1950 l’incontro con Tatsumi Hijikata  fu decisivo per l’evoluzione della danza Butoh, detta anche danza delle tenebre.
La danza Butoh nasce in un contesto storico particolare:  alcuni studiosi sostengono infatti che essa dia forma e rappresenti la sofferenza della seconda guerra mondiale e la tragedia connessa allo scoppio delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki; su una linea prettamente tecnica, la danza Butoh si colloca tra i due diversi teatri giapponesi: il teatro No e il teatro Tabuki.
Il corpo del danzatore è sempre teso e contratto, in un immobilismo quasi ieratico, fatto di movimenti lenti, sospensione temporale, pesante trucco bianco volto a evidenziare una maggiore drammaticità del volto.
La danza di Ohno però si discosta dalla più diffusa tradizione del Butoh, generalmente più luminosa e lirica, per attingere direttamente dall’universale, frantumando le rigide convenzioni che l’esperienza quotidiana costruisce sull’individuo, bloccandolo in una sorta di griglia precostituita.
Il 27 ottobre 2001 in occasione del 95esimo compleanno del maestro è stata firmata a Tokyo una convenzione con la quale Ohno ha donato al Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna una copia dei materiali del suo archivio; è di vitale importanza che il lavoro di questo grande artista venga tutelato e tramandato di generazione in generazione.
E oggi chi prosegue questa tradizione artistica?
Sicuramente uno dei continuatori diretti di Ohno è il figlio Yoshito che ha potuto vedere il padre e Hijikata a lavoro diventando così un importante testimone.
Mitsuru Sasaki nato nel 1969 a Tokio inizia la sua formazione proprio con i fondatori del movimento Butoh, attraverso viaggi in Europa ha avuto la possibilità di arricchire la propria conoscenza e da anni svolge un’intensa attività di coreografo indipendente. Ha lavorato anche insieme ad un altro artista, Mark Alan Wilson, il quale nel proprio metodo di lavoro fa confluire elementi dal Tai Chi, dal Qi Kung.
“La danza è la realizzazione di un sogno attraverso il corpo” – così esordisce in un’intervista un altro maestro contemporaneo del Butoh, Masaki Iwana, facendoci capire esplicitamente che la danza Butoh ancor prima di essere un’arte è una vera e propria filosofia, un metodo del pensare attraverso l’uso del corpo. “Quando dico corpo, mi riferisco a un corpo totale, che include tutti i livelli: il bio-scheletro” – prosegue il maestro, sottolineando anche l’importanza delle azioni quotidiane come camminare, alzare, saltare e ponendo un accento su un aspetto importante come l’improvvisazione. Occorre quindi un allenamento fisico del proprio corpo per arrivare ad un tipo di danza che “possa toccare i cuori della gente”.
Altro nome, altra stella della danza Butoh, Ko Murobushi, riconosciuto in Giappone come principale erede della visione originale di Hijikata. Nel 1974 creò il butoh-magazine e fondò la compagnia di Butoh femminile “Ariadone”. Grazie alle numerose tournée mondiali ha continuato ad aprire la sua danza ad influenze molteplici, cercando sempre di mantenere un legame profondo con la tradizione giapponese. La sua ricerca è orientata all’utilizzo di una fisicità estrema come dimostra in una delle sue performance “Experimental Body”.
“La mia danza non ha inizio né fine; sta sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo. La mia danza non è filiazione ma alleanza, unicamente alleanza.” Così spiega il maestro.
Presente anche all’Arsenale per la Biennale della Danza di Venezia, afferma “Il corpo è abbandonato, rinserrato, circondato. Per questo l’essere umano rimarrà sempre un paese straniero. I nostri incontri sono determinati dal destino. Siamo forme che divengono tagli; siamo danzatori di confine. Quando vogliamo metterci in contatto con lo spazio circostante, questo cambia, si muove, si rifiuta, esplode. Tutte le parti del corpo si contorcono, il corpo è fatto a pezzi. Poi viene schiacciato e si riduce in mille frammenti. Il corpo in sé è privato di ogni significato, non può avere un nome; appare come mera figura, autogenerata: un doppio corpo oltre i limiti del tempo. Un po’ come un brutto scherzo… ”
Sayoko Onishi, altra grande artista Butoh, dopo l’incontro con Alessandra Manzella scelse Palermo per presentare una sua performance.
La scelta di tutti questi artisti di tenere laboratori di danza, in più parti nel mondo, contribuisce la diffusione della tradizione orientale, ma fa sì anche che questa si apra a nuove possibilità e nuovi ambienti culturali. Questa è la grande sinergia che alimenta il Butoh e la memoria di Ohno.

