"Forse sei troppo giovane per capire, alla tua età 
io non avrei capito, non avrei immaginato che la vita fosse come un 
gioco che giocavo nella mia infanzia a Buenos Aires, Pessoa è un genio 
perché ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell'immaginato, la
 sua poesia è un juego del revés." 
L'opera Se il cielo fugge della giovane artista bolognese 
Irene Fenara, pensata per i nuovi spazi di Adiacenze, che dopo sei anni 
di attività si rilancia e si rimette in gioco con nuove proposte 
culturali, funziona alla stregua del gioco del rovescio narrato da 
Antonio Tabucchi. Le puéril revers des choses, la citazione di Lautréamont che apre il libro dello scrittore pisano, ci annuncia e sussurra qualcosa. 
Se il cielo fuggisse veramente saremmo costretti a ridefinire i 
nostri punti di vista, proprio come ha scritto Maria Vittoria Tagliati 
nel testo critico dell'esposizione. L'opera accompagnata dalla 
composizione sonora di Francesco Privato, artista sonoro e dj producer 
legato alla produzione di musica elettronica e rivolto verso una ricerca
 artistica più sperimentale, gioca con noi riflettendo sul senso e 
sull'essere della visione, ma non solo, anche della produzione 
artistica, come la pittura o la fotografia. L'artista infatti riprende 
il concetto della fisiologia dell'occhio umano e l'opera diventa una 
metariflessione sulla rappresentazione.  
Che cosa è veramente rovesciato? Chi osserva o chi è osservato? A 
metà tra il possibile e l'impossibile, l'orizzonte che coniuga mare e 
cielo diviene limen finissimo, e come una linea incerta pronta al 
naufragio sembra essere scritturata da Christopher Nolan. La finzione è 
da sempre l'ombra legata al reale, e la connessione tra le due è 
talmente importante e imprescindibile che l'arte è sempre pronta a 
ricordarcelo. 
Entrando nelle stanze di Adiacenze si è subito risucchiati nella 
vertigine, elemento che funge da cardine nel modus operandi della 
Fenara. Nella vertigine l'elemento del precario è seducente tanto quanto
 imminente e la paura di qualcosa di nuovo che spiazza le nostre 
percezioni stabilizzate è talmente grande che talvolta gestirlo diventa 
un compito assai arduo. Un video, una proiezione, la partitura sonora, e
 l'architettura spoglia del luogo espositivo. Questi gli oggetti 
costitutivi del site specific. E poi i calanchi delle colline bolognesi e
 il mare di Rimini, i riferimenti geomentali dell'artista. 
La dimensione spazio/tempo si increspa nel movimento vuoto di un mare
 che è limite e parte complementare e speculare di un cielo che appunto 
rifugge. Il cielo non sta più inchiodato all'insù e si sveste delle 
solite certezze, sfida la gravità e si ancora al sogno. L'abbandono 
affianca così la vertigine in balia di un totale smarrimento. Le 
convinzioni, come le posizioni vacillano e si disperdono nelle sonorità. 
Cito qui, le parole di Albert Camus in Il mito di Sisifo: 
"Pensare non è più unificare, render familiare l'apparenza sotto 
l'aspetto di un grande principio; pensare è imparare nuovamente a 
vedere, a essere attenti, è dirigere la propria coscienza, fare di ogni 
idea e di ogni immagine, alla maniera di Proust, un luogo privilegiato".
  
I paesaggi scelti dall'artista sono appunto luoghi privilegiati, 
pronti ogni volta a voltarsi, a girarsi, rovesciarsi, capovolgersi, 
contraddirsi, ribaltarsi e mettersi in discussione. L'unità 
contraddittoria proposta dalla Fenara ci trascina in una dimensione 
altra, ristabilendo il gioco come elemento primario per riscoprire le 
proprie facoltà cognitive. Con audacia e un titolo che farebbe da 
incipit a una narrazione poetica, Se il cielo fugge non lascia che la voglia di una visione nel e del vuoto. 
A little conversation
Irene, se il cielo fugge, l'artista Fenara dove rifugge? (Se rifugge)
Non tanto la fuga, quanto la caduta mi attrae. Non scappo ma ci cado 
dentro. Sono, forse, un “cascatore” che precipita, buttandosi, 
lasciandosi andare, spostandosi dall’alto verso il basso o viceversa, 
mosso dal proprio peso interiore.   
Nella tua poetica, la parola vertigine ha sempre una significanza rilevante e riesci sempre a raccontarla attraverso le tue opere o interventi a colui che osserva, in maniera eloquente. Ce la potresti definire a parole?
Quella che voglio raccontare è una vertigine emotiva e il tentativo 
di familiarizzare con questa esperienza, che esprimo attraverso la 
sensazione fisica. Per me una vertigine emotiva è una scelta, è caderci 
completamente dentro. Familiarizzare con la vertigine significa 
praticare, conoscere ed esperire la sensazione come fanno i bambini, che
 trovano una forma di piacere nello smarrimento prodotto dal 
disequilibrio, dal vortice e dal girotondo. La vertigine, nella sua 
forte simbologia, consegue la ricerca dell'equilibrio, della stabilità e
 della felicità, ricerche che non trovano conclusione se non nella 
comprensione del loro essere fluide e ondulatorie. Un equilibrio fatto 
di continui bilanciamenti tra gli opposti in un perpetuo movimento. Ed è
 nel movimento o muovendosi rispetto ad altri oggetti che la vertigine 
cresce, sui mezzi di trasporto e con la cultura della velocità che 
accorcia gli spazi e aumenta le possibilità di spostamento. Quando 
crediamo di poter arrivare dappertutto, di sapere tutto, di avere tutto 
ribaltare i punti di vista può essere salvifico. Crediamo e pretendiamo 
di vedere dappertutto ma la visione dipende strettamente dalla gravità e
 quindi dalla nostra relatività.