L’attualità dell’altrove beniano

L’essenza dall’assenza
The Hebrides (Fingal’s Cave) – Overture di Felix Mendelssohn
di Federica Fiumelli. Ero al primo anno di Università e stavo preparando l’esame di Storia del Teatro, quando su uno dei manuali di studio lessi: “[…] recitazione deformata e fisicizzata, la quale propone una partitura sonora non realistica; movimenti eccessivi, ripetitivi e sincopati; vocazione all’esibizionismo e allo scandalo, gusto luciferino per parodia e dissacrazione, predilezione per il pastiche e la sintesi d’ impronta nettamente futurista, l’essere contro sia nel teatro che nella vita, preferenza quasi assoluta per determinati periodi della drammaturgia quali l’Elisabettiano e il Simbolista tardo-ottocentesco.”
Poche righe dalla penna di Marco De Marinis, l’insigne professore di Storia del Teatro, per innescare in me la voglia di scoprire Carmelo Bene.
Così iniziarono le mie ricerche sul web e libri.
Fu così che vidi l’Hamlet ed ebbi un colpo di fulmine.
Non mi dimenticherò mai i brividi che mi costellarono d’emozione durante il monologo:
Quando ho fame ho fame, quando ho sete ho sete, quando ho voglia ho voglia, e allora se l’idea della morte mi è così lontana, vuol dire che la vita mi è in balia, che la vita mi reclama, e allora, vita mia a noi due!
Mi innamorai di qualcosa o di qualcuno che materialmente non esisteva più.
Quell’esistenza che lo stesso Bene diceva di non possedere.
Non esisto dunque sono. Altrove. Qui. | Dove? m’apparve il sogno ad occhi aperti | di Lei che non fu mai | Colei ch’è mai vissuta e mai morì (da La voce di Narciso)
La sua era una vera voce di Narciso, pensare di non averla mai udita dal vivo, apre in me un senso di mancanza infinita, ma “Siamo, quel che ci manca. Da per sempre.” ( da Quattro momenti su tutto il nulla)
Pochi giorni fa, Mille e una notte Teatro su Rai Uno ha mandato in onda due puntate dedicate a Bene: una su Quattro modi diversi di morire in versi e l’altra sullo spettacolo di Pinocchio.
Guardando le puntate ci si accorge dell’attualità di Bene, nonostante, come scrivenell’Immemoriale Pier Giorgio Giacché:
“Non c’è un dopo Carmelo Bene. E non perché alla morte di un personaggio grande e di una persona cara si voglia assurdamente fermare il tempo, ma perché non c’entrava nulla con il nostro tempo. E ancora, non perché non sia mai stato attuale o presente, ma perché ostinato nemico di quel tempo cronologico, che si dispone lungo la linea della storia passata e corre verso il futuro della società.”
e ancora
“Non si tratta quindi di fermare il tempo, perché Carmelo è stato sempre abitante e demiurgo del tempo sospeso e del nessuno luogo del teatro. Del suo teatro va detto, giacché molti altri teatri si lasciavano volentieri contaminare dal tempo storico e dal luogo sociale: si credono specchi del mondo e si fingono mezzi di comunicazione a disposizione del pubblico. Nel suo teatro invece, non si dava alcuna prospettiva né si predicava una qualunque complementarità.”
Il non esserci mai, il non luogo, il fuori-tempo, questo altrove al quale tutti gli artisti tendono, rendono Carmelo Bene attuale proprio perché inattuale; il suo Teatro rende questi assunti  disponibili al nuovo giorno nascente, ogni giorno, proprio perché non etichettati e statici nei confronti di una determinata epoca storica. Il dinamismo beniano è quindi un regalo che il maestro ci ha lasciato.
Il suo continuo non essere è, e sarà per sempre, dando valore all’essenza dell’assenza.
Ha dato valore estetico al dramma dell’uomo, il dolore del non esistere; amando Bacon, è come se le tele di quest’ultimo avessero trovato posto nelle scene di Bene.
“L’arte deve eccedere dunque, deve anch’essa sempre superare se stessa, come ha fatto Bernini nelle sue Estasi [...]”
Estasi quindi che indica un continuo uscire da sé, oltre che un altrove Bene, ha cercato un altro da sé. Un sé “contro tutti” come al Maurizio Costanzo Show del 1994:
“Io mi occupo solo dei significanti, i significati li lascio ai significati. Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti […] Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. […]. E questo si può dire. Chi dice d’esserci è coglione (sic) due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione (sic) una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: “Il significato è un sasso in bocca al significante”.
E mi viene in mente il video dell’artista Marcel Broodthaers che proprio come Bene studiava il linguaggio, vi si vede l’artista mentre scrive sotto la pioggia, i capelli e i vestiti fradici e il pennino intinto di inchiostro subito disciolto dalla pioggia battente sul quaderno. Sembra dire: “Vi mostro la mia cancellazione”. Perché alla fine rimane il nulla.

DIAMOCI UN TAGLIO!

I digital mash-up di Fajar P. Domingo
 di Federica Fiumelli.  “Diamoci un taglio! Ai cliché, all’accademismo, al vecchiume che tarpa le ali.”
Qualcosa del genere deve averlo pensato sicuramente Hannah Hoch nei ruggenti anni venti, in pieno slancio Dada. Una delle artiste che ha fatto del collage una vera e propria tendenza artistica esteticamente attraente e rilevante. Bisogna però certamente ricordare che i primissimi esempi del nostro signor collage sono stati quelli di due del calibro di Braque e Picasso, per non dimenticare poi i tentativi dei nostri futuristi, da Soffici a Balla e Carrà (restando in clima Dada, bisogna  anche ricordare Hausmann, Arp, Grosz, e Heartfield).
La Hochperò rimane quella più affascinante con i suoi ritagli presi da giornali e rotocalchi di moda, le protagoniste dei suoi collage vengono brillantemente definite da Fabriano Fabbri nel libro Il buono, il brutto, il passivo come Veneri Storpie, riprendendo un titolo della Consoli.
Corpi scomposti, sgraziati, anti-seducenti e anti-stereotipati, anticipando quindi operazioni artistiche firmate Sherman o van Lamsweerde.
Proseguendo negli anni, la parabola del nostro protagonista collage è costellato da nomi come Paolozzi, Hamilton, Blake, soprattutto in ambito Pop, con immagini di oggetti di consumo e kitsch, colori flash e brillanti. Arrivando agli anni Novanta del XX secolo, il collage scorge il mondo digitale, mixandosi così al mondo fotografico e a notevoli effetti speciali; Botto & Bruno, Giacomo Costa, Aziz+Cucher, Kensuke Koike, ce ne mostrano di geniali.
Il collage tiene fortissimo il passo con le nuove tecnologie, fornendoci nuovi esempi estetici.
Recentemente ha catalizzato l’ attenzione di una frangia di studiosi del settore delle arti visive il lavoro di un artista: Fajar P. Domingo.
Digital mash-up’s Reconstruction. Composing only with iPhone4 apps – mostly ArtStudio. From Jakarta, Indonesia. With Love. Not selling my works.
Così si presenta nella breve introduzione su Instagram.
Ed è proprio lì che si possono seguire i suoi lavori day by day che lui produce e pubblica tramite l’ausilio di sole app per iPhone. Facendo così rieccheggiare la lezione più grande del secolo scorso Tutti possono fare arte! impartitaci da padrini come Duchamp e Warhol. La democratizzazione oggi sembra essere possibile, grazie a prodotti come quelli di casa Apple, e ad applicazioni come Instagram di facile e rapido utilizzo.
Questo artista ha circa 14.000 persone che lo seguono lasciando commenti di apprezzamento riguardo ai suoi lavori.
Lavori che arrivano all’occhio veloci, che catturano l’attenzione per quelle piccole atmosfere ricreate in piccoli riquadri. Queste creazioni, caratterizzate da colori tenui, forme geometriche, precise, sono attraenti come pubblicità. Figure di persone che sembrano ritagliate da fotografie nostalgiche in bianco e nero, catapultate poi in cieli, prati o deserti dal sapore metafisico.
Un effetto straniante e surreale che avvolge queste piccole scene congelate, condite da elementi ritagliati da chissà quale parte per poi ritrovarsi in un cocktail dell’assurdo.
E allora navi che volano più piccoli di immensi uomini-oasi in deserti sconfinati, fari e fattorie, case, strutture di cemento minimaliste, uomini che guardano nell’infinito come quello di Friedrich, gemelle alla Arbus che al posto del volto hanno un fascio di colore rosso infinito, e ancora mucche solitarie e fluttuanti nei cieli, capre testarde, cervi casuali.
Ma non è finita: l’enumerazione fantastica di Domingo trasuda di flash all’Alice nel Paese delle Meraviglie, dove quello che è non è, e quello non è, è.
E allora gambe con calzettoni a righe compaiono immense dal cielo come se piovessero, gli uomini volano e gli umani possono sedersi sulle nuvole, il prato è al posto del cielo e i bambini che vanno sull’altalena prendono la rincorsa sulle nuvole, e poi un uomo barbuto sovrastante dal sorriso immenso, contiene in sé tutto il cielo, proprio come un uomo magrittiano. Un uomo gallo, un pesce rosso gigante gioca con una bambina in un prato di rose, un paracadutista lillipuziano atterra su un teiera rossa a pois che piacerebbe tanto alla Kusama.
Questo e molto altro potrete trovare nel mondo Dominghiano, popolato di richiami, citazioni, situazioni paradossali e surreali che appaiono come poesie visive, brevi, intense.
Sembrano richiamare da lontano, con un sottile eco, la poetica del Gruppo ‘63, delle poesie di Sanguineti come “Quattro Haiku”:
1.
sessanta lune:
i petali di un haiku
nella tua bocca:
2.
l’acquario acceso
distribuisce le rane
tra le cisterne:
3.
è il primo vino:
calda schiuma che assaggio
sulla tua lingua:
4.
pagina bianca
come i tuoi minipiedi
di neve nuova:

Piccole immagini, brevi sensazioni, attimi folgoranti.
Un’ intensa brevità congelata di visione, racchiudono i collage digitali o meglio i mash up di Domingo.
E un’ultima splendida immagine, un uomo che spara fiori rosati. Un messaggio portatore di tanti auguri, come quello di anti-violenza. E come recitava Apollinaire:

E i cannoni dell’indolenza
I miei sogni sparano verso
i
cieli.

Il tempo s’incontra

Lea Vergine e Janieta Eyre
di Federica Fiumelli. “Provavo l’impressione assurda e reale di ascoltare, non visto, dietro una porta, di essere capitato in casa d’altri e di scoprire improvvisamente i terribili segreti quotidiani di una famiglia sconosciuta.”
Parole di Luchino Visconti rilasciate ad un giornalista dopo aver visto “La donna del mare” di Ibsen, interpretata dalla etereaEleonora Duse.
“Provate un po’ a immaginare una situazione così: Virginia Woolf ricama a punto-non-so-che-cosa lo schienale di una seggiola, su disegno progettato da Duncan Grant mentre sua sorella Vanessa Bell disegna per lei la copertina di The Waves intanto che Percy Wyndham Lewis, tra un Blast e l’altro, dipinge il ritratto di Edith Sitwell fotografata con i suoi fratelli da Cecil Beaton. I tre Sitwell si fanno affrescare la Villa di Montegufoni in Val di Pesa da Gino Severini; dopodiché tutti giù a rovistare tra gli avanzi di gomitoli di lana per i calzerotti da inviare ad Alec Guinnes sotto le armi. Ma cos’è? Una burla, una sceneggiatura per una pièce? No. è  tutto vero.”
Queste parole invece appartengono a Lea Vergine, corredo della mostra “Un altro tempo” che sarà fruibile dal 22 settembre 2012 al 13 gennaio 2013 presso il Mart di Rovereto.
“Vivo per la maggior parte dietro il mio occhio sinistro. E’ l’occhio che vede il peggio e per questa ragione è sensibile alla sostanza delle cose, al mondo fantasma, al mondo della morte”.
Questo invece è un pensiero appartenente all’artistaJanieta Eyre.
Bene. Alcuni, o forse molti di voi si staranno chiedendo cosa lega queste tre affermazioni.
Dal nostro occhio sinistro, quello sensibile alla sostanza delle cose, dovremmo spiare da dietro una porta, segreti di sconosciuti; e talvolta quello che vedremo ci sembrerà una burla, ma la realtà supera anche la finzione, in un altro tempo. Così potrei riassumere con un patchwork di parole quello che unisce gli scatti grotteschi, malinconici della Eyre con le opere in mostra al Mart di Rovereto.
La Eyrenacque a Londra nel 1966, attualmente vive a lavoro a Toronto, nacque con il cranio unito a quello di sua sorella, furono separate da un delicato intervento chirurgico ma la sorella non sopravvisse. Ciò che sopravvive è il doppio austero, perturbante, negli scatti della Eyre.
Scatti inquietanti dove l’artista compare travestita e duplicata, come se fosse in continua ricerca di altra sé, quell’altra parte che perse per sempre.
Mise eccentriche e antiche, location macabre, kitsch e talvolta pop, il tutto volto ad una fantasmagoria onirica dalla quale se ne esce profondamente turbati. Scatti che traducono angoli di case sconosciute in enigmi e frammenti quasi strappati ad un film horror.
Siamo catapultati in un altro tempo proprio come osservando le opere in mostra al Mart.
La mostra è composta da sculture, dipinti, disegni, oggetti d’uso, grafica editoriale, libri, fotografie e arredi. Oggetti che popolano le foto della Eyre.
Oggetti quasi del tutto sconosciuti fuori dall’Inghilterra (non a caso patria natale della Eyre).
La Verginesottolinea: “L’interesse di queste opere non sta nel loro valore artistico, ma piuttosto nella loro capacità di evocare emozioni e sensazioni che sono appunto di “un altro tempo”: sono oggetti unici, spesso eccentrici rispetto ai canoni delle arti figurative.”
Eccentricità che troviamo nello scatto in bianco e nero firmato Beaton, dove Nancy Cunard o Edith Sitwell viene triplicata, ed ecco riproposto il perturbante dello scindersi; o nello scatto di Coburn, del 1917, una “vortografia” di Ezra Pound. Gli arredi di Fry, come le sedie decorate che sembrano proprio voler entrare in un futuro prossimo in una fotografia della Eyre.
Il busto scultureo dal gusto novantico di Guadier Brzeska, il progetto per un tappeto circolare con disegni stratti dell’Omega Workshop.
Ma cos’era l’Omega Workshops ce lo spiega sempre Lea Vergine nel comunicato stampa: “Laboratori di arti applicate creati da Fry. I manufatti, realizzati nei laboratori Omega, restavano anonimi. Del gruppo fece parte anche Percy Wyndham Lewis che redasse il manifesto del “Vorticismo”, pubblicato nel primo numero della rivista Blast. Lewis fu anche fondatore del “Rebel Art Centre”, altro atelier collettivo, sorto in contrapposizione all’Omega Workshops, con l’intenzione di raccogliere l’ala più intransigente dell’avanguardia inglese poiché considerava “troppo educati” i rappresentanti del gruppo di Fry.”
Anni importanti, centrifughi di idee che si assemblavano tra le diversi arti, un periodo, un arco di tempo che si dispiega a partire dalla fine dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento.
Tra decadentismo e modern style. Tra il sapore dello spleen al gusto di assenzio, al nuovo emergere dell’industria nelle arti.
E poi un quadro di Grant, un ritratto di James Strachey del 1910. Un uomo assorto dai suoi pensieri, contornato da libri, su una poltrona di velluto verde bottiglia, perde il suo sguardo in un altro tempo. Con alle spalle un paravento rosso dal gusto orientale, un japponisme tornato in voga giusto in quegli anni; gamba accavallata dal sapore intellettuale, mano ciondolante su un tappeto decorato. Quali potevano essere i pensieri di un giovane psicoanalista inglese, traduttore di Freud?
Il ritratto non solo di un uomo ma di una generazione in cerca.
Ezra Pound, Hilda Doolittle e T. S. Eliot, lo scultore Henri Gaudier-Brzeska, gli scrittori Edward M. Forster, Ford Madox Ford, James Joyce e David Herbert Lawrence Gertrude Stein a Parigi, i tre poeti Sitwell tra l’Inghilterra ela Toscana, ai futuristi inglesi “vorticisti”,il critico d’arte Roger Fry , i pittori Vanessa Bell e Duncan Grant.
“Tutti, amici fra loro, erano, in primis, materia di scandalo; e poi di acute insolenze e di erudite litigiosità. Tra questi, leader carismatici e molti supporter: ma tutti insieme formano un coro singolare. Studiosi di rara cultura, signore costumate e non, giovanotti morbidi e protervi, artisti concimati dalla paranoia, eccentrici in abbondanza; e poi, neurolabili, creature vampirizzate, soggetti psichiatricamente interessanti, anime smedesimate e altre afflitte da ego ipertrofici.” Racconta Lea Vergine.
E in eco e in seno a questa generazione, eccola là Janieta Eyre, tra le onde, una donna in mare.