C'è un artista che fin da quando ti sei avvicinata all'arte ti ha particolarmente ispirata? E c'è qualcuno che invece ritieni esserti lontano come approccio creativo?
Gli artisti di ispirazione sono tantissimi, mi limito a parlare di 
quelli che ho guardato molto, prima e durante la costruzione 
dell’installazione Se il cielo fugge. Mi sono ispirata 
soprattutto ad artisti come Bruce Nauman e ad artisti che hanno lavorato
 e lavorano in una situazione intermedia tra arte e cinema con un 
distacco dai linguaggi codificati a favore di una ricerca formale. Ho 
guardato la sperimentazione filmica del Cinema strutturale, in 
particolare quella di Michael Snow. Quello che mi affascina del Cinema 
strutturale è il perseguimento di forme semplici, in cui è la forma che 
produce il significato ancora prima del contenuto narrativo che tende ad
 azzerarsi. Lo strumento linguistico o il linguaggio diventano forme di 
pensiero in cui gli elementi essenziali che permangono creano il senso. 
In Se il cielo fugge ho utilizzato un movimento all’indietro e 
ribaltato che si concentra su una prospettiva centrale. Visivamente la 
vertigine è causata dalla vista delle linee prospettiche verticali 
fortemente in fuga. La prima forma di questa vertigine è riscontrabile 
nella prospettiva rinascimentale nata dall’intersezione sull’orizzonte 
apparente delle linee di fuga. Le linee fuggono come il cielo. Mi 
interessa la capacità gravifica della prospettiva, che promette una 
precipitazione nell’abituale percezione.  
C'è un'opera che ha cambiato il tuo modo di guardare, osservare e percepire lo spazio/tempo?
L’opera del filosofo e urbanista esperto di nuove tecnologie Paul 
Virilio. I suoi scritti sul modo e sulla velocità con cui la tecnologia 
si sviluppa e influenza tutto il resto, soprattutto la percezione dello 
spazio-tempo. Mi interessano moltissimo i modi con i quali la tecnologia
 cambia anche il nostro modo di vedere, sui dispositivi della visione e 
sulla visione delle macchine. A volte pensando a Vedute, un 
video che ho fatto nel 2013, non posso non affermare che non avrei 
potuto idearlo se prima non avessi visto le immagini satellitari di 
Google Earth. Ho infatti ripreso muri scrostati e ammuffiti aggiungendo 
alle immagini in movimento l’audio dell’interno di un aereo, come 
metafora di geografie e paesaggi visti dall’alto. Questo mi fa 
riflettere sulle infinite modalità con cui la tecnologia agisce e ha 
agito sulla nostra capacità di osservazione e interpretazione di ciò che
 ci sta attorno.  
In un mondo impossibile, dove tutto è il rovescio di tutto, che immagine possibile può resistere all'apocalisse dell'incomprensione?
Mi viene in mente un racconto per bambini, ambientato in un paese 
dove tutto è al contrario e in cui i bambini devono tenere in disordine 
le proprie stanze se non vogliono rischiare di andare a letto senza 
cena. È una storia che, esasperando certe situazioni, fa riflettere su 
abitudini che già abbiamo e che fanno sembrare logiche cose assurde, 
tanto assurde che sembrano già ribaltate per come le conosciamo. Il mito
 del mondo alla rovescia è ormai consolidato e indica un’aspirazione a 
orientare e ordinare il mondo in un modo tendenzialmente migliore o 
semplicemente nuovo. Quello che rimane è forse una consapevolezza 
sull’importanza della diversità né giusta, né sbagliata semplicemente 
altra.
Dove fugge l'arte, oggi, secondo la tua visione di giovane artista? Ammesso e concesso che fugga.
L’arte che fugge, scappa da un pericolo. I pericoli sono 
riscontrabili, forse, nel disorientamento che comporta l’allargamento 
dei confini dell’arte. Oggi si è aperto un vastissimo orizzonte nel 
quale è facile perdersi, ma dove si possono anche trovare nuove 
opportunità. Io credo che le nuove opportunità siano nella produzione o 
nella messa in evidenza di un qualche tipo di differenza nello sguardo, 
nel pensiero, nel modo di fare cose e scelte. L’arte è una via che può 
permettersi di andare a indagare il particolare, il dettaglio, la 
piccola storia. Diventa un modo di guardare e conoscere il mondo. Il 
mondo è molto più complesso, sfaccettato e imprevedibile di quel che 
siamo soliti pensare e forse l’arte, allargando i suoi confini, ci si 
avvicina.
Federica Fiumelli







 