Surrealtà a confronto

Tra finzione e realtà negli scatti di Les Krims e Toscani
di Federica Fiumelli. «II surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio dove si voleva prendere una camicia» Così dichiarava Frida Kahlo nel 1939.
Se “L’arte come la letteratura è la dimostrazione che la vista non basta” come Pessoa riteneva, gli scatti di un artista eccentrico dallo pseudonimo Les Krims, riesce attraverso le sue fotografie a fornirci un surrogato alla realtà, un plus, un sovrappiù, un carico dal sapore decisamente fantastico, proiettandoci nella dimensione surreale tanto cara a Breton e compagni già dal 1924.
Surreale diventa ciò che noi comunemente non ci aspettiamo di trovare in situazioni culturalmente definite, un uso improprio, dunque di qualcosa normo-concepita.

Nato a Brooklyn nel 1942, Richard Ben-Veniste, in arte Les Krims, iniziò studiando arti figurative per poi dedicarsi interamente alla fotografia. Durante la sua carriera artistica attraverso le sue immagini ha saputo fornire brillanti caricature dissacrando gli stereotipi della società americana.
Una dose forte e ridondante di umorismo nel suo lavoro, un umorismo (definito a mio parere brillantemente sul sito della galleria Paci Contemporarycorrosivo.
Un umorismo capace di corrodere, penetrare e quindi modificare la realtà con consapevolezza e ironia. Negli scatti di Les Krims ci troviamo davanti a scene prodotte da un sognatore in preda a deliri esistenziali ed epocali dal gusto severamente kitsch, qualcuno sembra quasi esclamare che l’eccessività è la norma.
Sul sito dell’artista – che merita una visita durante un qualsiasi momento libero nel quale sentiate l’esigenza di osservare stranezze e bizzarrie – egli stesso fornisce una descrizione per ogni serie fotografica.
Inizia lo zapping tra le gallerie fotografiche ed ecco Les Krims show e visionnaire. Ecco la parata di improbabili soggetti: nani, uomini e donne nudi, o mascherati, fisicamente imperfetti, coppie di anziani, fidanzati che spruzzano deodoranti nelle parti intime della partner, donne nude sul bordo di una vasca all’interno del loro bagno alle prese con eventuali depilazioni, scope, sedie, arredamenti esageratamente kitsch e spinti, robot di latta e ancora tacchi brillanti che dovrebbero stare su una qualsiasi passerella sostano e minacciano il cranio di un piccolo topo bianco. Un pollo che fa da versa latte e sullo sfondo la confezione dei Corn Flakes dei Kellog’s, ed ecco il Les Krims blasfemo della stereotipia pop e quella pubblicitaria, chi ci sta versando il latte per una colazione non certo da Mulino Bianco non è la solita modella sulla via della perfezione che ci sorride con denti sfavillanti, no, è un busto di una donna grassa, probabilmente verso i sessanta anni d’età, con mutandoni che ricordano l’amabile e sbadata Bridget Jones, e senza reggiseno, con un seno decisamente cadente, che sente e avverte la forza di gravità, un seno che l’estetica contemporanea non vorrebbe, visto che oggi imperversa l’uso di mastoplastica additiva.

E allora apriamoli questi ombrelli contro il vero cattivo gusto, quello che è ormai capillarmente diffuso tra noi gente comune, proprio attraverso immagini caricate, di questo tipo, attraverso cioè la negazione della normalità, noi possiamo capire e riflettere sulla quotidianità di tutti i giorni.
Se attraverso la finzione quindi si può arrivare ad una critica costruttiva della realtà vigente, la provocazione e l’eccesso servono proprio per dare questo effetto di surrogato alla realtà.
La realtà può anche diventare iperreal mostrandosi così com’è, senza orpelli o finzioni, ma nuda e cruda, sembrando così … surreale; così reale da non sembrare vera.
Un maestro in questo lo è stato sicuramente Oliviero Toscani che tramite la sua fervida collaborazione, ormai da anni, con la casa di moda Benetton, ci ha regalato scatti provocatori e stimolanti, veri e propri cazzotti visivi, ai quali non si può reagire con indifferenza.
Un ottimo saggio di Gabriella Bartoli in “Moda relazioni sociali e comunicazione” edito da Zanichelli offre interessanti spunti per comprendere la poetica delle più famose pubblicità di Toscani.
Era il 1992 e Toscani fece scandalo e scalpore attraverso due note immagini, una dove un bambino impugnava un kalashnikov e l’altra dove un vero malato di Aids veniva ritratto nel proprio letto di morte in mezzo al compianto dei parenti. “La devastazione così esibita è sì reale ma nella sua ricontestualizzazione essa diventa teatrale” così afferma Carol Squiers, scrittrice ed editrice fotografica newyorkese. E’ così che alcuni nel malato disteso a letto rivedono unariattualizzazione concreta e moderna della sofferenza, riportando in vita capolavori come il Cristo del Mantegna.
Toscani scopre, denuda le vergogne per suggerire di ricoprirle attraverso il marchio di modaUnited Colors of Benetton, ed è qui che entra il gioco sottile della pubblicità che colpisce, incuriosisce e arriva al proprio scopo, quello cioè di incentivare le vendite, convincendo l’acquirente ad acquistare un capo d’abbigliamento.
Immagini di bambini di diverse etnie, immagini di emigrati, di sfruttamento infantile, di un prete e una suora che si baciano, il contrasto tra una coppia di bambini, uno assomigliante ad un putto angelico, biondo e boccoloso abbracciato ad un bambino di colore acconciato come un diavoletto.
L’ironia dissacratoria è ancora protagonista proprio come negli scatti di Les Krims, è sì servita diversamente, ma il messaggio fotografico ci aiuta in entrambi i casi a riflettere sulla humanaconditio. Riferimenti, richiami, da queste immagini ci viene continuamente lanciato un amo, sta a noi scegliere se farci pescare o meno.
L’inconsueto, il vietato, l’orrore, la bruttezza, la volgarità e il kitsch ci sono state presentate fin qui daglia scatti sia di Les Krims che di Toscani. Ostentazione? Può darsi. La bellezza sta nella riflessione, nell’inaspettato, nell’inciampo, nell’interrogazione sulla verità della normalità, anche se come affermava Breton: “Nessuna verità merita di rimanere esemplare.”

Imagine. What else?

di Federica Fiumelli. “You may say I’m dreamer but I’m not the only one.”
Così cantava John Lennon nel 1971, nel video insieme alla sua amata Yoko Ono.
Donna dai misteri e profumi esotici ed orientali, grande artista del Novecento, portatrice sana di una smaterializzazione concettuale dell’universo, artista all’avanguardia da sempre.
Il loro, simbolo dell’amour fou, che brucia le anime affini e complementari.
Vista da molti come la rottura e la discordia tra i membri dei Beatles, in realtà Yoko Ono, è stata a detta dalla stesso Lennon, insegnante, moglie, amante e migliore amica, punto riferimento centrale ed essenziale degli ultimi anni di vita del cantante membro della band più famosa del Novecento.
Figlia di benestanti giapponesi, da subitola Ono, intraprese relazione con il mondo dell’arte.
L’incontro con Lennon non a caso avvenne in una galleria newyorkese durante una mostra della stessa. I caldi anni sessanta vedono la Ono protagonista di numerose e significative produzioni artistiche. Nel 1964 diede vita ad unaperformance che ha tutti i diritti di annoverarsi tra le più importanti della storia, Cut Piece, vede la Ono protagonista in una stanza vuota inizialmente vestita, nell’evolversi della situazione, i partecipanti potranno interagire con la stessa attraverso un atto altamente simbolico come quello di tagliare i vestiti indossati.
Attraverso interventi di questo tipo l’artista ha sempre voluto risvegliare la mente della gente, ridestarli dal torpore dell’usuale, dell’ordinario, del quotidiano e del senso comune.
“L’unico suono che esiste per me è il suono della mente”, “I miei lavori vogliono solo stimolare la musica della mente nella gente”,  e ancora “Occorre sbloccare il cervello” dichiara l’artista.
Maestra del think different, sempre nel 1964 è autrice di un’opera chiave per la sua poetica, un libretto di Istruzioni per l’arte e per la vita,Grapefruit.
Scritto dai consigli inusuali, veri e propri haiku in linea con la filosofia esistenzialista e zen della qualela Ono è intrisa.
“Metti su nastro il suono delle stelle in movimento. Non ascoltare il nastro. Tagliuzzalo e dallo alla gente in strada.” Oppure, “Ascolta il suono della terra che gira” e ancora “Ridi per una settimana” o “Fuma tutto ciò che puoi. Compresi i tuoi peli pubici.”
Ambiente, cosmo, smaterializzazione, pensiero, leggerezza, condivisione.
Come non si può pensare ad uno straordinario anticipo di piattaforme sociali di instant condivisioncome FacebookTwitter, o Instagram, mezzi, i quale l’artista tutt’oggi usa, comunicando con i suoi fansfollowers.
Tra quest’ultimi posso esplicitamente in prima persona collocarmi, sentendomi come gli altri parte di operazioni artistiche recenti come Smiles Film o ilwebsite event 100acorns fresco fresco di pochi giorni fa, attraverso il quale su Instagram, tramite illustrazioni in bianco e nero, ripropone Grapefruit, con consigli come: Summer. Imagine a dolphin dancing in the sky. Let it damce with joy. Think of yourself at the bottom of the ocean watching. Mage a group of dolphins dancing in the sky. Blow kisses to them in your mind.
Piace a 70 persone. Commenti, confronti, la people that imagine all is possible, in situazioni paradossali aprendo la mente senza ogni tipo di paracadute, segue l’artista.
La descrizione, intro di 100Acorns è: Feel free to question, discuss, and/or report what your mind tells you. I’m just planting the seeds. Have faun. Love, yoko.
Con affetto e amore la Ono, rimane in contatto con i suoi stimatori, attraverso la parola chiave Imagine, tanto cara anche a Lennon.
La serie  recentemente caricata su Instagram riporta un cielo graffiato da soffici bianche nuvole sfumate, leggere, ed ecco che al centro una parola sovrasta: Imagine Peace, ela Ono ripete l’operazione ogni volta in lingue diverse, cinese, arabo, francese, italiano, giapponese, indiano, nessuno è escluso dal sogno di immaginare la pace.
L’ultimo obiettivo nel film-making è quello di assemblare in un filmato tutti i sorrisi del mondo.
“Io amo questa donna!” E’ stato il primo pensiero che ha accampato la mia mente mentre sul web quest’estate mi sono imbattuta nella notizia.
La partecipazione è delle più semplici, occorre caricare la foto di un sorriso, vostro, o di persone che conoscete, suInstagram o Twitter con il tag #smilesfilm.
Tutti e dico tutti, nessuno escluso, anche tu, curioso lettore che stai leggendo per caso queste righe e non ne sapevi niente prima, puoi esserci.
Democratica, troppo commerciale?
La relatività pirandelliana ci lascia libero arbitrio, lasciando alle persone di decidere se amare o dubitare delle intenzioni dell’artista.
La certezza è che dopo Forget It del 1966, le Chiavi di vetro per aprire il cielo del 1967, ilDistributore d’aria del 1971, A box of smile del 1967 e tante altre opere, la Ono colpisce ancora, la volontà di un grande cerchio di persone che si abbracciano intorno ad un fascio di luce che sembra unire cielo e terra come nella foto dell’Imagine Peace Tower dedicata a Lennon, sembra essere un progetto duraturo, che riflette la poetica dell’artista giapponese.
E stavolta con un consiglio al giorno volenteroso di togliere da torno qualsiasi ipotetico medico, e con un sorriso (ammontano attualmente a 12.117 i sorrisi raccolti), Yoko ci spinge a volare lassù nel blu dipinto di blu, a immaginare la pace.

Urban Restyling

La street art firmata Vermibus e Abraham
Canterò le mie canzoni per la strada | ed affronterò la vita a muso duro | un guerriero senza patria e senza spada | con un piede nel passato | e lo sguardo dritto e aperto nel futuro. | E non so se avrò gli amici a farmi il coro | o se avrò soltanto volti sconosciuti | canterò le mie canzoni a tutti loro | e alla fine della strada | potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.

di Federica Fiumelli. Prendiamo queste incisive parole del grande cantautore italianoPierangelo Bertoli, teniamo a mente, la parola strada, e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Prendiamo una cartina geografica, poil’Europa, poi la Germania e la Francia.
A volte ci sono fili trasparenti che partono da lontano, fanno giri immensi e poi legano cose, persone, idee apparentemente distanti ma straordinariamente vicine.
Se Kerouac sosteneva che la strada era lì e bisognava andare, occorreva andare, spostarsi, muoversi, ecco questo breve trip tra queste righe, in questo articolo, si dispiegherà lungo le strade di alcune città, incluse quelle italiane, alla ricerca di stimoli, di nuovi occhi, grazie a due interessanti artisti europei che operano in maniera molto simile.
Fil rouge sarà la tanto chiaccherata e discussa street art, arte pubblica, sociale, quella che tutti ma proprio tutti possono incontrare semplicemente passeggiando per le strade; illegale? Brutta? Inutile?
Personalmente credo che ci sia ben altro che rispecchi questi quesiti, quello che è certo è che la strada è il primo spettacolo che abbiamo, senza pagare alcun biglietto, un teatro urbano il teatro della strada, un museo a cielo aperto.
Clet Abraham, artista francese, nato in Bretagna, ha viaggiato molto in Italia e non a caso ha il proprio studio a Firenze, dove passeggiando per le strade, alla vista di ordinari cartelli stradali si può notare qualcosa di nuovo. L’artista si definisce sticker street artist, i suoi intereventi infatti non comportano danni o eccessive modifiche, si tratta semplicemente di sticker applicati ai normali cartelli.
Siamo costantemente e quotidianamente sottoposti a normalizzazione e standardizzazione, la volontà d queste operazioni quindi è quella di riportarci ad uno stato di straniamento mentale.
Si vuole vestire di nuovi colori e sensazioni estetiche la vecchia e impolverata routine. Se, soprattutto in Italia, non si è potuto farlo negli ultimi vent’anni in politica almeno in strada, l’arte si impone nella sfera pubblica e sociale, e anche da esempi europei, possiamo prendere spunto, per comprendere che cambiare qualcosa che sembra immune si può, e bisogna crederci.
In un intervista Abraham dice che per street art si poteva intendere anche il David di Michelangelo ai suoi tempi, visto che, se tutta l’arte è contemporanea del proprio tempo, anche Michelangelo voleva dire qualcosa attraverso un’opera pubblica.
L’artista francese in un’altra intervista, afferma che i cartelli stradali, sono simboli di un’autorità cieca, obbligano, impongono, dirigono, sbarrano, vietano; occorre che l’arte costruisca un senso civico critico e responsabile, non dobbiamo andare di là perché dall’altra parte ce lo vietano, non dovremmo andare di là perché dovrebbe essere il nostro buon senso a capirlo.
Ed ecco, il restyling ironico e pungente, cristi, omini, diavoletti, popolano i cartelli esaltandone il significato.
Il divieto di accesso, diventa una pesante sbarra che un omino chinato deve portare, le due frecce diventano gambe di un corridore diabolico dal corpo geometrico, quasi alla Oscar Schlemmer.
Un restyling non cambia totalmente quello che è presente, lo altera, lo modifica con l’intento di stupire, di un different whatching.
Continuiamo a camminare per la strada, arriviamo fino a Berlino.
Un nome, Vermibus, ma anche un parametro estetico e si capirà perché.
Ed ecco, che scende la notte, un ragazzo incappucciato, si aggira per le strade tiepidamente illuminate, fredde e addormentate, con una bicicletta. Si avvicina ad alcuni manifesti pubblicitari, pressoché di moda, li stacca, li rotola e se li porta via. A che scopo?
Tornato nella sua officina, ecco che inizia il restyling, un salone di bruttezza più che di bellezza, anche la Sherman approverebbe (vista la personale parabola nell’ambito della moda, attraverso travestimenti orrorifici e grotteschi) benzina, acetone e diluente, e taaac, l’urlo di Munch urlerebbe, ma dalla gioia di scorgere altri simili, da super modelle come Kate Moss ecco venirne fuori dei mostricciatoli, delle masse ibride, tra pittorico e fotografico, dove la pennellata centrifuga di Van Gogh di una Notte Stellata, ne sarebbe attratta.
Movimento inquieto, espressionista, che rompe gli schemi e i confini, i volti, la pelle sono cancellati, modelle alla Bacon, una nuova ricetta che passa da promettenti sogni di moda a destabilizzanti, perturbanti, turbati incubi. E’ il tripudio del disfacimento della carne, tutto è groviglio, impasto, centrifuga sembrano comparire solo fibre muscolari-pittoriche, quasi come tantivermicelli.
L’effetto di straniamento e inciampo è riuscito. Altro che shampoo.
L’artista berlinese scippa le sue top-victim e le ripropone con un restauro altamente corrosivo, apportando una modifica, un restyling in quel luogo visivo certo come è il cartellone pubblicitario, promessa di sogni di (vana) gloria e bellezza.
Sul sito dell’artista, attraverso un video caricato on Vimeo, è documentato tutto il lavoro.
Open walls in open minds.
Cammini per la strada, e paam, ecco che inciampi, il solito scalino invisibile, ti spettavi di vedere la solita ultra bellissima top che con sorriso smagliante e aria ammiccante promuove l’ultimo capo Chanel, e invece no, te la ritrovi letteralmente mostrificata, in preda al grido e al terrore.
Anche Schiele avrebbe apprezzato, sorridendo penso che un mi piace lo avrebbe messo.
E voi? Condividete?

Il Manierismo silenzioso di Christy Lee Rogers

L’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene.
Così il tempo presente.
Leonardo da Vinci, Codice Trivulziano, 1487-90

di Federica Fiumelli. L’acqua come sinonimo di tempo, l’acqua come rinascita, come purificazione, come catarsi, come riflesso e specchio di Narciso.
L’acqua è da sempre stata fonte di ispirazione per l’uomo dall’antichità ad oggi, dal mito ai lavori contemporanei, le installazioni-video di Bill Viola.
Se avete qualche post-it vuoto sulla scrivania e siete capitati tra queste righe, appuntatevi il nome di Christy Lee Rogers.
Fotografo autodidatta hawaiano, lavora soprattutto in America dove vive, ma le sue fotografie hanno letteralmente fatto il giro del mondo, finendo anche in alcune collezioni private.
Scoperti per puro caso, sono inciampata negli scatti di Lee Rogers e non ho potuto fare a meno di apprezzare questo interessante artista che fotografa esclusivamente in acqua e di notte.
Guardando di primo impatto le foto, non si può non pensare ai grandi maestri del Rinascimento.
Le forme, le muscolature, le luci, l’evanescenza dei panneggi, la composizione strutturale e l’impatto fortemente teatrale ci prendono per mano e ci riconducono nella galleria della memoria della storia dell’arte, ed ecco apparirci come costellazioni i nomi dei grandi come Caravaggio, Michelangelo o Pontormo.
Le fotografie dalla resa sicuramente contemporanea anche per la tecnica utilizzata diventano splendidi innesti che ci riportano al passato.
Reckless UnboundOdysseySiren, i titoli delle collezioni.
Figure anonime, penitenti con le braccia aperte e libere, grovigli di corpi dai fisici pallidi e scultorei, panneggi serpentini dai colori tenui e caramellati, zuccherati, manieristi, in cui dominano astrattezza e fantasia; le figure di Lee Rogers si confondono, nascono e finiscono, fluttuano senza peso e senza memoria come dopo un naufragio shakespeariano, riemergono dalle loro stesse tragedie, rinascendo nell’acqua, come segno primordiale, corpi che ritornano alla fase di pre-nascita, in liquido embrionale. La fenice rinasce dalle proprie ceneri.
Tutto è fuori tempo e fuori spazio, la non dimensione, il non luogo, il non esserci, l’altrove di Lee Rogers si propone al nostro sguardo con astrazione delle forme ma con elegante e sapiente teatralità del gesto che sembra perdersi per sempre nelle acque dell’universo.
Come Bonami scrisse nel suo libro “Lo potevo fare anch’io”, l’astrazione è all’origine della nascita delle cose, la confusione, il groviglio il caos materico e formale che si intreccia in un morboso atto d’amore nelle opere di Lee Rogers, è  posto prima di tutto, prima della definizione, e prima della creazione stessa.
Splendidi seni, rotondità, gambe e toraci, sono sospensioni di corpi dell’altrove, di semi-dei maledetti, carni nude bianche e rosee, degne della Venere di Urbino di Tiziano.
Veneri erranti e contemporanee quelle di Lee Rogers.
Nella serie Siren, i corpi femminili diventano un tutt’uno di trasparenze medusine, nello scatto Argetina, per esempio, il corpo e il velo si intrecciano formando una scia di fumo, quasi ul alga grigia e preziosa. I corpi danzano nel liquido, riemergendo e scomparendo, celandosi dietro l’apparenza. E poi gli insiemi dei corpi, gruppi di anime che si intersecano come schemi, tra veli bianchi, blu, rossi, che fanno quasi eco alla bandiera gloriosa della Libertà che guida il popolo a seno di nudo di Delacroix.
Gli scatti di Lee Rogers, diventano dei tableaux-vivant senza posa, sbiaditi dalle onde centrifughe e inarrestabili dell’acqua, dove il caso strappa al definito.
Le presenze diventano comparse, sono i qualunque senza contorni certi; i colori pastello acquerellati gravitano nell’assenza, e rassicurano lo sguardo confondendo le forme. Le muscolature e la passione irruenta di Caravaggio viene prosciolta e liberata in fredde acque gelide o in calde acque tropicali, a seconda dei vostri gusti.
I panneggi filanti ripescano nella memoria anche le movenze farfalline dell’attrice teatrale e ballerina statunitense Loie Fuller, le danze serpentine vengono congelate anche esse nell’attimo del fotografico.
Tutto è movimento, tutto è caduco, tutto svanisce nella bellezza della forma che ritorna astrazione.
Tutto è un grido soffocato nel grande acquario della vita, note sorde e mute, il silenzio come nei 4.33 minuti di John Cage. Il rumore della vita è forse quello del movimento acquatico.
E chissà se i protagonisti di Lee Rogers, riemergeranno delle acque come il volto nel video No Surprises dei Radiohead, rovesceranno il Governo che non parla per noi e per loro, guariranno le loro ferite, e supereranno il naufragio. Silenzio.

A heart that’s full up like a landfill
A job that slowly kills you
Bruises that won’t heal
You look so tired and unhappy
Bring down the government
They don’t, they don’t speak for us
I’ll take a quiet life
A handshake of carbon monoxide
No alarms and no surprises
No alarms and no surprises
No alarms and no surprises
Silent, silent


LETIZIA BATTAGLIA

Le luci e le ombre di una donna d’amare chiamata Sicilia
 Ieri ho sofferto il dolore,
  non sapevo che avesse una faccia sanguigna,
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d’orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perchè l’immobilità mi fa terrore?
(Alda Merini)

di Federica Fiumelli. Poi un’immagine di donna dai capelli rossi, i capelli rossi delle muse preraffaellite, e una Leica al collo, al posto degli occhiali, ma è quella macchina fotografica la vera estensione di quello sguardo.
Lo sguardo di Letizia Battaglia.
Facendo zapping televisivo dettato dalla noia che probabilmente i palinsesti della tv di tanto in tanto propinano mi sono imbattuta in uno speciale di Rai Educational dedicato alla fotografa siciliana.
E’ stato impossibile distogliere l’attenzione fin da subito, il fascino che emanava la voce ruvida di quella donna dall’energico caschetto rosso, la passione con la quale faceva vibrare le parole dei suoi racconti, racconti alternati da fascinosi tiri di sigaretta, racconti di dolore, il dolore legato all’amore amaro (non a caso il titolo dell’ultimo speciale dedicatole su SKYarte) per la sua Palermo.
Classe 1935 Letizia Battaglia iniziò a collaborare per il giornale l’Ora e altre riviste, fotoreporter di una Palermo di piombo, i suoi scatti riportano immagini terribili e agghiaccianti, delitti, vittime e fiumi di sangue versati dalla cicatrice del volto siciliano, la mafia.
La patria di arte importante come il teatro dei pupi, le vastasate, Pirandello e Sciascia, negli anni Settanta divenne teatro degli orrori assurdi, di stragi umani dettate dall’impossibilità di comunicazione e dalla sola voglia di potere.
Davanti a tutto ciò la Battaglia soffrì il dolore, lo stesso dolore chela Merini diceva di essere mancanza di orizzonti, perché non si può scorgere un bel futuro davanti a tanto orrore ed ingiustizia, a tanta morte e assurdità.
Gli scatti della fotogiornalista siciliana sono elusivamente in bianco e nero, in un’intervista dice di non amare i colori nelle foto, e così la dicotomia tra bene e male, tra luce e oscurità si trova protagonista di una resa narrativa interessante. Gli scatti diventano pagine di storia di un’Italia che sta male, pagine in bianco e nero, gli sguardi dell’artista che tutt’ora ci parlano e ci costringono a una dolorosa riflessione, in silenzio. Bambini dagli occhi tristi, donne disperate, delitti, corpi senza vita, stradine caratteristiche, mercati, i mille volti di Palermo.
Molte volte la stessa Battaglia ha affermato in alcune interviste di aver voluto bruciare, di aver voluto disfarsi di tutte quelle immagini martorianti, di quelle visioni entrate nella sua mente e nel suo cuore con prepotenza, la volontà di cancellare il suo esser stata lì, testimone di un continuo teatro di morte e scandali.
Nonostante sia stata pluripremiata in tutto il mondo dall’Europa all’America con riconoscimenti molto importanti come il premio Eugene Smith, il suo cuore, i suoi occhi sono legati a Palermo, a quella città complessa e delicata, piena di contraddizioni e debolezze, semplice e umile, come una bella donna da essere amata. Quelle strade, quella gente, quei bambini, quelle donne, i mercati, il mare, leganola Battaglia alla terra siciliana.
E’ un amore difficile, amaro, aspro come i limoni di Sicilia, che bruciano gusti e visioni, ma un amore che se levigato da uno sguardo poetico acquista valore nella memoria del domani.

Negli ultimi anni, i lavori che rubano definitivamente il mio interesse, sono opere di mescolamento, la Battagliainserisci splendidi corpi di nudi femminili nelle foto antecedenti, nelle foto dove protagonista era la morte, la mafia. Ed ecco spostare il punctum dallo ieri, all’oggi, l’artista vuole porre l’accento su una femminilità genitrice di vita, pura, sull’eros, sulla bellezza, sulla vita.Un amore nonostante tutto. I suoi scatti sono importanti per non dimenticare l’orrore, la violenza, la brutalità, la povertà delle scaltre intenzioni, per non essere indifferenti alla società; che non si può far finta di niente, non si può non riflettere, non si può non sapere, non si può non pensare, non si può non fermarsi davanti a un realtà che ci appartiene, perché la realtà come la storia è un bene di condivisione.
Ed ecco che nelle ultime foto, il bianco e nero non diventa l’unico contrasto, ma bensì la contrapposizione temporale, l’inserimento di bellissime donne nude in scene di cruda storia, portatrici una sofferta speranza, alimentano la dicotomica luce e ombra di male e bene.
Innesti di corpi nudi incontaminati fanno irruzione nella corruzione, nel dramma denominato mafia.
Ed ecco in primo piano una donna bagnata dalle lacrime di pioggia e sullo sfondo uno dei nostri orgogli italiani, Giovanni Falcone.
“Lascia, lascia la vanità, ti dico lasciala, ma avere fatto in luogo di non avere fatto, questa non è vanità, questa frase di Ezra Pound l’artista dice di esserle scolpita nel cuore. “L’errore sta tutto nel non fatto, sta nella diffidenza che tentenna.”
Un’artista ma anche una donna impegnata socialmente e politicamente, “tutto quello che faccio è politica, quello che mangio, come mi vesto, sono legata a un’idea politica di democrazia e di giustizia” dice in un’intervista. Non ci si può esimere dalla politica quindi, diffidiamo dagli analfabetici politici come scriveva anche Brecht, l’appello è quindi quello di evitare l’indifferenza soprattutto in questo periodo che vede un’Italia in crisi e ingovernabile.
Fondatrice di Mezzocielo,la Battaglia ha sempre omaggiato la figura della donna, fiera di esserlo, vede nella donna, la propensione la cambiamento, e gli ultimi lavori lo dimostrano.
Allora chiudiamo con l’immagine di una donna con i seni nudi nel mare di Sicilia, con dietro anch’essa immersa nell’acqua la stampa della fotografia di un bimbo dal volto coperto con in mano una pistola, la poesia del mescolamento nei mari mediterranei ha in sé disperazione, speranza e un amore amaro, sembra quasi sentire cantare Janis Joplin, cry baby, note ruvide e bagnate come il mare, come le lacrime.

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